Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

DeLillo, L’uomo che cade

Per motivi che non sto qui a spiegare, qualche giorno fa mi sono trovato a discutere di un grafico che registrava la moltiplicazione dei muri che sono stati innalzati nell’ultimo ventennio e, in modo particolare, a partire dal 2001. Tale crescita è esponenziale e viene rinforzata dal crescente senso di insicurezza e dalla sensazione di essere invasi e travolti da qualcosa che deve essere contrastato con mezzi e strumenti sempre più imponenti. Nell’epoca dell’apertura e della globalizzazione, si danno, senza alcuna contraddizione ed anzi in modo necessario, movimenti opposti. Tali movimenti sono improntati alla difesa dei confini, lì dove domina lo sconfinamento continuo; oppure si fondano su istanze identitarie, lì dove appare maggiore il rischio di una eccessiva mescolanza. Mi è venuto così in mente di andare a riprendere e rileggere L’uomo che cade di DeLillo. In questo periodo pieno di notizie così inquietanti, in cui la Storia pare sempre essere da un’altra parte e che quando si approssima assume caratteri apocalittici, rileggerlo mi è parso un modo per fare un poco di ordine a partire da un evento originario…

Avevano sentito parlare di lui, un artista performativo noto come L’uomo che cade. Era apparso diverse volte, la settimana prima, senza preavviso, in vari punti della città, appeso a questa o quella struttura, sempre a testa in giù, con indosso giacca e pantaloni, una cravatta e scarpe eleganti. Richiamava alla memoria, naturalmente, quei momenti assoluti nelle torri in fiamme, quando la gente era precipitata, o era stata costretta a saltare. L’avevano visto penzolare da una balconata nell’atrio di un albergo, e la polizia l’aveva scortato fuori da una sala concerti e da due o tre palazzi di appartamenti con terrazze o tetti accessibili.

In una strada che non è più strada, ma mondo fatto di fiamme e calcinacci, fango e morte, terrore, urla, distruzione e caos – irrimediabilmente disallineato da sé e dal mondo – emerge Keith Neudecker. Impiegato da anni nella Torre nord del Word Trade Center, la mattina dell’Undici settembre 2001, Keith riesce a mettersi in salvo. Sporco, ferito, pieno di sangue, portandosi dietro una valigetta da lavoro che non gli appartiene, cammina per strada fra gente urlante o semplicemente paralizzata, tra feriti fumanti, con i capelli e i vestiti bruciati. Keith viene investito da una tale massa di informazioni e dati così incredibilmente nuovi ed inaspettati che gli è impossibile mettere in gioco categorie adatte per riordinarli, renderli coerenti ed intellegibili. La realtà, molto semplicemente, si sottrae ad ogni presa: “…[le cose] non parevano pregnanti come al solito…c’era una qualche mancanza cruciale nelle cose intorno a lui. Erano incompiute, per così dire. Forse quello era l’aspetto che avevano le cose quando non c’era nessuno che le vedesse“.

L’uomo che cade si articola secondo due linee temporali. Da un lato abbiamo quella tracciata da Keith che, a partire dalla fuga dalle Torri e dopo un anno di assenza dopo la separazione, si ripresenta nella casa dove vivono la moglie Lianne e il figlio Justin; dall’altro abbiamo il tempo di Hammad, un giovane che, dalla Germania alla Florida, porta avanti quel processo di preparazione e radicalizzazione sulla via dell’Islam che lo porterà fino all’attentato: spettatore-dirottatore seduto sull’aereo che, seguendo il Corridoio dell’Hudson, andrà a schiantarsi proprio contro la Torre nord dove Keith era sul posto di lavoro. Le Torri diventino improvvisamente qualcosa di nuovo. Fanno saltare i vecchi riferimenti spaziali, trasformandosi in palcoscenico in cui viene rappresentato un mondo sconvolto e fuor di sesto. Ma sono anche uno spartiacque a livello del tempo e del senso. Luogo di un cortocircuito, ma anche punto terminale di un groviglio di destini che fino a quel momento avevano corso parallelamente, almeno all’apparenza. L’intero romanzo si gioca sul tentativo dei protagonisti (tentativo destinato allo scacco) di rimettere insieme frammenti di senso, di far ordine nel vortice del pensiero e porre rimedio al fatto che non si registra una adeguata corrispondenza fra dolore e consapevolezza di ciò che è appena accaduto. Il trauma è tale da non venir di fatto percepito; la ferita è tanto profonda da recidere le vie stesse che sono adibite a comunicare il dolore e segnalarne la gravità. La drammaticità sta tutta nello sguardo impotente e vuoto che osserva lo sfacelo senza poterlo vivere, senza poterne fare veramente esperienza: il trauma è tale da investire la totalità delle cose, cancellando ogni spazio in cui potersi accucciare per soffrire liberamente e analizzare e leccarsi le ferite. Il mondo è pieno come un uovo, l’evento l’ha riempito a tal punto da non lasciare spazio alcuno per poterne prendere le misure. Keith, Lianne, così come tutti quelli che entrano ed escono dalla scena, non possono fare altro che vivere, ma vivere in un modo particolare…la vita (riesumo qualcosa di antico per me) diviene “cronaca” della vita. In questo senso, nel suo non poter essere compresa, c’è la tendenza a ridurre la tragedia ad incidente, cercando di spogliare la Storia dalla consapevole intenzione al male, la quale implica non solo qualcuno che vuole “quel” male, ma anche l’esistenza di qualcun altro che subisce quel male e che non riesce ad accettarlo e che pare dire: “perché qualcuno ha voluto che questo male si abbattesse su di me?”.

Keith disse: – Sembra ancora un incidente, il primo [aereo]. Anche da questa distanza, da fuori, con tutti i giorni che sono passati, io lo guardo e penso he è un incidente.

E poi c’è l’altra prospettiva, l’altra parte del discorso, l’opposta visione della realtà, quella che emerge dagli occhi, dal corpo, dai pensieri di Hammad. Il mondo e gli altri che si fanno via via più inconsistenti, le cose che lo attraversano e che perdono progressivamente di importanza. Ci sono la disciplina del corpo e del pensiero, la presa di distanza dalle donne e dai piaceri terreni. Le ore di addestramento passate sui simulatori di volo, l’approfondimento delle scritture, la distanza da ciò che è terreno, effimero, impuro.

Il calo di peso risaliva all’Afghanistan, in un campo di addestramento, dove Hammad aveva cominciato a capire che la morte è più forte della vita. Era lì che il paesaggio l’aveva consumato, cascate immobili nello spazio, un cielo che non finiva mai. Era tutto Islam, i fiumi e i ruscelli. Raccoglievi una pietra, la stringevi in mano, ed era Islam. Il nome di Dio su ogni lingua in lungo ed in largo per la campagna. In vita sua non aveva mai provato una sensazione simile. Indossava un giubbotto esplosivo ed era un uomo, finalmente, pronto a ricucire la distanza tra sé e Dio.

Ecco che l’opposizione si fa bruciante e determinante. Lì, nelle Torri e nella frenetica attività che le riempie, la vita è, di fatto, distanza dalla morte. Lì la vita e il senso si danno come negazione della morte ed il senso si costruisce e si raggiunge qui, nel mondo, nella sfera mondana per mezzo della ricerca del piacere, della felicità, della realizzazione di sé, nel profitto e nel progresso; al contrario, per mezzo di Hammad la vita terrena viene ridotta ad impedimento nel cammino dell’uomo verso la vita vera. Questa vita è un ostacolo al raggiungimento del senso e della verità, mentre la morte diviene vera religione, nel senso di “re-ligio”, di un “ri-legare”, della possibilità di un legame finalmente autentico fra uomo e Dio. Secondo questa prospettiva, la vita di chi segue la vera religione ha sempre avuto un senso e fin dal principio era pienamente determinata. L’uomo deve limitarsi a compiere il proprio destino. In questo senso gli altri – tutti gli altri uomini, gli infedeli – non esistono veramente e pertanto non vengono veramente uccisi. I morti sono da ricomprendere entro il piano generale di origine divina e pertanto si limitano a ricoprire il ruolo che per loro è stato deciso da sempre. Benché ridotte ai minimi termini, queste sono le due posizioni, le due diverse ed alternative visioni del mondo, delle cose, della vita. L’attacco alle Torri ha fondamentalmente svelato tutta la fragilità di un sistema, ma tale fragilità che si mascherava sotto l’idea dell’impero americano e che è adesso sotto attacco, svela, a sua volta, una vera e fortemente percepita fragilità opposta. Questa altra fragilità è in Hammad e nei suoi compagni, nella loro sensazione di essere permanentemente sotto scacco, nella convinzione che lo stile di vita americano (ed in generale occidentale) sia di per sé un pericolo per l’Islam. È anche tale sentimento di essere sotto assedio a spingere alla reazione. Quindi, da un lato un senso di onnipotenza che si fa assoluta fragilità e, dall’altro, un senso di impotenza che si capovolge facendosi delirio di onnipotenza. Gli opposti si tengono all’interno di un gioco le cui regole paiono a tratti semplici ed auto-evidenti, mentre in altri momenti sfumano e si fanno contraddittorie. Non è un caso, credo, che una parte del romanzo sia dedicata a Keith e alla sua passione (che è in realtà una dipendenza) per il gioco del poker, alla sua fuga dalla casa in cui era tornato dopo l’attacco e da cui nuovamente scappa, fallito ogni tentativo di riportare l’ordine nel caos del mondo. Keith va a rifugiarsi a Las Vegas, cuore pulsante di luci nel deserto, lontano dal mondo. Il poker non è banale azzardo, ma disciplina, spazio in cui esercitare la razionalità ed una serietà all’insegna di una fedeltà alla causa che, a tratti, si rivela molto simile alle pratiche ascetiche cui Hammad si sottomette. Anche qui – nei momenti di più acuta sofferenza – si rifiuta l’alcool, si pratica il silenzio e si rinuncia alle donne. Il poker giocato da Keith Neudecker diviene presto metafora della guerra e della contesa, della vendetta e della prevaricazione. Tentazione che pericolosamente emerge: “…ciò che stava facendo possedeva una forza vincolante. Lasciò altre sei mani, poi puntò tutte le fiches che gli rimanevano. Falli sanguinare. Fagli versare il loro prezioso sangue di perdenti“. Qui DeLillo riesce a far emergere lo spettro di una pericolosa tendenza alla violenza, una violenza che non pare reattiva (semplice vendetta dopo l’attentato subito), ma originaria, capace di rovesciare i termini del discorso o, quantomeno, farne esplodere la tensione. Sono forse (come suggerivo più sopra) gli attentatori che si ribellano e reagiscono ad una violenza subita? Chi fa veramente violenza a chi? Dialettica irrisolvibile, in cui un polo della vicenda si tiene grazie all’altro. Dialettica negativa che ha però il pregio di minare alla radice le estreme ragioni ed auto-giustificazioni delle parti.

Come si esce dal circolo? Come uscire da un circolo vizioso che dà la propria struttura anche al romanzo stesso, che difatti si conclude con uno spietato resoconto di ciò che è avvenuto nella Torre nord al momento del primo attacco e che segue Keith che tenta di uscirne fuori? Il finale, che riporta il lettore al principio, pare suggerire che l’evento si annoda su se stesso curvando la direzione del tempo stesso, che non procede linearmente (verso il futuro), ma che ritorna incessantemente su di sé, all’origine del trauma, in una coazione a ripetere che forgia una gabbia che segna tanto l’esistenza dei morti, cui il futuro è stato definitivamente sottratto, quanto quella dei sopravvissuti, che non possono andare oltre l’evento – mi viene in mente un vecchio post sul racconto La forma delle cose di Truman Capote e sulla fissazione che si dà come impossibilità di sottrarsi al trauma. Si può dunque uscire da questo circolo vizioso senza però togliere a questo evento la sua portata storica? Senza farlo oggetto di rimozione? Non serve il gioco, non è utile la fede o meno in Dio, ma neppure il gioco, il sesso, il danaro. I nomi stessi delle cose paiono perduti o inservibili.

Ecco dov’erano le cose, tutt’intorno a lui, sempre più distanti, cartelli stradali, persone, cose di cui non conosceva il nome. Poi vide una camicia scendere dal cielo. Camminando la vide cadere, agitava le braccia come nulla in questa vita.

Una sola camicia, niente più, senza l’uomo ad indossarla. Qui sta il paradosso e l’origine del circolo vizioso. È l’uomo stesso ad esser stato annientato. Come ritrovarlo e da dove prendere le mosse? L’uomo che cade non è solo il titolo di questo romanzo a tratti ipnotico e snervante, ma anche il nome con cui è conosciuto l’artista performativo che con un semplice sistema di funi ripete sempre e ancora la drammatica scena di un uomo che cadeva giù da una delle Torri. Questo uomo, David Janiak, per mezzo dell’arte, è in grado di indossare quella camicia e dare carne ed ossa all’uomo annientato. La prima ricerca delle cose, dei loro nomi e del loro senso può forse iniziare con l’arte, lì dove il circolo perde, almeno per un attimo, la sua fatalità; lì dove nulla è dimenticato, ma viene ripreso e ripensato e scelto e caricato di senso. E se è vero che per David Janiak, nelle sue performance, le cadute erano “dolorose ed estremamente pericolose, per via dell’attrezzatura rudimentale di cui si serviva“, allo stesso modo dura è la prova di chi vuole, per mezzo del linguaggio (attrezzatura rudimentale, ma indispensabile ed imprescindibile) dire/raccontare in modo nuovo la realtà e forzare la gabbia d’acciaio della storia..

8 commenti su “DeLillo, L’uomo che cade

  1. Alessandra
    giugno 30, 2017

    In assoluto la più bella analisi che abbia letto su questo libro. Intelligente, calibrata ed essenziale, capace di risaltare i motivi che stanno da una parte e d’altra senza eccedere in sbilanciamenti, in prese di posizione sconsiderate. Non mi resta che leggerlo a mia volta.

    • tommasoaramaico
      giugno 30, 2017

      Tante grazie Alessandra. Personalmente non sono uno di quelli che stravede per De Lillo, però questa è, a mio avviso, una delle sue prove migliori e, di certo, una via d’accesso privilegiata per pensare in modo diverso l’attacco alle Torri gemelle.

  2. Ivana Daccò
    luglio 1, 2017

    Ho letto con molto interesse questa tua recensione e con, diciamo, fatica, perché relativo ad un libro che non ho letto e mai (credo) leggerò, che ho scelto di non leggere così come nulla che racconti quella tragedia. Una fuga, la mia, consapevole e determinata, nel senso di conoscere – cosa alla mia età estremamente necessaria – le protezioni di cui si ha bisogno, anche se nella consapevolezza che non proteggono da nulla.
    Dunque, forse, prima o poi, leggerò questo romanzo.Nel qual caso, ne ascriverò il merito – perché potrebbe essermi utle – alla tua spendida analisi.

    • tommasoaramaico
      luglio 1, 2017

      Innanzitutto grazie. È vero. È pericoloso scrivere/leggere/parlare di tali eventi. È semplice sbagliare. Non tutte le pagine di questo libro (Che non a caso definisco – anche – snervante) sono immuni da tale pericolo. È tuttavia una lettura importante.

      • Ivana Daccò
        luglio 1, 2017

        No no, non è pericoloso, anzi. Ma l’età giustifica la codardia, o quantomeno offre una buona scusa. Sono ben pochi quelli che osano riprendere un’anziana signora, a parte qualche vecchiaccio. Non cascarci.

      • tommasoaramaico
        luglio 1, 2017

        Splendido! Non dubitare, non oserei mai.

  3. Marco
    settembre 12, 2017

    Come già in “Lybra” de Lillo mette in scena un romanzo in cui storia e fiction o, come scrivi giustamente tu, vita e cronaca della vita di mescolano. Ma ho notato che in occasione di certe immani tragedie da parte di testimoni, opinionisti e influencer vari si svolgono delle analisi molto, troppo cerebrali. Mancano le viscere e ciò è grave perchè le viscere hanno una loro intelligenza quasi sempre più immediata e quindi più sincera rispetto ai pretesti cui la mente ricorre per non inorridire. In generale gli autori USA dell’avant pop hanno questa caratteristica: uno sguardo sul mondo privo di visceralità e dunque un po’ noioso.

    • tommasoaramaico
      settembre 12, 2017

      Sono d’accordo con te quando sostieni che questo (e probabilmente anche altri) romanzo di De Lillo è forse troppo cerebrale, così come penso, come te, che questo intellettualismo è una forma di difesa contro la tragicità del reale. Eppure è una prospettiva interessante per comprendere il problema del male e del dolore. Personalmente preferisco altri autori ed approcci, scritture che meglio sanno conciliare questi due aspetti, quello più intellettuale e quello più emotivo. Grazie per il commento.

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Questa voce è stata pubblicata il giugno 30, 2017 da con tag , , .

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