Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Sofferenza psichica e transazioni economiche

Nel suo celebre libro dal titolo Morfologia della fiaba Vladimir J. Propp, a partire dallo studio, dall’analisi e dalla scomposizione di un nutrito numero di fiabe popolari russe, scopre una sorta di denominatore comune, una struttura ricorrente al di sotto dei diversi intrecci. Tale schema compositivo si articola secondo 31 unità di base. Senza riportare l’elenco completo, che non è funzionale al post, riporto solo quei passaggi, o nodi, che più mi interessano: situazione iniziale – allontanamento (uno dei membri si allontana dalla famiglia) e infrazione del divieto (all’eroe viene imposto un divieto) – investigazione (l’antagonista tenta una ricognizione) – tranello (l’antagonista cerca di ingannare la vittima) – conseguimento del mezzo magico – trasferimento nello spazio – lotta (fra eroe e antagonista) – marchiatura (all’eroe è impresso un marchio) – ritorno – persecuzione – arrivo in incognito – compito difficile – adempimento – identificazione – punizione – risoluzione….

Questo riferimento viene fuori da una storia concreta che mi ha confermato – una volta di più – come alcune teorie che funzionano per la letteratura possano essere utili per comprendere, leggere e spiegare la vita reale. Ma non nel senso stra-noto e arci-ripetuto che la realtà supera la fantasia, bensì a partire dall’idea che fra realtà e fantasia, fra realtà e racconto, non ci sia alcuna netta distinzione…che la realtà (dei fatti e della psiche) si strutturi come racconto e per mezzo del racconto. La storia in questione, la vicenda reale che mi ha riportato alla mente la teoria di Propp è accaduta a mio fratello, che mi ha raccontato tutto per filo e per segno – lui che è diventato quasi un confessore della persona che il centro, l’eroe, il protagonista della vicenda stessa.

Flavio P. è un piccolo imprenditore e a un certo punto decide di vendere casa. Non una casa qualunque, ma quella che aveva costruito il padre con incredibili sacrifici e, infine, a costo della sua stessa salute e vita. Flavio P. in quella casa è nato e cresciuto, anche se ormai ha quasi cinquant’anni e la cosa non sembra dargli troppo da pensare. L’appartamento è al primo ed ultimo piano di una piccola palazzina di sei interni abitata dai cugini che, come lui, avevano ereditato dai rispettivi genitori il frutto di anni di lavoro e sacrifici. Ora, dopo la morte dell’anziana madre, e dopo un anno di quiete, Flavio decide di vendere ed incassare. C’è solo un ostacolo al suo progetto: l’appartamento è andato in eredità a lui e ad Orietta, la sorella schizofrenica che, diversamente da lui, da quella casa non si era mai mossa, sopravvivendo prima al decesso del padre e poi, a distanza di pochi anni, a quello della madre. Con un disagio limitato (almeno consciamente) ed una enorme voglia (almeno all’apparenza) di mettere una croce su quella casa, su quella palazzina e sulla stucchevole, antica ed ammuffita narrazione circa le gesta dei padri, Flavio P. annuncia in modo ufficiale ai cugini la sua volontà di vendere. Alle domande sulla sorella risponde con calma: troverà per lei una degna soluzione e, in ogni caso, Orietta è da anni ed anni inserita in lista d’attesa per essere accolta in una struttura in grado di prendersene veramente cura – e al momento è la prima in graduatoria. Flavio P. non si sente in colpa neanche per un cazzo, anzi, si sente forte, nel senso di sufficientemente giovane e capace e determinato ed economicamente all’altezza della situazione. La fortuna sembra sorridergli. La lista scorre, trova una donna e – finalmente entra in gioco mio fratello – un compratore. Flavio sente di avere in sé un grande potere e non cerca di nasconderlo – ne sono stato testimone diretto il giorno in cui sono andato anche io a vedere la casa che mio fratello aveva in mente di acquistare. Grandi strette di mano e pacche sulle spalle, discorsi sui progetti futuri, su mutui e viaggi con la sua nuova fiamma, una donna non troppo bella ma dall’aria disinibita che fingeva di carezzare un gattaccio che si aggirava in cerca di cibo solo per farci vedere il sedere. Il tutto mentre per il cortile pavimentato e dalle finestre del piccolo edificio questi parenti in là con gli anni (il padre di Flavio era di gran lunga il più giovane dei fratelli che avevano costruito quella palazzina) ci guardavano con rabbia evocando il dolore, le rinunce e gli sforzi per realizzare quella palazzina da poco ristrutturata, fresca di facciata color pesco. Ma lui, Flavio P., non dava retta a nessuno, faceva finta di non vederli o sentirli, e si rivolgeva a me, oltre che ancora a mio fratello, parlando del posto auto scoperto, delle due cantine, del tetto ristrutturato di recente. Non valevano ammonimenti, né recriminazioni, e così, dopo alcuni mesi e tutta una serie di pratiche burocratiche, Flavio P. firma l’atto di compra-vendita senza aver prima ascoltato una sola parola del notaio, voglioso come era solo di incassare. Senza quasi senza salutare i parenti cambiava casa. Certo, aveva avuto un bel da fare con la posta che purtroppo ancora arrivava al vecchio indirizzo e che magicamente scompariva – anche se aveva chiesto a mio fratello di mettergliela da parte – così come solo a fatica riusciva a far fronte alle manovre messe in atto solo per danneggiarlo. E così di punto in bianco si ritrovava con una causa intentatagli dai cugini che dichiarano illegittimo e nullo l’atto di compra-vendita giocato sulla pelle di Orietta, la poveretta schizofrenica incapace di intendere e di volere che deteneva al 50% la proprietà dell’appartamento e che da quello stesso appartamento, nell’arco di una giornata, aveva dovuto sloggiare dopo quasi sessanta anni di vita. Ivano non aveva perso tempo – era stato fin troppo semplice, per lui, difendersi da accuse infondate e dall’ignoranza del clan che lo offendeva e lo voleva mettere all’angolo, isolandolo e calunniandolo. Era ormai tutore della sorella per decreto del giudice, quindi ne amministrava i beni, le pensioni e la vita in quanto tale. Orietta era tutta pulita e pasciuta. Fumava i suoi soliti pacchetti di sigarette, camminava senza fermarsi un attimo in un grande giardino e pensava alla salvezza dell’anima sua e di quelli che la circondano. Si era perfettamente adattata alla vita in clinica, e dopo un paio di settimane già non faceva più la matta come i primi giorni, quando alla sera si ritrovava con quei brutti lividi sulla fronte per le testate che dava ai vetri infrangibili della stanza o contro lo stipite della porta della sua stanza. I medici avevano parlato di qualche goccia in più lungo tutto l’arco della giornata e di una dose extra nei rari casi in cui ce ne fosse stato bisogno. E che era? aveva pensato…per qualche goccia non si poteva certo farne un dramma. Sembrava tutto in ordine, ma qualcosa stava per incrinarsi.

Sono passati uno, due, tre anni, e Flavio P. si ritrova con tutti i capelli bianchi, una grossa flessione nelle commesse, dei preoccupanti ritardi da parte di clienti che non volevano pagare per dei lavori, una brutta storia per la concessione del capannone dove ha i macchinari, una storia assai complicata (e che non comprende a fondo) su delle tasse da pagare e, a un certo punto, un casino pazzesco per il pagamento di dieci anni di arretrati per la fornitura dell’acqua. Insomma, il risultato è una grande stanchezza, un diffuso tremolio del capo, nonché delle mani. Flavio P. è più lento, si distrae facilmente, mal sopporta il rumore dei macchinari, ogni forma di richiesta di spiegazioni/dettagli, gli appuntamenti, i continui dolori allo stomaco. Da qualche mese fatica a rispondere al cellulare e persino ad alzare il capo dal cuscino tutto sudato. La donna che si era trovato era svanita nel nulla da un giorno all’altro e lui una mattina, in preda ad un’angoscia spaventosa, contro ogni emicrania, senso di svenimento, tremolio e disorientamento era andato alla clinica per avviare le pratiche per riprendersi la sorella e portarsela a casa. Con Orietta in casa le cose si erano complicate fino alla follia. Usciva per strada scalza, alla ricerca di un parroco, faceva entrare chiunque, e lui s’era ritrovato l’appartamento pieno di zingarelle tutte impegnate a rovistare nei cassetti alla ricerca di ricchezze che non c’erano. Si erano portate via la televisione, che tanto nessuno guardava, e poi, praticamente sotto i suoi occhi, uno stereo molto costoso e decisamente impolverato. Le aveva lasciate fare, purché sparissero. E poi aveva firmato mille carte, la sorella, ed attivato non si sa quanti contratti della luce, così tanti che, a un certo punto, gliela avevano staccata, la luce, ed erano stati obbligati prima a cucinare tutta la carne che era nel congelatore e poi a mangiarla. Ed era così tanta che avevano vomitato per giorni, ed erano stati così male, che si erano limitati a vomitare e a vegetare sui divani senza pulire. E così, il mattino di quello che doveva essere stato il terzo o il quarto giorno di quella brutta settimana, aveva aperto gli occhi e visto una cornacchia zampettare nel salone, vicino alla sorella riversa sul tappeto. Non era morta, ma lui s’era spaventato e tirandosi su di scatto aveva fatto spaventare pure la bestia, che s’era alzata in volo, in fuga, fino a sbattere penosamente contro il vetro della finestra chiusa dal vento e mandandolo in frantumi. Solo allora s’era deciso a chiamare una donna delle pulizie e a presentarsi da un neurologo.

Pieno di vergogna era tornato alla palazzina. Camminava per la viuzza privata, diretto al civico 640/c, ma più barcollava verso il cancello chiuso, meno coraggio e forza trovava in sé per muovere il passo successivo. Allora aveva provato a chiudere gli occhi, avanzando alla cieca, fidandosi della sua memoria vacillante, ma la troppa paura e la grande vergogna per quanto aveva fatto e per quello che nemmeno lui sapeva cosa cercava, l’avevano spinto a voltarsi per scappare via. Ma ecco che gli si fa contro mio fratello, che proprio in quel momento stava tornando a casa carico di buste della spesa. Flavio P. s’era fatto accompagnare alla macchina e lì lui e mio fratello avevano parlato a lungo e così era venuto fuori che la casa, quella casa, era nuovamente in vendita. Per motivi di lavoro, dopo pochi anni, mio fratello era obbligato a vendere. Ecco la via verso la guarigione – un lampo di comprensione, o erano i tranquillanti? Il ritorno, la cancellazione di una colpa antica. Il compratore si tramutava in venditore e lui in eroe che tentava la via del riscatto per mezzo del ritorno nel luogo che aveva abbandonato, disprezzandolo. Il figliol prodigo che aveva tradito i genitori morti e che, con un ritardo abissale, tentava di essere nuovamente figlio.

Aveva mendicato tempo per trovare i soldi che gli servivano, si era presentato più volte in banca, aveva bussato alle porte di quelli che gli dovevano soldi per lavori mai pagati. Col marchio del dolore psichico impresso negli occhi e che rendeva fluido il suo povero corpo increspato e tremolante per il disagio, si alzava dal letto e andava a lavoro, faceva e rifaceva i conti, si confondeva fino alle lacrime nel bel mezzo di lunghissime telefonate in cui chiedeva a mio fratello di non vendere casa a nessun altro, offrendo per questo cifre fuori mercato che non sarebbe mai stato in grado di onorare. Mio fratello lo rassicurava, avrebbe atteso. Poi, finalmente, la soluzione. Si erano sentiti, forse una strada c’era. Tornare dal giudice che aveva affidato a Flavio P. la tutela della sorella, e presentare istanza per riacquistare la casa venduta anni prima, ma intestandola a lei, un investimento per lei – che doveva contribuire con una parte della somma, mentre a lui toccava trovare la differenza. Era stato felice, per una giornata. Aveva scritto l’istanza con mio fratello, insieme avevano contattato il perito per stilare una valutazione dell’immobile. Nella richiesta c’era scritto della sorella, delle continue cure di cui necessitava, della palazzina familiare con i parenti vicini che potevano assicurare tale assistenza, il necessario calore umano per arginare lo spaesamento. Flavio P. faceva cenno di sì, ci scherzava su – per chi stavano scrivendo? Di chi parlavano? Chi stavano descrivendo? Della sorella, di lui? Di chi?

La richiesta era stata accettata. Flavio P., con mano tremante, firmava l’atto appena letto dal notaio e di cui aveva ascoltato poco o nulla, lo sguardo perso sulla lucidità di un tagliacarte. Dava sempre la medesima impressione, che fosse attraversato da una leggera corrente che ne increspava la pelle in un tremolio appena percettibile, sintomo appena visibile di un abissale ribollio, di un rivolgimento che si dava senza sosta. Non pareva felice, adesso che stava per realizzare il desiderio che l’aveva accompagnato per un anno intero. Non era un momento di ripensamento, sembrava più una forma di estrema lontananza, quasi che un progetto a nessuno noto – ma che lui pareva di intuire – fosse sul punto di realizzarsi: “adesso può consegnare le chiavi al nuovo proprietario”, aveva Chiosato il notaio, dopo che la girandola di firme ed assegni. Ma le chiavi erano cadute a terra, scivolando dalle mani tremanti del povero Flavio – nulla di inventato, ripeto, tutto vero…

Come da accordi, mio fratello aveva svuotato casa per tempo ed era già stabilmente in affitto da un’altra parte. Solo che della posta ancora arrivava al vecchio indirizzo e così una volta ogni dieci giorni andava a controllare e a fare un saluto all’unico fra i cugini che ne aveva digerito la presenza. Era quello più anziano, quello che, fra le altre cose, era stato buttato a terra da un leggero ictus e che era un poco giù di morale. Era restio a parlare, la moglie li guardava dalla soglia della porta. No, Flavio non si era ancora presentato a casa, da quando l’aveva acquistata. Anzi, dell’avvenuta compra-vendita loro, i parenti, erano venuti a saperlo da mio fratello e non da lui, che neppure aveva fatto una chiamata. Neppure mio fratello era poi riuscito a parlargli. Non rispondeva al telefono di casa, né al cellulare. Al lavoro gli avevano detto che si era preso un periodo di malattia. Poi, all’improvviso, era stato lui a chiamare. Voleva incontrarlo, e così è stato. Il tremolio si era fatto più deciso, quasi tumultuoso. Flavio P. diceva di non aver coraggio di tornare, diceva che non poteva nemmeno pensare all’idea di vedere quella casa, i pavimenti antichi, i volti invecchiati e brutti e malati dei cugini. E poi aveva perso le chiavi di casa e voleva sapere se mio fratello ne conservasse un altro mazzo. Certo che lo aveva, ovvio. Ma la cosa era più sottile, Flavio P. voleva non un mazzo qualunque, ma “il” mazzo, quello originale, quello che era stato del padre che col sangue aveva costruito quella palazzina di due piani con giardino circostante in cui erano stati piantati, molti anni prima, nove alberi, uno per ogni figlio che ne era nato. Questo cercava. La chiave della generazione, di ciò che il padre lascia al figlio. L’eredità che non è qualcosa di cui si può disporre a piacimento, ma qualcosa che bisogna sempre e nuovamente guadagnare. Mio fratello aveva promesso che gli avrebbe fatto avere l’originale. Sarebbe impazzito comunque, lui che aveva voluto disporre erroneamente del dono paterno, e che adesso non poteva più rendere fruttifero e vivificante. A Flavio P. restava solo di impazzire in quella casa vuota, in un abbraccio fatale con la sorella schizofrenica e sotto lo sguardo rabbioso dei cugini, anziani custodi di un legame mortifero da cui lui non era mai veramente riuscito a liberarsi e di fronte al quale aveva inscenato una falsa fuga che si era risolta in un ritorno nell’antica prigione per chiudervisi dentro a doppia mandata. Aveva fatto di un bene spirituale un bene di natura economica – all’ombra delle sue giornate piene di impegni la casa gli si era rivoltata contro, riempiendosi di fantasmi, cosi diventando bene-spiritato…spirituale-economico-spiritato. Rientrarvi significava tornare non nello spirito (non ne era mai stato forse capace), ma fra gli spiriti, ce n’è abbastanza di che impazzire…

Mio fratello, quando gli dicevo queste cose, come suo solito mi prendeva in giro, però sono mesi che con Flavio P. non riesce a parlarci…

18 commenti su “Sofferenza psichica e transazioni economiche

  1. Guido Sperandio
    febbraio 25, 2017

    C’è materia per un romanzo, e neanche facile però da scrivere! 🙂
    Mi viene in mente Pirandello, può starci? Controllami, per favore, questa mia ultima asserzione… 🙂
    Di certo, mi sono scolato tutta la vicenda fino all’ultima parola!
    Anche perchè, una storia così, ai tempi nostri, o almeno per me, qui a Milano, è impossibile che accada. Succede magari anche di peggio ma su altra scala…
    Qui chiudo, per logica di sede e di spazio, fossimo in luogo più agevole, avremmo da ragionarci per parecchio, un discorso chiamerebbe un altro…

    • tommasoaramaico
      febbraio 26, 2017

      Grazie. Si, di materiale – per scrivere e discutere – ce ne sarebbe in abbondanza. Io mi sono trattenuto, nello scrivere, pur licenziando un post sempre e comunque troppo lungo. Se c’è di mezzo il problema dell’identità e un soggetto imbrigliato da quelli che lo circondano, allora il riferimento a Pirandello è d’obbligo.

      • Guido Sperandio
        febbraio 26, 2017

        Scrivi: “Se c’è di mezzo il problema dell’identità e un soggetto imbrigliato da quelli che lo circondano…” sintesi splendida.

      • tommasoaramaico
        febbraio 26, 2017

        Grazie. E grazie una volta di più perché a Pirandello mi hai rimandato tu col tuo commento.

  2. marcello comitini
    febbraio 26, 2017

    Il post è lungo. È vero, ma vale la pena di leggerlo sino in fondo. E mentre lo si legge si va costruendo nella mente del lettore la figura di Flavio P., che da imprenditore “rampante” si trasforma in un essere che si accartoccia su se stesso. Per via dei parenti? Non mi sembra assolutamente. Mi sembra piuttosto per via di quei limiti dell’uomo che lentamente lo logorano e lo riducono all’ombra di se stesso. Se questo sia Pirandelliano non lo so. So per certo che quanto hai narrato fa profondamente riflettere sulla vacuità del guscio umano, sulla sua incapacità a difenderlo dall’erosione del tempo. È una storia che può accadere in qualsiasi città del mondo e in qualsiasi epoca, appunto perché connaturata alla natura umana. Esiste una morale in tutto ciò? L’unica morale possibile, secondo me, è considerare il buio che circonda l’essere uomo, come da anni (1897) suggeriscono le domande poste da Gaughin, nel suo noto quadro.

    • tommasoaramaico
      febbraio 26, 2017

      Grazie per il bel commento. Non di certo i parenti…che sono una sorta di detonatore. Come ben scrivi, il tutto è piuttosto da ricondurre alla condizione di fragilità propria dell’uomo, ma anche ad una nuovissima idea di libertà che acuisce tale disagio. P.s. nel buttare giù questo post in realtà avevo in mente un breve e denso saggio di Berger&Luckmann dal titolo Lo smarrimento dell’uomo moderno.

    • Guido Sperandio
      febbraio 26, 2017

      Scontata la fragilità umana, fin troppo ovvia, cambiano però le modalità a secondo della situazione, del luogo e del tempo. Non fosse così, non si giustificherebbero tutte le varie storie, romanzi e film e anzi… nemmeno questo post.

      • tommasoaramaico
        febbraio 26, 2017

        Commento assai raffinato…e infatti, così come aggiungevo a margine di un commento di Marcello, il fatto viene inquadrato entro una cornice di riferimento ben precisa e a “tre dimensioni”: spazio, tempo e, in quanto risultante, senso/contesto-storico…

      • Guido Sperandio
        febbraio 26, 2017

        Ma infatti, ed è così che io ho colto il tuo racconto, meglio: messaggio, esemplare case-history.
        La quale, come tu scrivi appunto perfettamente, risponde alle “tre dimensioni” sempre da te citate.

      • marcello comitini
        febbraio 26, 2017

        Peccato, Guido, questa tua osservazione sull’ovvietà della fragilità umana: hai gettato un’ombra sulla validità del tuo commento precedente.

      • Guido Sperandio
        febbraio 26, 2017

        Frase sibillina, Marcello. Ho capito solo che vedi un’ombra.

  3. marcello comitini
    febbraio 26, 2017

    Come P.S. a quanto sopra ti pregherei di rivedere queste due frasi per correggerne gli errori:
    1) Ivano non aveva perso tempo – troppo semplice per lui difendersi da accuse (…)
    2) Solo allora aveva s’era deciso a chiare una donna(…)

    • tommasoaramaico
      febbraio 26, 2017

      Lieve rossore. Purtroppo l’assenza di tempo e – spesso – di lucidità giocano brutti scherzi. Grazie.

      • marcello comitini
        febbraio 26, 2017

        Ho messo come p.s. la mia osservazione sulle sviste perché tu possa cancellarla: non avrebbe senso lasciarla dopo aver fatto le correzioni. Buona domenica.

      • tommasoaramaico
        febbraio 26, 2017

        E invece lo lascio…tipo monito di me a me stesso. Anche se il post è stato scritto (e riletto) decisamente di fretta (e del resto – come molti altri – non ho purtroppo scelta, date le mille incombenze che la “vita vera” impone), sarebbe sempre auspicabile fare le cose per bene…Quindi, grazie e buona domenica a te.

      • marcello comitini
        febbraio 26, 2017

        Grazie della tua onestà, Tommaso.

  4. Renza
    marzo 5, 2017

    Sì, una storia avvincente, pirandelliana, tragica. Quelle situazioni che atterriscono Ian Testa, gorghi in cui teme di cadere. Sbaglio?

    • tommasoaramaico
      marzo 5, 2017

      No, non sbagli assolutamente. Di pirandelliano c’è proprio il senso di irrealtà che ispira la realtà. Grazie per il commento.

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Questa voce è stata pubblicata il febbraio 25, 2017 da con tag .

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