Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Rispetto ad altri post dedicati alla figura del padre (qui), post che prendevano le mosse da testi di grande spessore letterario, questa volta, con Ian Testa come figura paterna, tutto è decisamente diverso – frutto di una vera e propria forzatura. Niente a che fare con Geppetto o con il padre eroico e tragico di McCarthy o quello più umano di Pontiggia. No, Ian Testa è una figura di padre che non regala storie avvincenti o colpi di scena, il suo esser padre è decisamente privo di capovolgimenti e sorprese, la sua impresa è tutta chiusa nel tentativo di comprendere cosa fare e nel misurare le conseguenze di quanto ha già fatto. Ian cerca di riportare alla memoria gli anni in cui è stato bambino, tentando di rintracciare nella sua esperienza infantile tutti quegli elementi che hanno contribuito a renderlo quello che è effettivamente divenuto. Ian fa tutto questo per conseguire un unico obiettivo: dare al figlio la possibilità di divenire un uomo che abbia una vera fiducia in se stesso, un uomo “capace di amare e lavorare”. Ian Testa è uno che passa intere serate sveglio a leggere libri di pedagogia, è uno che prende appunti e che legifera su se stesso, uno che, quando serve, si chiama a processo senza concedere sconti di pena. Ian Testa guarda il proprio figlio trattenendo la commozione, tacendo il proprio amore, ricordando quanti pochi riguardi i suoi genitori avevano avuto nei suoi confronti e quanto danno gli avevano arrecato, anche se forse inconsapevolmente e in buona fede…Ian è tutto teso a non commettere errori, a non infliggere umiliazioni, soprattutto quelle più sottili, quelle che lui stesso aveva dovuto subire, annullato dallo sguardo del padre, sempre venato d’una severità mista a delusione che scattava ad ogni loro incontro. La delusione mista a rimprovero era sempre in agguato, anche se il giovane Ian era certo di non aver fatto nulla di deplorevole. Eppure lo sguardo letteralmente “era”, prodotto di una delusione/biasimo atavico, originario – dispositivo attivato dal suo stesso essere. Punto. Il suo esistere produceva di per sé colpa. Oggi Ian Testa lotta contro quello sguardo che, alle volte, vuole incarnarsi sul suo volto. Aiuta il figlio a tirarsi su in piedi quando inciampa, raccoglie i cocci di un piatto rotto, compra un secondo gelato quando il primo è lì a sciogliersi sul marciapiede…tutto senza mai far cadere sul figlio quello stesso sguardo severo che su di lui si abbatteva anche solo per una scarpa che slacciata…Se si ritrova davanti il figlio che improvvisamente dà di matto, non si mette lì a discutere, a fare la paternale, a convincere il figlio con discorsi sui massimi sistemi pensati e masticati per un ragazzino di quattro anni. Non lo fa perché non sarebbe in grado di farlo, perché sarebbe da vigliacchi mettersi a ragionare partendo dall’idea che gli unici argomenti possibili siano quelli di un adulto, e cioè i suoi, e non quelli avanzati da un’altra intenzione, quella del figlio. Non lo fa perché un tale atteggiamento presuppone l’idea di una superiorità sua rispetto al figlio e lui il figlio non lo vuole schiacciare, come egli stessi si è sentito schiacciato in passato, anzi…e nemmeno risolve la situazione senza troppi scrupoli, così come facevano con lui, quando era un bambino. No, lui sa bene che quando il figlio dà di matto, allora è in balia di emozioni più grandi di lui e così, per prima cosa, allarga le braccia, forse non così grandi e muscolose, ma ampie e forti a sufficienza da placare il figlio, che lo ringrazia con gli occhi e il respiro che torna finalmente regolare.
Ian Testa lavora sodo per scolpirsi nell’animo alcune proposizioni fondamentali, una di queste è che il figlio, qualsiasi cosa faccia, nel bene e nel male, è sempre convinto di fare la cosa giusta, quella migliore o, in ogni caso, l’unica cosa che gli è possibile fare in quel preciso momento ed in quella determinata situazione. E poi c’è la domanda fondamentale: cosa ero io alla sua età? Ian Testa ha dimenticato – probabilmente ne ha avuto la bruciante necessità, non ne ha potuto fare a meno – insomma, ha dimenticato quasi tutto quello che concerne la sua infanzia, ma l’atmosfera no, quella no, quella lo perseguita…guarda il figlio e si ripete: è un bambino incredibile. Non lo pensa per convincersene, è la pura verità. Ian sente come suo compito la necessità di restituire al figlio esattamente questa sua ferma convinzione e combattere contro l’altro Ian Testa, quello ancora figlio, quello che si dibatteva in anni duri e tormentati, fatti di un certo isolamento e di pomeriggi pieni di silenzio passati a gironzolare intorno alla televisione accesa nel tentativo di fare ed essere qualcosa. Ian Testa ha giurato a se stesso di far di tutto per allevare un figlio che non sia attraversato, tipo basso-continuo, da un certo desiderio di morire…
È per questo motivo che, in cuor suo, chiede al figlio scusa per la propria ansia (per alcuni tratti dell’ansia di Ian Testa, qui). Sa bene che il figlio cerca se stesso nel suo volto di padre, specchiandovisi, così come lui, da bambino, si specchiava nel volto del padre trovandovi sempre un certo sconforto, una certa tendenza a voltarsi dall’altra parte, come a volergli nascondere una verità non proprio esaltante, con l’inevitabile risultato di dare ad Ian, prima giovane poi adulto, la certezza di essere sostanzialmente incapace di tutto, privandolo della capacità (e di occasioni ne ha avute molte lungo la sua vita) di godere sinceramente dei successi ottenuti, sentiti sempre come frutto del caso, della fortuna, di una gentile concessione di quelli che gli sono intorno e che non vogliono, pur potendo, distruggerlo…Ian Testa vuole guardare il figlio dritto negli occhi e sorridere compiaciuto; dirgli, fra le righe, sei un ragazzino decisamente cazzuto, o qualcosa del genere…Pur non dando il proprio assenso, Ian Testa ha letto molti libri, ma l’unica cosa certa è per lui questa: per allevare dignitosamente il proprio ragazzo deve riportare alla mente i torti subiti, così da non perpetrarli…le colpe dei padri che si riversano sui figli sono essenzialmente queste…aver subito e non aver compreso e, quindi, far fluire quel non-compreso, quel non-veramente-sentito, quel sepolto, sul proprio figlio, dando così una nuova spinta alla ruota del dolore. Ian sa che il processo è lungo e sa di sbagliare spesso. Ian Testa è un padre pieno di sensi di colpa. La moglie lo ferma, gli prende il viso fra le mani e spesso non sa che dire, rimane senza parole – vorrebbe dirgli che è un buon padre, ma non lo fa, sa che lui non le crederà, non è che non voglia, semplicemente non è in grado di crederle.
È per questo che non ama vedere delle somiglianze fra sé e il figlio. Non tollera l’idea che il figlio possa essere destinato a vivere, ad attraversare la vita ed interpretare/sentire il mondo e gli altri e se stesso in modo simile a lui. No, questo proprio no…anche se forse Ian Testa esagera, e lo sa. L’errore di molti padri consiste nel vedere nei figli un prolungamento della loro esistenza, con tutto il carico di negazione, dolore e dolorosa conflittualità che questo comporta. Solo che Ian Testa, nel suo voler lasciare libero il figlio rischia di togliergli il terreno da sotto i piedi, di strappare le radici che sta faticosamente piantando nel terreno della vita. Alle volte Ian si piazza davanti allo specchio e si picchia sulla fronte. Come posso essere stato così sciocco, si dice…che c’è di tanto assurdo se al posto di un giocattolo vuole una stramaledetta riduzione dell’Odissea? Niente, non deve mica per forza essere schizzato. E non c’è nulla di così assurdo nemmeno se si piazza davanti alla finestra e guarda fuori senza muoversi o parlare per qualche minuto. Che c’è di male se se ne sta un poco assorto? Non significa mica che in futuro dovrà essere un uomo tormentato o tendenzialmente infelice, disposto su di un piano inclinato verso la sparizione. Dovrebbe compiacersi, al contrario, ma lui non ne è in grado, almeno non sempre. C’è rimasto scottato, Ian, con la questione dell’esempio e delle orme paterne e del suo misero fallimento nel tentativo di seguirle. La sua vita si è in qualche modo costruita su inciampi, sbarellamenti e deviazioni – la sua vita è un aver perso la rotta rispetto alla via indicatagli a suo tempo dal padre. Ian non è più un ragazzino e non è ancora in là con gli anni, è semplicemente un uomo maturo che ha già fatto un mucchio di cose e raggiunto tutta una serie di traguardi e successi…e dal punto di vista morale ed intellettuale ha praticamente annullato il padre…ma per Ian, nel senso di dentro la sua testa piena di pensieri che si agitano come spifferi, il padre non è invecchiato e non si è infiacchito di una tacca e, su tutto, non si è ancora rassegnato-alla-rassegnazione: il padre ha sempre quel brutto sguardo severo, non rabbioso, ma deluso-giudicante che amareggia il povero Ian anche e soprattutto nei momenti di massima realizzazione. Ecco perché non riesce a tollerare il figlio che, alla sera, dopo l’ennesima giornata piena di cose entusiasmanti, gli confida, prima di crollare nel sonno, che per tutto il giorno non ha fatto nulla o quasi…perché allo stesso Ian toccherà la stessa sorte poco più tardi, giusto il tempo di lavarsi ed infilarsi il pigiama, di bere una tisana con la moglie adorante-implorante, mentre lui in cuor suo si ripete, sofferente, di aver buttato una giornata senza aver concluso nulla…povero Ian! È un vero e proprio colabrodo. Non gli riesce di trattenere nulla e il bene che ha prodotto, in termini di lavoro, gentilezza e dedizione è alla fine lampante solo per chi gli è intorno, mentre a lui nulla rimane, se non una certa dose di sconforto ed il proposito di fare di più e meglio…con suo enorme dispendio di energie.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Non credo di essere la prima a dire che il mestiere di genitore è uno dei più difficili del mondo, e non c’è una scuola che insegni come si fa, se non la vita stessa. A costo di errori, cadute, sensi di colpa, esami di coscienza, tentativi di aggiustamento e piacevolezze simili. Ma purtroppo c’è anche chi non ci prova proprio a fare il genitore e avanza imperterrito con i paraocchi, come il padre di Ian. Bello seguirti in questo percorso, che mi piace immaginare un po’ personale, autobiografico, anche se poi magari non lo è (o non lo è del tutto).
Grazie. Difficile fino all’impossibile. Quasi oltre il mestiere (che in qualche modo si impara) è una sorta di scommessa. Ed un ponte con la propria infanzia. Si, direi che è un mix “asprigno” di letture, vecchi appunti, cose nuovissime e/o individualissime (Anche se imbellettate).
Ciao, Tommaso! Attento che poi diventi Proust! 🙂
(Lasciami scherzare, che se smetto di scherzare, a pensare seriamente finisco sciolto senza speranza in pianto)
Caro Guido. Meglio scherzarci su. Però, a ben vedere, con tutte queste tentazioni verso una ricerca del tempo perduto, si rischia di perdere tempo prezioso…ma per far cosa, del resto?
Recuperare il passato serve però a capire meglio il presnete, o no?
È precisamente il senso del post. Anche se c’è il rischio di tramutarsi in gamberi con i baffi…
In attesa dell’illuminazione sulla via per Damasco (oggi peraltro molto contrastata) il mio motto è: Nell’attesa di morire qualcosa occorre pure fare.
In attesa dell’illuminazione sulla via per Damasco (oggi peraltro molto contrastata) il mio motto è: Nell’attesa di morire qualcosa occorre pure fare.
Commento riferito a Tommaso (sto facendo casino, perdonooo!)
Vero. Qualcosa bisogna pur fare. Al senso dell’agire si pensa solo in un secondo momento…
🙂 sì, in un secondo momento a meno di non agire nuovamente, che però non va bene neanche questo
Beccato! Adesso sappiamo perché scherzi sempre… 😉
Questa mia era la replica a Guido (non so come sia finita quaggiù), al suo commento “Lasciami scherzare”.
Tesoro (posso chiamarti così?), ci voleva tanto?!?! 🙂 (Mi riferisco ad Alessandria, ovvio).
Nota: ecco la femmina (gesummio, queste femmine che adoro, croce e delizia della mia vita!), gatto col topo, attente all’indizio, leste a coglierlo…
Tò, adesso sono diventata una città. Un grande onore, a dire il vero, visto che Alessandria è bellissima (perdonaci le schermaglie, Tommaso!, è la nostra parte infantile mai sopita del tutto 😉 )
AlessandrIa, urca! … Ho severamente ripreso la mia tastiera!
Sono deliziose, queste schermaglie…le ospito volentieri!
Essere genitori è un compito ingrato, ma anche essere figli lo è; a volte tocca scrivere dei romanzi, per venirne fuori
Si. La deprivazione è la solitudine in cui può vivere/crescere un bambino è quasi inimmaginabile. Quel bambino può veramente diventare di tutto, persino scrittore, terapeuta o chissà che altro, nel suo tentativo di porre riparo a quanto subito.
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