Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Argomento: l’autore. C’è un gran numero di libri, alcuni veramente importanti e decisivi, altri (la stragrande maggioranza) decisamente meno, che trattano di questo curioso argomento, e cioè della formazione di questa particolare figura che è quella dell’autore. Quando parlo di formazione non intendo però riferirmi ad un qualche processo di sviluppo nel tempo, ma al suo prender forma, alla sua costituzione stessa, all’entrata nel mondo di questa nuova realtà. Alcuni dei libri cui facevo riferimento mi è capitato di leggerli, nel corso degli anni. Qui, sotto lo stimolo delle domande mosse da Mittente e che ho cercato di riassumere qualche settimana fa in un post – Chi sei tu? L’invenzione del nome – veniva posta, in fondo, proprio questa domanda – resa necessaria proprio a partire dal fatto che Mittente prendeva le mosse da una convinzione così riassumibile: Tommaso Aramaico è un nome non-proprio, inventato (im-proprio, direi), una sorta di formula magica con cui avrei disegnato e delimitato uno spazio vuoto (per mezzo di uno iato, o scissione, all’interno dell’uomo in “carne ed ossa“) da cui emergerebbero e prenderebbero forma le opere – cioè i frutti di un operare destinato a dei lettori. In questo senso io sarei l’autore di Tommaso Aramaico che, a sua volta, sarebbe l’autore dell’opera (ad esempio di questo post). Cerco di andare oltre la curiosità (le cui origini, cause e fini mi sono sempre più oscuri) di Mittente: essendo una finzione, quale sarebbero la funzione e lo status di questo autore creato a tavolino? Di una entità che non sarebbe nulla più di un segno tracciato su carta? Quale la sua consistenza? La questione è così complessa che mi vengono le vertigini. Potrei cavarmela con grande eleganza, scontando in coerenza, andando a riprendere qualcuno dei libri cui facevo riferimento sopra, scegliendone le parti più interessanti e suggestive. Ma in questo modo tradirei il senso stesso di questa serie di post, così come il patto (certo, sempre revocabile) stretto con Mittente. Mi sono proposto di dire quel poco che ho da dire a tale proposito cercando di dimenticare quello che ne ho appreso attraverso la lettura di altri testi. Dunque, cercando di portare la discussione ad una sorta di “grado zero” di consapevolezza e tematizzazione della faccenda, risponderò sostanzialmente di getto, o quasi, senza troppe mediazioni, e solo ed unicamente lavorando la grezza farina del mio sacco, nella speranza che non ne venga fuori qualcosa di troppo indigesto.
Riprendendo la questione dell’invenzione del nome, bisogna fare un passo ulteriore e aggiungere – dato che il nome è sempre nome di qualcuno…e dire: del nome di chi? Dell’autore – dove per autore si deve intendere qui, in modo ferocemente riduttivo, di colui che opera scrivendo delle “cose” – cosa poi scriva, come lo faccia e con quanta onestà, non è tema di questo post-opera. Il nome e l’autore sono quindi il frutto di un’unica operazione linguistica, e forse anche qualcosa di più. Allora, quando si parla di autore sorgono immediatamente un gran numero di problemi (l’ho già detto e lo ripeto: qui si procede di getto, con quel che mi passa per la testa sul momento…dunque, non si pretende di essere esaustivi, metodici, ma di lavorare a prescindere da una visione generale, cui non sarei comunque in grado di raggiungere/offrire)…i problemi, dicevo: c’è un essere reale (nel senso di “in carne ed ossa“) e poi c’è il mondo e, non bastandogli il casino che naturalmente e necessariamente deriva da tale situazione (che non è poi altro se non la vita stessa), questo essere in carne ed ossa decide più o meno liberamente di mettere altra carne al fuoco, di aggiungere un tassello o un altro piano di realtà (che è poi l’opera) alla realtà “già data” e con questa semplice operazione l’essere “in carne ed ossa” si fa a suo modo autore (di qualcosa che prima non era). Questo approdo, del tutto momentaneo, fa tuttavia scattare un’altra serie di questioni. Quella che sul momento mi sembra determinante è la seguente: l’essere “in carne ed ossa” è da sempre ed ineluttabilmente dentro al mondo, ma dove collochiamo l’autore (che non è e non coincide con l’uomo concreto)? Per quanto concerne l’opera, ne dirò qualcosa in altra sede (sempre che ne sarò in grado), dato qui il tema è l’invenzione dell’autore che, a sua volta, nel fare-ciò-che-fa, non è già più l’uomo concreto. L’autore sta nel mondo? Io credo di no, e questa sorta di pregiudizio poggia su un assunto profondamente riduttivo. L’autore è autore solo quando è (seriamente) impegnato nella produzione dell’opera per mezzo di una scomposizione e ricomposizione del mondo. Dunque, l’uomo che fa un passo indietro rispetto al mondo, mettendolo fra parentesi, si tira momentaneamente fuori dal rapporto immediato-naturale-ingenuo col mondo. Per mezzo di questo passo indietro può sorgere l’autore, che è uno star fuori-dentro al mondo. Dentro, ma solo in negativo, perché l’uomo “in carne ed ossa” da cui sorge l’autore, è nel mondo in una modalità altra (che arriva al confine con il campo dell’autore); fuori, perché l’autore in quanto autore, nella sua “operatività” semplicemente non è di questo mondo. Da questa prospettiva la follia potrebbe essere pensata come una potente (magica) cancellazione del mondo e dell’uomo, una cancellazione che apre uno spazio di azione infinito, volta alla formazione di una realtà alternativa che si impone come unica realtà. In quanto unica è inoltre assoluta, e cioè sciolta e sottratta ad ogni condivisione possibile. Ma come chi si perde in fantasticherie non è un autore e non ricostruisce il mondo, ma lo fugge inseguendo immagini contingenti, così il folle non è autore, ma pura proliferazione di frammenti (da cui si può sì estrapolare il senso per mezzo della riflessione, ma non l’opera). Al contrario, l’opera dell’autore non nega il mondo in modo assoluto, bensì vi apre delle falle o ne mette in risalto quelle già esistenti. L’opera dell’autore esprime la scissione dell’uomo che per mezzo di una scissione ulteriore dà vita all’autore, ossia a colui che è incaricato di tematizzare, riordinare all’interno dell’opera questa scissione stessa facendo saltare il mondo che, per definizione (definizione tutta mia, e quindi dovrei dire…per convinzione), non può esaurire l’umanità dell’uomo.
Sì, ma una domanda rimane e si fa sempre più impellente. Ma perché uno dovrebbe far ricorso all’invenzione del nome-autore? La non-necessità di questa operazione è testimonianza dalla pressoché totale coincidenza di nomi-volti-produzioni. Cercherò di farla breve e di essere più preciso – nonché di dare una risposta più personale. Un tempo mi capitava di pensare che la letteratura (è di questo, senza fare troppi giri di parole, che si tratta)…pensare che la letteratura fosse un grande contenitore privo di limitazioni, una sorta di divinità fatta di segni, e che rispetto a tale divinità tutto il resto fosse sostanzialmente insignificante. Concepirla a quel modo, purtroppo, aveva le sue controindicazioni. La letteratura, in generale, esorbitava rispetto a tutto, era fuori controllo (cercherò di spiegare il senso di questo “controllo”). A partire da quella concezione del tutto adolescenziale o, peggio, romantica e quindi dogmatica ed idealizzante, tutto il senso si andava a raggrumare nelle “storie”, mentre un pericolosissimo senso di vuoto andava ad adombrare la vita reale, rischiando di renderla un’appendice, uno scarto, materiale residuo su cui si poteva lavorare e che, nei momenti peggiori, diventava addirittura un ostacolo. La vita reale come ostacolo per la letteratura, l’uomo in carne ed ossa come ombra dell’autore. Un capovolgimento difficile da gestire. Questa visione della letteratura (dell’opera), e quindi dell’autore, non regge però alla prova dei fatti (dello spirito). La letteratura, ogni forma di narrazione, può anche essere pensata al tempo stesso come contenuto e contenitore.
Il raccontare, a ben vedere, è qualcosa di decisamente più ampio rispetto alla narrazione (letteraria, filosofica, etc, etc). E questo raccontare potrebbe coincidere, direi, con la vita nel suo esser-vissuta. Se scrivessi qui cosa ho fatto ieri, non sarei un autore impegnato nella narrazione di una storia, ma certamente un uomo che racconta quel che ha fatto. Di più, i fatti di ieri esistono e sono reali e coerenti solo grazie a questo racconto (fatto ad altri o a se stessi). Già a partire da questa prima distinzione si può abbandonare quella visione adolescenziale cui facevo prima riferimento: l’uomo in carne ed ossa con i suoi impegni, affetti, relazioni e responsabilità non sarebbero ciò che tolgono il tempo e che distruggono, soffocano ed affossano l’autore (e all’opera), ma diventerebbero ciò che dà e che detta il tempo…coloro che scandiscono la temporalità del tempo, lo ritmano e lo impregnano di senso a partire dal raccontare le cose, che è l’embrione di ogni narrazione. Ogni narrazione ha un tempo interno, ma c’è anche un tempo per narrare; un tempo per narrare ed uno per vivere-raccontare; un tempo in cui si può vivere solo lasciando spazio all’autore ed uno in cui solo vivendo si potrà mantenere in vita la possibilità di aver qualcosa-da-dire.
La letteratura è un gioco che solo in un secondo momento svela la sua natura di gioco. Al principio può essere assai pericolosa, se non la si inquadra entro una cornice ben definita. La sua natura più alta, che poi coincide col suo smacco lì dove vuole prendersi tutto, può emergere a mio avviso solo dopo aver diviso con la spada l’uomo concreto e l’autore. La vita non è solo il grande contenitore che ha al suo interno il racconto, ma è, al tempo stesso, ciò che coincide con il racconto. La vita è racconto, anche se il racconto (la scrittura) non esaurisce la vita ed è precisamente per questo motivo che si danno sempre e nuovamente racconti, così come l’onda non raggiunge mai una volta e per tutte la terra ferma, la riva, ma sempre si ritira e inevitabilmente tenta ancora…la vita è racconto, ma il racconto non è la vita, quindi il racconto è contenuto della vita, come tentativo di dirla, ma è anche ciò che coincide con la vita, che è un racconto continuo…è per questi motivi che, indipendente dal nome, vi è sempre, lì dove c’è produzione di un’opera, anche l’invenzione dell’autore. Certo, questo non spiega per niente, ribatterebbe Mittente, la questione dell’invenzione del nome-autore.
L’invenzione del nome-autore, se mai c’è stata, si è resa necessaria per delineare chiaramente il rapporto con ciò cui si dà forma. In questo bislacco procedere il dare-forma, il mettersi all’opera, per come lo intendo io, è un dar-forma ad altro (di questo altro, di questo materiale cercherò di farmi un’idea) per gli altri che fatalmente disporranno liberamente di una parte di noi. Purtroppo gli esiti di tale offerta all’altro sono difficilmente prevedibili e, nella stragrande maggioranza dei casi (soprattutto a partire dall’attuale proliferazione di “opere”), vanno dal nulla al fallimento. Ed è per questo motivo che l’invenzione del nome e dell’autore sono una cosa sola, perché il mare cui vengono affidate queste offerte è immenso e profondo e lì dove si fa abissale sembra gasolio, tanto è scuro, o una pasta molto densa, tipo budino. Questa apparente assenza di confini in cui l’offerta-d’opera andrà sicuramente perduta è causa d’angoscia, un’angoscia di cui non si fa esperienza, perché quel luogo è sì sterminato, ma nel suo esser sterminato è anche senza via d’uscita. Non se ne viene a capo, né se ne può fare a meno, anche se è il luogo della sconfitta. Quello è il luogo da dove (se vi si entra con un certo spirito) non si può proprio uscire, dove si può solo ed unicamente annegare. Per questo motivo in quel territorio sconfinato ci mando l’autore, ben saldo su di una zattera fatta di un nome e di un cognome che sono suoi e che nessuno può sottrargli…
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
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Fammici pensare. Mentre ancora sto pensando al tuo precedente post. Tema interessante.
Ho timore che la mia risposta al tuo commento si sia persa nei meandri del web. Solo ora me ne rendo conto (e me ne scuso). Il succo era questo: che ero dubbioso se pubblicare o meno questo post, che è pieno di passaggi forzati e contraddittori. Eppure mi sono deciso a farlo perché in linea col precedente, che tu giustamente richiamo, e perché tassello necessario per quello che ho in programma di pubblicare appena avrò modo (non dico il tempo necessario – quello non mi è concesso).
Non attendevo risposta, a un messaggio di attesa. E ora sono tentata di attendere ulteriormente il seguito.
Hai fatto più che bene a pubblicare questo post. Il tema è davvero intrigante . pur con qualche aspetto di sofisma da sciogliere (non facile, e dunque bello).
Nel frattempo, io sto giocando con il materiale prezioso che hai fornito – perché mi interessa l’aspetto del gioco, che porta all’aspetto dei ruoli, che coesistono benissimo con la presenza nel mondo dell’intero-persona che ha un nome (dato da altri, in effetti, e perché mai ci si dovrebbe sottomettere? E perché mai, non accoglierlo e farlo proprio,: operazione comunque di secondo livello, in ambedue i casi, non ti pare?).- e lasciamo anche perdere la esigenza di consequenzialità grammaticale della lingua italiana in ciò che scrivo.
Così, per ora sto giocherellando, (je m’amuse) cercando di interpretare (en jouant) la scissione autore-attore.
Tutta colpa tua!
Attendo, curiosissima, il seguito. Pronta a cancellare qualsiasi cosa io abbia scritto in merito.
Ciao. Lavora!
Grazie (la risposta era dovuta). Hai ben colto ed espresso il senso del gioco, la sua carica liberatoria…tanto necessaria per chi, solitamente, Si impone tante regole.
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