Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Non era stata una cosa di grande importanza. Avevano detto, tutti, ciò che avevano da dire? No, non l’avevano detto, e sì, l’avevano detto, certamente. In tutto lo stato, quel giorno, si erano celebrati cinquecento funerali come il suo, altrettanto di ordinaria amministrazione, e tolti i trenta recalcitranti secondi della scena dei figli…né più né meno interessante di tutti gli altri. Ma la cosa più straziante è sempre la normalità, il constatare ancora una volta che la realtà della morte schiaccia ogni cosa.
Una delle cose che più immediatamente colpisce dopo aver letto di Everyman di Philip Roth, è la quasi totale mancanza di uno sviluppo della vicenda. Si inizia dalla morte e passando attraverso la morte si arriva alla morte. La lampante mancanza di sviluppo di una storia è cosa che proverbialmente (e quindi superficialmente) segna la condanna a morte di una gran quantità di romanzi da quattro soldi; qui, al contrario, è proprio lo sguardo fisso, quasi ipnotico ed ipnotizzante sulla morte, a costituire il nucleo della sua vitalità, la sua più propria ragion d’essere, la chiave della sua riuscita, del perfetto equilibrio fra le parti che viene a crearsi. Erano anni che non leggevo Philip Roth (una lunga parentesi dopo l’incontro sfolgorante con i celeberrimi Lamento di Portnoy e Pastorale americana), ed era un po’ di tempo che non leggevo un romanzo così interessante. Si dice che un personaggio riuscito debba essere ben caratterizzato, mosso da un desiderio forte che fa da centro propulsore e catalizzatore di decisioni, pensieri, azioni, innervando una vita fino a conferirgli qualcosa come un destino (intendo per destino quella contraddittoria miscela di libertà e fatalità – la libera adesione a ciò che non può non essere), qui, invece, ci troviamo di fronte ad un personaggio senza nome (e che mi fa pensare a La strada di Cormac McCartney di cui ho scritto un po’ di tempo fa), ad un personaggio senza nessun impulso forte/riconoscibile che non sia riconducibile ad una negatività che fa tutt’uno con la paura della morte o ad un irresistibile impulso alla fuga che inizia da quando il protagonista, ancora bambino e in vacanza sulle coste del New Jersey mentre è in corso la Seconda guerra mondiale, è esposto al traumatico incontro con il corpo gonfio d’acqua e senza vita di un marinaio americano la cui petroliera era stata silurata da un sommergibile tedesco nelle acque dell’Atlantico.
Da questo momento la cifra della vita di questo uomo è il corpo a corpo con la morte. Un susseguirsi di operazioni, interventi, lutti. Prima un’ernia, poi l’appendicite, infine i problemi al cuore. Sia chiaro, la morte ed il lutto non sono unicamente quelli riconducibili alle disavventure del corpo, anzi, sono innanzitutto quelli dello spirito, perché la morte in senso stretto è una questione assai semplice, un evento che si dà una volta e per tutte, in un’unica soluzione, mettendo fine a questa esperienza che è la vita. La morte fa simbolicamente parte della vita di questo uomo come fine disastrosa di tre matrimoni, come distanza dai figli che, abbandonati, non lo hanno mai perdonato, ma è anche parte di una quotidianità che viene attraversata dal vuoto senza che ci sia una ragione evidente.
La profusione di stelle gli diceva senza ambiguità che era destinato a morire…non era un uomo né bizzarro né deforme né eccessivo in alcun modo, perché dunque, alla sua età, doveva essere ossessionato da pensieri di morte? Era ragionevole e bonario, un uomo industrioso, affabile e moderno, come probabilmente avrebbero ammesso tutti quelli che lo conoscevano bene…la maggior parte della gente, era convinto, lo avrebbe considerato un conformista, così tradizionale e poco avventuroso che dopo l’accademia, invece di fare il pittore e vivere con i soldi che riusciva a raggranellare – che era la sua segreta ambizione – aveva fatto il bravo e, esaudendo più i desideri dei genitori che i suoi, si era sposato e, per avere un lavoro sicuro, si era dato alla pubblicità…
Figlio di un gioielliere ebreo, di una madre amorevole, cresciuto accanto ad un fratello semplicemente adorato, questo uomo vuole realizzare una vita all’insegna della medietà e della moderazione. Il progetto fallisce, perché ogni vita è intrinsecamente unica e, allo stesso tempo, riesce, perché in fondo la sua vita è facilmente paragonabile a quella di molti altri, se non altro perché inesorabilmente proiettata verso il baratro. E forse il senso di questo “molti altri” sta proprio nel nome della gioielleria di famiglia, la “Everyman’s Jewelry Store“, quella gioielleria di tutti, che è per tutti in un duplice senso: perché tratta anche oggetti a buon mercato, e cioè preziosi ma non troppo, e perché veicola un altro preciso messaggio – a tutti, in qualche modo (anche se in diversa misura), è riservata una quota di ricchezza, e cioè di bene, di senso, a patto che lo si sappia cogliere e riconoscere.
Quel valore che viene innanzitutto dal padre, morto e seppellito dopo il primo della sfilza di interventi al cuore del protagonista; da quel padre che lascia una eredità che il figlio pare incapace di far propria, un padre così inconsapevolmente generoso, così pienamente capace di incarnare il proprio compito, da segnare, con la propria morte, un crollo di dimensioni inimmaginabili. Un padre tanto grande che durante il rito al cimitero fa inesorabilmente affiorare nella mente del figlio l’impressione che “l’impresa non sarebbe mai finita, che avrebbero continuato a seppellire suo padre in eterno“. Il padre laborioso e fedele che gli ha messo a disposizione la passione per ogni lavoro ben fatto, che gli ha consegnato la propria esistenza come esempio di uomo presente a se stesso, timorato di Dio, marito fedele e padre giusto. Come dicevo, un figlio incapace di far propria una eredità tanto comune, semplice, quasi prosaica, eppure capace di innalzarsi a vette di moralità e di rigore che paiono irraggiungibili. Sta anche in questo la morte? In questa distanza dal modello paterno che, invece, ha seguito ed elevato all’ennesima potenza Howie, il fratello, ricco grazie al lavoro, sano ed ottimista, sposato per tutta la vita con la stessa donna, padre amato ed amorevole di figli nati sotto una buona stella? L’invidia e l’odio tardivi per questo fratello tanto amato scavano nell’intimo e tutto intorno a questo uomo comune una solitudine che gli imporrà di incontrare la morte senza conforto.
E però un qualche desiderio deve esserci al fondo di questo uomo che, in fondo e come ognuno di noi, ha un suo carattere assolutamente unico ed incancellabile, tale da aver reso unica la sua vita. E forse è proprio questo desiderio a scompaginare la sua volontà di costruire una famiglia borghese normale, di avere un lavoro (abbandonando la sua vocazione di artista), di essere un perfetto conformista. Questo desiderio, non compreso, non lucido e chiaro a se stesso, e pertanto distruttivo, emerge sotto forma di tradimento e fuga…la sessualità stessa, del resto, è vissuta come il negativo dell’angoscia di fronte alla morte ed è, pertanto, una forma di rapporto con la morte. Tale fantasma, e il nodo che stringe attorno al desiderio, fa la sua prima comparsa prestissimo, all’altezza di quella prima operazione per togliere l’ernia, quando al giovane ragazzo che sta per entrare nel sonno indotto dell’anestesia, in preda al terrore della morte, pare di aver sentito il chirurgo sussurrargli la sua imminente evirazione: “Nel momento del terrore in cui gli calarono la maschera dell’etere sul viso, come per soffocarlo, avrebbe potuto giurare che il chirurgo, chiunque fosse, aveva sussurrato: – Ora ti trasformerò in una bambina“. E allora la lunga sfilza di relazioni, una accanto all’altra, tutte destinate a diventare nulla, perché da un timore del nulla e non dalla sovrabbondanza paiono nascere. Relazioni, occasioni, vecchi compagni di lavoro, tutto e tutti vengono spazzati inesorabilmente via dalla morte che si impone e che viene fissata attraverso quella della madre: “Ciò che vide era il profilo a tutto tondo di una donna anziana addormentata. Ciò che vide era una pietra, la pesante pietra sepolcrale che dice: la morte è soltanto la morte, e nient’altro“.
Sono i genitori, il fratello, la figlia, coloro che lo hanno rispettivamente eletto ad essere figlio, fratello, padre…sembrerebbe che la morte distrugga tutto questo, almeno nella sua mente, anche se negli ultimissimi momenti della vita di questo uomo, alla vigilia dell’ennesima operazione, qualcosa pare mutare, lasciando spazio ad un barlume di speranza, almeno nel suo attingere al ricordo di una infanzia ed una giovinezza spensierate, felici e vitali a dispetto della morte e della sua capacità di annichilire. Mi vengono in mente gli ultimi versi di un sonetto di Shakespeare che tanto mi aveva colpito tanti anni fa – è il n. 29: un lungo lamento che nasce dalla profonda delusione e sofferenza che infliggono la vita ed il confronto con le fortune che vengono riservate agli altri. Non è però un lamento fine a se stesso, e infatti il solo pensiero della persona amata, negli ultimi versi, miracolosamente rovescia la prospettiva: “For thy sweet love remember’d such wealth brings/That then I scorn to change my state with kings“. Non è grazie alla condizione presente, che pare priva di sbocchi, ma è il solo pensiero d’aver amato ed esser stato oggetto d’amore a riscattare una intera vita, che grazie ad un attimo di pienezza viene investita e dotata di senso e dignità – qualcosa come quella ricchezza e quel valore che sono a portata di tutti. Forse meno ottimista, meno disponibile a tali slanci e concessioni, Roth (così come il suo Everyman) potrebbe però accettare un altro richiamo, decisamente meno poetico. È così che all’interno di questa lotta per la supremazia fra vita e morte, ci si può rifare ad uno dei testi più inquietanti che abbia mai letto, il saggio dal titolo La morte di Vladimir Jankélévitch, dove centinaia di pagine dedicate all’incombere di questa catastrofe e ai molteplici (tutti fallimentari e consolatori) tentativi dell’uomo per rendere la fine meno spaventosa, si risolvono in una constatazione semplice (e che io semplifico ulteriormente) e cioè che non può darsi vera equazione fra essere vissuti e non aver vissuto affatto e che quindi la morte può distruggere tutto, ma non il fatto che si sia vissuti. La vita non può essere veramente cancellata dalla morte, questo è il dato di fatto. Ci si deve misurare con ciò che è ineluttabile, con la morte come possibilità più propria dell’uomo, e magari riprendere una delle frasi preferite di questo Everyman (che mi pare fare eco all’Otello di Shakespeare), ma rovesciandola – “E’ impossibile rifare la realtà“. Vero, le cose accadono, bisogna accettarle ed accettarne l’inevitabile fine e andare avanti, se possibile. Ma bisogna anche sapere che neppure la morte può rifare la realtà, che non può disfare ciò che è stato, che non può annullare la capacità propria di ogni uomo di modificare il mondo (anche in modo infinitesimale), né impedire che queste modifiche abbiano delle conseguenze, degli effetti e che noi, proprio attraverso questi effetti certamente trascurabili, eppure reali, contribuiamo e per sempre contribuiremo al divenire del mondo, all’economia del tutto. Il mondo porta traccia indelebile del nostro brevissimo, istantaneo passaggio dal nulla all’essere senza che si dia il movimento inverso, quello che dall’essere va al nulla. Ciò che è stato rimane e permane, ma sotto altra forma. Everyman fa esattamente questo, permane come traccia…seguendo, in questo, il destino di tutti i mortali.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Non moriamo del tutto, dunque.
Una parte di noi- ciò che abbiamo fatto, ciò che siamo stati- resta sottratta al terribile potere di Ade .
I grandi uomini, e soprattutto i grandi poeti, da Orazio a Wislawa Szymborska, ce lo ripetono da sempre.
E nondimeno la morte- degli altri, prima ancora della nostra- resta una tragedia- resta la tragedia , immitigabile e irriducibile
A proposito di Shakespeare, in un film che magari ti sarà capitato di vedere, Mr Magorius e la bottega delle meraviglie , Dustin Hoffman ricorda la fine del King Lear , che si conclude semplicemente con la constatazione che il re muore , affermando che ci voleva un genio come Shakespeare per cogliere tutta la devastante semplicità della conclusione di un’esistenza. Il romanzo di Roth, di cui tu con tanta cura ci racconti (con Roth credo di non essermi mai più riconciliata, passando da Pastorale americana e La macchia umana al Lamento di Portnoy), mi ha anche riportato alla mente Stoner , e, su un piano diverso, l’altro terribile libro LA morte di Ivan Ilic’.
Valeria, non ti è piaciuto Pastorale americana? Ce l’ho pronto da leggere. Le aspettative sono molto alte, visto che ne ho sentito parlare bene in giro.
Pastorale americana è un grande romanzo. Alcuni ne criticano la tesi di fondo, ma rimane un grande libro.
@Alessandra (col permesso di Tommaso)
Pastorale americana l’ho trovato un capolavoro, come pure La macchia umana ; quando sono passata ad altro (come appunto Il lamento di Portnoy o Inganno ), la delusione è stata troppo cocente (ma il problema è mio, che in letteratura sono notoriamente inflessibile, puritana e conservatrice e non tollero deviazioni né cadute 🙂 )
Grazie per il chiarimento 😉
Inganno non è piaciuto neppure a me, ma “lamento” l’ho apprezzato molto. Non è all’altezza di Pastorale americana o di altri capolavori come Ho sposato un comunista, però è certamente un gran romanzo.
I grandi geni lo ripetono, vero. E pare di coglierla, questa verità, ma purtroppo è un sapere incerto e fumoso, sempre in balia dell’oblio. C’è uno spirito di gravità che schiaccia verso il basso, obbligandoci ad aderire a noi stessi in modo irrazionale, rivelando una superbia che confina con la follia e che pretende di farci credere che la morte sia una tragedia e non un evento “normale”, perché, molto semplicemente si muore.
Interessanti le tue riflessioni, soprattutto nella parte finale. Philip Roth è un autore che da tempo vorrei leggere, ma stranamente non mi sono ancora decisa. Lo farò.
Grazie. Molto semplicemente. Roth è da leggere.
Scrivi: “…non può darsi vera equazione fra essere vissuti e non aver vissuto affatto e (…) quindi la morte può distruggere tutto, ma non il fatto che si sia vissuti. La vita non può essere veramente cancellata dalla morte, questo è il dato di fatto.!
Parrebbe una notazione positiva – non si muore mai del tutto, appunto – ma poi concludi:
“Il mondo porta traccia indelebile del nostro brevissimo, istantaneo passaggio dal nulla all’essere senza che si dia il movimento inverso, quello che dall’essere va al nulla. Ciò che è stato rimane e permane, ma sotto altra forma.”
E dunque anche gli errori, i danni provocati,..No, non è consolatorio,anche se sto commentando il tuo scritto, non ciò che dici, forse, del libro di Roth, autore che anch’io non leggo da una vita.
Al tempo, ho molto apprezzato Pastorale americana ma anche Il lamento di Portnoy, con un apprezzamento sui generis, misto a disapprovazione , più che altro rivolta a me che apprezzavo (sic!). E non l’ho più letto.
Dovrà riprendere questo autore. .
Non è consolatorio, né deve esserlo. Deve essere liberatorio, piuttosto. Anche se gli esiti sono decisamente discutibili. Questo è un tema che purtroppo torna spesso e senza risultati apprezzabili nei miei post. La morte e la storia, la morte e la guerra e poi ancora in modo frammentario in tanti altri modi. Spinoza scrive che il saggio pensa alla vita e non alla morte. La strada è ancora lunga.
Bello è bello, bravo è bravo, utile è utile ma quando ho finito di leggerlo sono stata una settimana come pensare di dimenticarlo infatti ho letto Pynchon!!!
Due autori incommensurabili, lo penso anche io. Se poi passiamo alle preferenze, beh, che bello naufragare con Pynchon, Gaddis, Gass…
Il filosofo pensa alla vita, e non è detto che sia saggio. Il poeta pensa alla morte, e non è detto che sappia scrivere poesie. A cosa giova consolarsi? E ancor peggio a cosa giova liberarsi ? E di che? A meno che non ci si riferisca al cristianesimo per il quale Cristo libera l’uomo dalla morte. Allora lì avrebbe senso parlare di supremazia della vita sulla morte. Altrimenti la supremazia è solo della morte essendo quella della vita solo apparente in quanto fondata sulla vista di un futuro storicizzato come se veramente ciò che l’individuo compie potesse modificare il mondo. Un mondo anch’esso destinato a soggiacere alla supremazia della morte. Roth si consola proiettandosi in un suo alter ego e così illudendo il lettore che sia possibile una via di fuga, un consegnare ad altri i propri limiti e la propria precarietà.
Difficile rispondere al tuo commento, tanto è denso. Il problema non è la morte in sé, che ci è preclusa, ma la morte per noi, cioè il nostro rivolgere ad essa la nostra attenzione e, spesso, il nostro essere avvinti al pensiero della morte tanto da non riuscire a pensare ad altro, a coglierla ovunque. Nulla di patetico, ovviamente, qui si tratta di quella brutale consapevolezza che confina con un disagio che mette in discussione la capacità stessa di vivere la quotidianità. Di qui la necessità di trovare un antidoto a tale oscuro male. Mi prendo in giro: giunto nel mezzo del cammin e qualcosa in più…ho necessità di dare il mio assenso a prospettive “energiche”, venate di un “sano” ottimismo, qualcosa alla Goethe, giusto per fare un nome…ma è solo una pausa, ovviamente.
È umano che ciascuno cerchi un antidoto all’oscuro male, che si accompagna al pensiero della morte, e cerchi una via di fuga mentale. La natura umana si prende cura di noi con due sistemi: la spensieratezza della gioventù, che ci fa vedere le morte a una distanza sufficientemente lontana per non immobilizzarci, e lo spirito di conservazione che ci mette in guardia dai pericoli di morte e ci “costringe” ad ascoltare l’ingannevole flusso della vita regolando la percezione della sua l’ingannevolezza, che sarà al minimo durante la gioventù e poi con un crescendo lento e continuo.
Dimenticavo. Complimenti per la recensione e per le tue riflessioni.
Grazie a te per aver contribuito ad arricchire e ad approfondire quanto avevo proposto.
Ho letto il tuo post e anche i commenti. In sostanza il clou è il rapporto vita-morte (e viceversa) e ne ho tratto l’ennesima conferma della soggettività delle conclusioni, oggi più che mai. Oggi che la risposta tradizionale delle nostre religioni è sempre più disattesa.
Poi c’è l’aspetto letterario, il valore più o meno di questo o quel titolo di Roth, ma qui mi limito a capitalizzare il parere tuo e dei commentatori, non avendo io letto di Roth abbastanza. Certamente capiterà prima o poi.
Adesso comunque, preso a passarmi i vari Gabriel Garcia Marquez, che molto mi hanno preso, vivo Roth come un sole d’altre latitudini lontane. 🙂
Direi che hai perfettamente colto il senso più proprio dell’intera faccenda. La coppia vita-morte, così come la loro articolazione sono lasciate inevitabilmente alle interpretazioni soggettive che di volta in volta siamo capaci di dare. Del resto gli elementi e gli strumenti a nostra disposizione sono una esperienza limitata delle cose, una ragione che fa acqua da tutte le parti ed una sfera emotiva a dir poco contraddittoria. So che sei preso da Marquez (che ho sempre faticato ad apprezzare).
Condivido pienamente il tuo commento.
(Marquez: Cent’anni di solitudine, preso in mano quattro volte, e quattro volte deposto. Ma la lettura dei suoi titoli seguenti – Cronache di una morte annunciata, Memoria delle mie puttane tristi e Vivere per raccontarla – mi ha riconciliato con l’autore. Come da copione, mi confermi il detto popolare delle nonne: chi la vuole cotta e chi cruda. Aggiungo: palato che vai, papilla che trovi)
Forse io non ho scusanti: ho letto, costringendomi a farlo, tutto Cent’anni…e da lì non ho più aperto un libro di Marquez. Chissà in futuro.
Everyman non l’ho letto e non credo che lo leggerò, ma ho letto con attenzione ed interesse la tua recensione, accurata e puntuale come sempre.
Di Roth ho letto molto ma non tutto.
Alcune cose mi sono piaciute davvero molto, altre meno.
Mi sembra normale, considerato che Roth è uno degli scrittori contemporanei non solo più longevi ma anche più prolifici .
A me sembra logico che libri scritti a distanza di anni se non addirittura di decenni esprimano temi, stati d’animo, visioni del mondo anche molto diverse. Che vengano anche utilizzati stili e codici diversi. Ci sono scrittori che per tutta la loro vita (ri) scrivono sempre lo stesso libro (ho in mente parecchi esempi), altri che invece attraversano fasi, stili, modalità diverse (e anche di questi avrei parecchi esempi). Ci sono ottimi (e pessimi) autori nell’uno o nell’altro campo.
Il lamento di Portnoy è uno dei primi scritti da Roth, era giovane lui ed ero molto giovane anche io quando l’ho letto la prima volta (s’era agli inizi degli anni ’70, il libro era uscito nel 1969.
All’epoca fu un pugno nello stomaco (ma in senso positivo). Sono poi trascorsi (sia per lui che per me) molti anni. Siamo cambiati entrambi: l’autore e la lettrice. Ho ripreso in mano il Portnoy proprio un paio di anni fa proprio per verificare che effetto mi avrebbe fatto adesso. Ebbene, l’ho apprezzato dieci volte di più Penso sia uno dei suoi libri migliori (certo, tra quelli che conosco. Come ho detto, non ho letto tutto proprio tutto quello che ha scritto).
I miei preferiti rimangono i grandi romanzi della famosa trilogia (Pastorale americana, Ho sposato un comunista, La macchia umana scritti più o meno di fila un anno dopo l’altro: 1997, 1998, 2000. A mio parere, un periodo in cui veramente Roth si trovava in uno stato di grazia.
Roth nel suo lunghissimo percorso letterario non solo ha toccato molti temi diversi (dall’essere ebrei negli USA a temi più squisitamente politici, ha affrontato temi come la vecchiaia, la malattia e la morte centrandosi di volta in volta, a seconda del contesto storico, della sua età anagrafica, su aspetti che sono certo sempre tutti presenti nel complesso della sua opera letteraria ma focalizzandosi ogni volta su un aspetto più che su un altro.
Tutto questo per dire che a mio parere quando abbiamo a che fare con uno scrittore di razza (e Roth sicuramente lo è), che ha tanto vissuto e tanto ha scritto (noi qui parliamo solo dei romanzi, ma ci sono un sacco di racconti, scritti di saggistica, interviste rilasciate e ricevute, libri di memorie….) non ha molto senso dare un giudizio — come posso dire —- univoco e/o monolitico (Roth si/Roth no).
Ovvio che il giovane Roth trentenne non può scrivere come poi scriverà il Roth anziano centrato ormai da anni quasi esclusivamente su vecchiaia, malattia e morte. E non mi riferisco alla qualità di scrittura, ma proprio ai temi/interessi in quel momento dominanti, per lui.
Questo, a mio modo di vedere implica che anche un gradimento/giudizio da parte del lettore non può che venire sempre contestualizzato e modulato. Portnoy è stato ed è ancora oggi un libro dirompente, catartico, divertentissimo (la catarsi attraverso l’humor) così come — banalizzo e semplifico anche troppo — ne L’operazione Shylock (1993), L’orgia di Praga, Il complotto contro l’America c’è l’ebreo Roth — il quale, gli piaccia o no appartiene alla middle class americana — che si interroga sui regimi totalitari, sullo Stato e la politica di Israele, sul sionismo, sulla possibilità o meno per gli stati occidentali democratici che il sistema democratico possa resistere sempre e comunque.
Considerazioni banalissime, le mie, lo so, ed anche abbastanza confuse, ma spero che il senso di quello che intendo dire lo si possa cogliere egualmente.
… E scusa la lunghezza
È sempre un piacere ospitare un tuo commento. Hai reso benissimo il senso di un’opera difficile da abbracciare in un solo sguardo e refrattaria ad ogni definizione (o meglio, suscettibile di molte definizioni) perché Roth, più di molti altri autori pur valenti, ha veramente vissuto la scrittura come un corpo a corpo con il proprio tempo e la propria vita. Se la vera arte mira all’universale affondando però sempre le sue radici nel presente che cerca di svelare, allora Roth è stato in grado di “fare” arte. Esempio ne è la trilogia da te citata. Proprio questa mattina a lavoro parlavo con un collega che stava leggendo Mann e tra una cosa e l’altra siamo finiti alla letteratura americana. Come a farlo apposta è uscito fuori proprio il nome di Roth, che questo caro collega assai competente ha definito “compiaciuto”. Siamo purtroppo stati interrotti da due studentesse. Mi sarebbe piaciuto chiedergli di rileggere insieme le ultime pagine di Pastorale americana, che criticava forse troppo sbrigativamente, per vedere quanta moderazione, anche stilistica, emerge in quel finale giustamente celebre.
P.s. relativamente al tuo commento, direi piuttosto puntuale ed articolato…un piccolo precipitato delle tue competenze.
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Non l’ho ancora letto, grazie per la segnalazione.
Difficilmente si potrà rimanere delusi dai romanzi di questo grande scrittore.