Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Una decina di giorni fa ho trovato nella mia casella di posta una mail spedita da un indirizzo sconosciuto. Il corpo del testo era ridotto all’osso, a tre sole righe: un nome, un saluto, il rimando ad un allegato, il disporsi, da parte del mittente, in una paziente attesa di eventuale mia risposta. Taccio qui ovviamente il nome di chi mi ha scritto (sempre che sia vero e non fittizio), persona che per comodità ribattezzo sul momento con il nome Mittente. La curiosità si fa sincera sorpresa quando, aperto l’allegato, mi trovo a leggere, oscillando fra l’incredulo, il lievemente indignato e il lusingato (ma solo a tratti), la lunga (e direi brillante) lettera di un uomo che a suo dire da diverso tempo, e senza lasciare alcuna traccia, segue il mio blog e che con estrema attenzione (di qui la mia incredulità) ha letto tutto quello che ho pubblicato. La lettera è una raccolta di considerazioni ed è, al tempo stesso, una richiesta di chiarimenti che, sempre secondo Mittente, io sarei in qualche modo tenuto a dare…almeno a lui, tiene a specificare: come giusta ricompensa per gli sforzi (non richiesti, o forse surrettiziamente sì, ma in ogni caso graditi) da lui profusi nel seguire i miei deboli sforzi. Dopo aver letto e riletto, mi sono deciso a rispondergli con una controproposta, avanzando una sorta di patteggiamento. Le domande e le osservazioni sono così tante e a tratti così complesse/insidiose, da richiedere un notevole dispendio di tempo per organizzare delle risposte adeguate che, al tempo stesso, tengano conto della mia innata volontà di filtrare e distorcere le cose. Ho quindi chiesto all’esigente lettore di potergli rispondere attraverso una serie di post mirati, andando così: 1) a dare un primo segnale della mia buona volontà; 2) ad accogliere parte delle sue critiche, che sono poi un invito; 3) a rispondere, in maniera netta, alla sua richiesta di non lanciare il sasso per poi nascondere la mano, insomma, a cacciare fuori la testa dal buco assumendomi il rischio di vederla rotolare; 4) ad ammettere che pensavo da tempo che a questo blog manca un “chi sono” e che grazie al suo invito posso uscire da questa questione assai spinosa grazie ad un “chi sei tu?”. Mittente, a questa mia proposta, si è limitato a rispondere di sì, che l’idea gli piaceva e che aspettava di leggere la mia batteria di risposte. Dopo questo preambolo posso quindi passare in rassegna le obiezioni e le domande. Non le metterò tutte subito sul piatto. Ne ho fatta una prima selezione, le ho raccolte e adesso cercherò di presentarle mettendole a sistema, riordinandole però a mio piacimento, perseguendo obiettivi tutti miei. In un secondo momento tirerò fuori quelle che mi paiono poter essere trattate in autonomia.
Mittente parte dalla critica all’uso dello pseudonimo al posto del nome vero, del nome proprio. Mittente è oltre ogni dubbio – direi dogmaticamente – convinto che Tommaso Aramaico sia qualcosa che io avrei inventato, un nome inventato a tavolino. Per far questo (e forse per far valere il peso delle sue conoscenze) cita scherzosamente (e in qualche modo deridendomi per quella che considera una mia ingenuità – questo è il primo momento di fastidio nella mia lettura) Anton Cechov, affrettandosi a ribadire più e più volte che non intende fare paragoni. Cita una frase da una lettera in cui il celebre critico e scrittore russo D. V. Grigorovič dice ad un giovane Cechov di essere “irritato nel vedere un uomo con u a così scarsa opinione di sé da ritenere necessario l’uso di uno pseudonimo“. Aneddoto a parte, Mittente prende le mosse dalla convinzione che Tommaso Aramaico sia un nome di fantasia che io avrei creato per nascondermi. A sostegno della sua tesi porta delle prove. Le sintetizzo. Tommaso, in aramaico, significa “gemello“, quindi “Tommaso Aramaico” non sarebbe altro che un gioco di parole per dire che chi scrive non è Tommaso Aramaico, bensì qualcuno che viene non tanto prima, ma che gli siede accanto, in una sorta di gemellarità, non identico ma simile, simulacro di cui il modello rimane celato. Su tutto aleggerebbe una certa tendenza al simulare, alla simulazione. Aggiunge poi che la cosa diventa ancora più lampante se si guarda a quella frase, a quella sorta di motto che campeggia proprio accanto al mio (fittizio) nome. È il motto a partire da cui, almeno nelle intenzioni, tutto il resto dovrebbe prendere senso, una sorta di cornice significante: luce che illumina la scena e detta la direzione allo sguardo, punto di vista e via di fuga. Quella frase parla di nomi propri e di un nome che non è proprio di nessuno (che sarebbe Tommaso Aramaico), qualificato come “meschino”. Qui il discorso si fa più diretto: “Perché proprio meschino? Che significa?” Mittente si ferma sulla parola, mostrando di averne sviscerato i diversi significati. In questo contesto “meschino” non avrebbe alcuna valenza morale, ma rimanderebbe ad una forma di indigenza più impalpabile – meschino sarebbe quel Tommaso Aramaico la cui povertà o indigenza intellettuale emergerebbe in modo bruciante nel contatto con ben altri nomi propri. Di più, questa stessa bruciante idea sarebbe alla base dell’invenzione del nome, così come il nome di tale idea sarebbe un sintomo evidente. La disamina sul nome procede con la vicenda di Ian Testa – questa serie di post avrebbero effettivamente spinto Mittente a rompere ogni indugio e a scrivermi. La prova del nove sarebbe nel tag “alter-ego-dell’alter-ego” (mi ha incredibilmente stupito questa osservazione – Mittente è andato a guardarsi anche i tag. Anche lui, a suo modo, tradisce una intenzione ulteriore, tutta da pensare). Insomma, Ian Testa (Mittente a tal proposito rimanda, facendo nuovamente mostra della sua cultura, al Monsieur Teste di Paul Valéry) altro non sarebbe se non l’alter-ego di un Tommaso Aramaico che, a sua volta, altro non sarebbe se non l’alter-ego di qualcuno che sono io (ma io chi?) che, in questo momento, sto scrivendo di una lettera inviata da un lettore ad una finzione e cioè a questo Tommaso Aramaico che, pur non essendo, riceve ed è oggetto di obiezioni, domande ed inviti…e che in qualche modo risponde a tutte queste sollecitazioni. La questione è già incredibilmente intricata. Domanderei io (ma io chi? a questo punto): cosa esiste, cosa è reale? Ma al momento è meglio procedere lasciando cadere questi cavilli. Questo Ian Testa altro non sarebbe, secondo Mittente, se non un maldestro tentativo di (lo dico a modo mio) cancellare-tracce-che-inevitabilmente-lascia-delle-tracce. Un modo per uscir fuori e rimaner celato che svela la volontà di rimaner celato e che, pertanto, esce fuori nel suo scomposto tentativo di mantenersi nell’ombra. Un atto di onestà sarebbe di venir fuori in modo piano, senza portare avanti troppi giochetti.
Secondo Mittente ci sarebbe, in questo modo di procedere, un eccesso di pudicizia (il che rende il tutto incredibilmente spudorato), un moralismo quasi pretesco (dice così, pretesco) che del resto emergerebbe fin dallo scatto stesso che ho scelto per presentarmi. Mittente analizza l’immagine con dovizia (o eccesso?) di particolari. Riassumo, e riassumendo scarto quello che mi pare eccessivo. Primo: è la foto di un’ombra proiettata su di una parete (ancora idea del gemello, del doppio, etc…); secondo: l’idea del doppio si riaffaccia nuovamente (e verrebbe elevata alla seconda) in quello che pare essere lo specchiamento fra due volti, però solo uno dei due termini sarebbe un volto, mentre l’altro è un libro, o qualcosa del genere.
Mittente, al termine di queste argomentazioni tutte dedicate al problema del nome e dell’immagine, avanza una serie di domande molto precise: perché usi uno pseudonimo? c’è un’idea di fondo o è semplicemente una forma di ritrosia o peggio (e pare essere quello che Mittente pensa) di malizia? c’è l’idea di una presa di distanza? È tutto un gioco o è una cosa seria? Insomma, c’è un’idea forte? Infine Mittente nota come ultimamente i post abbiano preso una piega diversa. Pare che io (io chi?) non sia più in grado di scrivere solo ed unicamente dei libri degli altri, cercando di farmi avanti fra questi, ma che, insieme a quelli, abbia la necessità di creare un canale più diretto. In questo senso Ian Testa sarebbe un parto necessario di Tommaso Aramaico.
Adesso, io non so se questa lettera sia un prodotto della malizia di Mittente, però so che, malizia a parte, questa persona ha speso del tempo per metterla giù e che per poterlo fare ha dovuto leggere, frugare e tematizzare. Onestamente risponderò (per quanto mi è concesso) a domande che possono essere nate da sincero interesse o da una diversa intenzione. Il tempo va sempre ripagato con il tempo.
Ma in fondo il chi sei tu? mi vien da rivolgerlo a chi domanda chi sei tu?, e cioè: chi è colui che chiede “chi sei?”…la cosa si fa labirintica, gli specchi si moltiplicano in modo tale da confondere la mente, da rendere incerta la grammatica…con tutto quello che di insopportabile questo comporta….e potrebbe essere detto: non è che Mittente è in fondo un altro specchio? Legittimo. All’infinito, però, nella catena delle generazioni non si può andare, bisogna trovare un termine ultimo, qualcosa come una causa che mette tutto in modo – solo che quel termine ultimo non sono io, né posso esserlo. E del resto se lo affermassi qualcuno potrebbe chiedere, così come fa Mittente, e chi sei tu? Cadendo, lui, non io, in contraddizione.
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Questo tuo pezzo mi è piaciuto moltissimo, ma confesso che sono confusa. Non capisco se… il discorso stia viaggiando all’insegna dell’invenzione, per il sottile piacere di investigare certe tematiche (come, per l’appunto, la necessità e/o diritto di conservare l’anonimato nel blog), o se invece scaturisca da fatti realmente accaduti. Ma fosse corretta anche la prima ipotesi, complimenti vivissimi per l’intrigante e coinvolgente trattazione!
Grazie mille. C’è una ambiguità di fondo, è vero. Chi è il mittente (o Mittente?), chi il destinatario? Quante persone ci sono in gioco? Non è alla fine tutto un dire fra personaggi? È un esercizio cervellotico? Un gioco di chi ha tempo da perdere?
Me la caverò così: se non sai a chi scrivi non puoi sapere chi ti risponderà. Lo so, non è poi granché come risposta. Ma è poi così importante sapere “chi” parla? Spero di mantenere vivo, con i prossimi post, il tuo interesse…e di essere all’altezza delle questioni che mi sono deciso ad affrontare.
Appunto, dev’essere per forza sempre così fondamentale sapere “chi” parla (scrive) in un articolo pubblicato sul web? Bisogna avere a tutti i costi davanti a sé una foto, un nome/cognome, un indirizzo dell’autore del testo (racconto, analisi letteraria, ricerca) per riuscire ad apprezzarne meglio i contenuti? Mi viene in mente la Ferrante, che ha fatto dell’anonimato un modus vivendi e la cifra del suo successo. E per quanto riguarda il mio interesse per te, sai bene che non corre il rischio di nessun cedimento. Attendo di leggere le prossime puntate 😉
Hai detto tutto tu!
A me rimane però quell’altra curiosità, di sapere se il Mittente sia reale o fittizio. E se non riuscirò a capirlo dai prossimi post, spero che sarai così indulgente da confidarmelo in un orecchio 😉
Diciamo così: è un mittente reale che ha posto domande reali e che ha dato il proprio assenso a questo piccolo esperimento. Con ciò ha accettato che io (non potendo farne a meno) lo trasformassi in Mittente. Se dicessi di più tradirei un mucchio di persone, tanto reali, quanto fittizie!
Questo mi è più che sufficiente, grazie! 😉
– Che cosa c’è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un’altra parola avrebbe lo stesso odore soave
– Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani.
Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene
ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude.
E non sa di nomi, la vita .
E se a questo aggiungiamo che, nel dramma omonimo di Pirandello, Enrico IV lo conosciamo appunto e solo come Enrico IV,…………
(Per inciso, Tommaso Aramaico , vero o meno che sia, è nome bellissimo e meravigliosamente eufonico; quanto all’ aggettivo meschino, , io ci sento un profumo di Sicilia – e, pure, di Dostoevskij).
Grazie per un commento che pare una nota a piè di pagina (e tutto sanno che nelle note sta la parte più succosa di un testo). Vero, in quel “meschino” c’è anche quello.
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Un fatto alquanto curioso, da te scritto in modo tale da catturare l’attenzione. In effetti non posso sapere cosa sia realmente accaduto, però vero è che sapere di poter classificare o incasellare una persona solo in un nome non è possibile.
Grazie. Sì l’intento è proprio questo, mettere da parte i nomi, che, alle volte, sono ingombranti e riduttivi.
Sì, a volte, io direi che fanno parte della nostra persona ma che il nostro essere non è rappresentato solo da un nome per fortuna. Siamo certamente quello che siamo nel nostro conoscere e nel nostro modo di agire e di essere verso gli altri.