Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Quando Lazzaro uscì dal sepolcro, dov’era stato tre giorni e tre notti nell’enimma sovrano della morte, e vivo ritornò alla propria dimora, nessuno colse in lui quella funesta estraneità che rese terrifico col tempo il suo nome stesso.
Il Lazzaro di Andreev, fin dalle primissime battute, mostra tutta la sua diversità rispetto alla figura di Lazzaro per come emergeva dal dramma teatrale di Pirandello (qui). Mentre lì si trattava di diversi tipi di religiosità a confronto, una più rigorista ed esangue, l’altra maggiormente legata alla terra, immanente e vitale; in questa novella, al contrario, tutta l’attenzione viene dirottata dal problema della religione e della sua “pratica”, per mettere al centro la vicenda di Lazzaro, ossia il problema della morte. La morte non però come problema fra gli altri, bensì come problema dei problemi, come radice di ogni dubbioso e timoroso domandare. La morte assurge ad “enimma sovrano“, enigma degli enigmi, lo ur-enigma, quello da cui tutti gli altri discenderebbero.
La vicenda di questo Lazzaro è tanto straordinaria ed inconcepibile da essere, da principio, misconosciuta da quelle stesse persone che lo circondano, persone che non ne riconoscono la “funesta estraneità“. Questo uomo, risvegliato da un sonno eterno, si porta però dietro tutte le tracce del frenetico lavorio della morte che corrode il corpo: col suo “terreo lividore”, ha la pelle tumefatta ed è attraversato da crepe, è pieno di protuberanze e il corpo, gonfiatosi durante la sepoltura, ha assunto “proporzioni mostruose”. Il lavoro della morte, però, non ne ha segnato indelebilmente solo il corpo, ma anche l’anima. Un tempo gioviale e sempre di buonumore, adesso è incapace anche solo di un sorriso; taciturno ed inavvicinabile, il suo sguardo è del tutto assente ed irraggiungibile. Questo Lazzaro, piagato nel corpo e senza interiorità non è qualificabile come soggetto a pieno titolo. Privo come è della parola e della presenza di spirito, si impone come oggetto di domanda e non soggetto del racconto, e della propria vicenda non offre – non è in grado di offrire – alcuna testimonianza che vada oltre il proprio essere nuovamente fra i vivi, non essendolo propriamente più.
Si dà un banchetto, in suo onore. Viene pulito, truccato e vestito in modo sfarzoso, da sposo, con un velo che gli copre il volto orripilante. Uno sciocco e sconsiderato osa alzare questo velo, portando il silenzio nel rumoroso banchetto, e poi ancora, non pago, si azzarda a chiedere a Lazzaro cosa fosse accaduto e cosa avesse visto mentre era morto.
Semplicemente, imperturbato, Lazzaro guardava, senza intenzione di dir qualcosa, senza proposito di nulla celare: guardava soltanto, glaciale, con infinita apatia astratto da cosa vivente.
Lazzaro non porta, non serba, non conosce mistero. Non sa nulla di questo “enimma sovrano”, ne è prodotto ed inconsapevole traccia che muove lenta fra i vivi, portando scompiglio. Presto tutti gli uomini iniziano a fuggirlo, vogliosi di evitare ogni incontro, ogni contatto, ogni possibile suo sguardo. La sua fama, però, presto si diffonde. Nessuno vuole avere a che fare con lui, ma molti ne parlano e sono incuriositi da questo essere già leggendario. Lontani gli affetti più cari, le sorelle Marta e Maria, un celebre scultore di nome Aurelio, celebre eppure scontento della propria opera, decide di incontrare Lazzaro nella speranza di trarne ispirazione.
Non gl’incuteva spavento ciò che del redivivo gli andavan narrando; molto aveva meditato intorno alla morte: e non già che l’amasse, ma gli premeva di non immischiarla nella vita, com’era tendenza di alcuni.
Lo scultore Aurelio, che dalla descrizione pare proprio un epicureo, si avvicina baldanzoso e sicuro di sé al glaciale Lazzaro, che per tutto il tempo che insieme passano, pronuncia solo poche, lapidarie parole. Non può offrire all’ospite la luce, né un letto, né vino. Una intera notte sotto il cielo cupo, di fronte all’artista che unico pare capace di affrontare la morte ed il suo terribile spettro, si fermano in un silenzio fuori dal tempo…”M’interessano, proprio, quelle tue linee delle sopracciglia e della fronte: tali e quali rovine di palazzi, sotterrate di cenere dopo un terremoto“. Lo scultore torna a casa sua mutato, trasandato, taciturno e cupo, fino a che non viene riscosso da improvvisa illuminazione. Era la più grande fra le sue opere quella che, dopo lungo lavoro, presentava al mondo. Ma quello che gli spettatori accorsi si trovano davanti è qualcosa di mostruoso, qualcosa che non ha forma alcuna, una non-forma che (il) nulla rispecchia. O forse bisognerebbe dire: lo specchiamento del Nulla e, pertanto, l’annichilimento dell’opera stessa che assolvendo al proprio compito (di dire la morte) si auto-dissolve, rinunciando a se stessa. Da quel giorno Aurelio non creerà più nulla.
Come dicevo, non gli affetti, non l’ingenuità del senso comune, e nemmeno l’arte riesce a cogliere e a sciogliere “l’enimma sovrano” della morte, il mistero di Lazzaro, il suo essere irrimediabilmente (e irredimibile) impasto di vita e morte. L’opera che lo ritrae, se vuol essere fedele, deve essere aborto d’opera.
Quand’ecco, lo stesso grande divino Augusto volle che Lazzaro gli fosse recato.
Lazzaro, il problema della morte, è certamente affar di Stato. Incuriosito dalle voci che si spandono su questo uomo, e volendo/dovendo dominarlo dall’alto del potere politico e divino che egli rappresenta, Augusto lo manda a prendere per farlo condurre fino a Roma, nella città eterna, luogo della vita, lì dove la morte pare essere fatto marginale, una ridicola parentesi nella scintillante pienezza della vita che tutto sostiene e muove.
Impassibile Lazzaro premé di passi le vie dell’eterna città. Come se tutto – il fasto opulento, l’imponenza degli edifici eretti da titani, lo scintillio, la bellezza, la musica della vita più raffinata – fosse appena un riecheggiamento del vento nel deserto, un riverbero delle morte sabbie mobili…bighe a precipizio…vigorosi belli alteri uomini…Il corpulento uomo, incombente, gelida macchia di silenziosità si spandeva per la città…
Passano diversi giorni in cui Lazzaro, col suo solo sguardo, inaridisce la fonte di vita nel beone che si crede onnipotente grazie al vino, annichilisce l’ingenuità degli innamorati che si credono invincibili nel loro eterno amore. Ma anche il sapiente e filosofo, che si reputa capace di imbrigliare la morte (e lo sguardo di Lazzaro) con bei ragionamenti e raffinate catene di pensieri, una volta a contatto con l’Infinito di cui Lazzaro è portatore, comprende che stessa cosa sono sapere e ignoranza e si scopre incapace di pensare. Lazzaro viene infine condotto dall’imperatore, che si proclama fin dal principio imperatore di un regno di vivi, di un popolo di vivi e non di morti. Lazzaro stesso, in quest’ottica, diviene non solo orrendo, bensì politicamente pericoloso. La sua presenza, che è un potentissimo ed irresistibile “memento mori” è presto riconosciuta come fattore disgregante per il tessuto sociale, andando lui ad intaccare i saperi costituiti, le pratiche consolidate, il senso comune, l’amore che genera vita e discendenza, istanze, queste, su cui si regge ogni vivere in comune. Lazzaro deve essere bandito dalla società, ma non prima che l’imperatore, incarnazione dello Stato e del potere politico, stesso abbia prima incontrato i suoi occhi, per sottometterli.
Al primo istante, sembrò al divino Augusto che fosse un amico guardare: così morbido, di dolce malia lo sguardo di Lazzaro! Promessa di calmo riposo…una madre pareva l’imagine dell’Infinito. Ma sempre più tenace si faceva la dolce stretta…le delicate carni penetrava il rigor degli artigli…Come giganti illusori, nel vuoto sparivan rapidissimamente città stati contrade, impassibilmente trangugiati dal cupo insaziabile ventre dell’Infinito.
Niente e nessuno resiste al potere della morte, che è il potere per cui non esiste pari. Persino il divino Augusto deve inchinarsi, annichilito dallo sguardo di Lazzaro. Promette di ucciderlo, l’imperatore, ma non osa far eseguire l’intento suo. Lo scaccia via, questo sì, e col ferro incandescente gli fa arroventare gli occhi, per privarlo di quello sguardo che non lascia sguardo. Ricacciato nel deserto, viene abbandonato sulla pietra rovente. Con lo sguardo cieco e perso nell’orizzonte vuoto, lì dove nessuno più osava recarsi, ogni giorno seguiva il sole, al tramonto, assetato del suo calore morente. Tutto questo fino a che un giorno non fece più ritorno e non se ne seppe più nulla. In questa splendida novella emerge, così come nel dramma pirandelliano, l’idea della morte come nulla, solo che mentre in Pirandello la vita, nella sua contrapposizione con la morte, viene esaltata in una dichiarazione di fedeltà a questo mondo, qui invece viene avvelenata dall’idea del nulla che aspetta l’uomo e che si nasconde dietro ogni sua attività. La morte, insomma, non è solo qualcosa che sempre trascende la comprensione umana, ma anche ciò che irrimediabilmente lorda ogni cosa del mondo e tutto quanto ci pare sacro.
stay calm within the chaos
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Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Bellissima lettura di una novella che anche a me è piaciuta molto. Bello anche il confronto con Pirandello.
Grazie mille!
Bello e ricco questo tuo commento su “Lazzaro” di Andreev, una novella che mi piacque e mi colpì molto quando la lessi. Anch’io, se pure in modo un po’ particolare, ne ho fatto una “lettura”, per dire soprattutto dell’assenza del guardare di Lazzaro e di come, in quell’assenza del suo guardare, ci sia quel senso di cupa morte, portatrice solo di sfacelo e distruzione, a cui fai cenno nel finale del tuo commento che condivido molto.
Grazie. Andrò sicuramente a fare una ricognizione sul tuo blog per “guardare” il Lazzaro di Andreev con i tuoi occhi.
Che bella, questa tua pagina sul Lazzaro di Andreev, che inevitabilmente si legge in rapporto al racconto di Pirandello. Tema affascinante, quello delle Resurrezioni ; io stessa all’epoca avevo ovviamente pensato a questo racconto, ma citarlo avrebbe totalmente distorto il discorso che avevo in mente(trattare uno stesso tema non significa necesseriamente mostrare anche la stessa ottica o insistere sugli stessi particolari, come del resto giustamente noti tu stesso; e alcuni autori e operano dialogono tra loro più proficuamente di altri/e). Per questo è stato giusto ritrovarlo qui…..
Un saluto-con l’auspicio che questo dittico possa magari arricchirsi di altre tavole…
Vero. Così come esistono rapporti di forza, esistono anche rapporti di senso che creano delle reti si “impigliano” determinati scrittori, piuttosto che altri. P.s. Sì, è una idea che viene da lontano – nel tempo – e che prevede ulteriori sviluppi.
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Bellissima recensione davvero, Tommaso. Di Andreev ho letto solo I sette impiccati, che pure tratta il tema della morte, ma Lazzaro e altre novelle è lì che attende. Un autore un po’ trascurato, forse proprio per la carica eversiva e la scomodità della sua opera.
Grazie. Sì, forse anche messo in ombra da altri scrittori, i cosiddetti mostri sacri della letteratura russa. Io stesso, devo ammetterlo, sono venuto a conoscerlo solo di recente, e solo perché (per un’idea che sto portando avanti) sto approfondendo la figura di Lazzaro per come emerge nella letteratura. Comunque sia, una lettura importante.
Di questo autore conosco solamente il nome. Mi ritrovo catturata,(e un po’ sconvolta?) da questa tua restituzione – di un’opera che dovrei leggere per fondare bene il confronto con Pirandello (autore che amo molto ma che, non so come dire, leggo in determinati momenti).
Sicuramente non dimenticherò,e avvicinerò Andreev.
Neppure io lo conoscevo. La lettura di queste novelle è stata interessante e certamente leggerò altro di suo. Per quanto concerne Pirandello, erano molti anni che non lo leggevo e affrontare il suo Lazzaro mi ha spinto a riprendere i volumi sul teatro. È sempre incredibilmente affascinante leggerlo.
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