Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Natale #10: Il prossimo tuo

Arriva decisamente fuori tempo massimo, questo post, ma in qualche modo mi pare legittimato a sforare tali limiti canonici, data la portata dell’argomento, che per sua natura affonda le radici nel senso più profondo del Natale, ma che nella sua ricchezza butta fronde in ogni direzione, al di là del tempo, dei calendari liturgici, dei luoghi. Chiaramente qui non si osa neppure lontanamente proporre una esegesi, per una cosa del genere mancano competenze e capacità…quello che segue è più un “esercizio”, qualcosa che nasce da una serie di letture (si rimanda, fra tutte, a Drammatica della prossimità di Massimo Cacciari, saggio da cui si pesca a piene mani), e da una coerenza ed urgenza interne, da un desiderio che spinge e punta a chiarificare, ritornando più e più volte sulla medesima questione…uno dei tanti aspetti di tale pressante questione viene a galla fuori tempo massimo, cercando però riparo e protezione sotto l’ombrello (o albero) del Natale…insomma: chi è il prossimo tuo?

Più sopra mi sono lasciato andare ad una goffa captatio benevolentiae…la causa è da rinvenire non solo nella portata della questione, la cui curva di senso si impenna fino ad altezze siderali – per me solo genericamente immaginabili e comprensibili – ma anche dal fatto che mi prendo la libertà di prendere le mosse da un passo tratto dai Vangeli e, più precisamente da Luca,10, in cui viene narrata la parabola del Samaritano – che riporto per intero.

Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: “Maestro, che devo fare per avere la vita eterna?”. 26 Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”. 27 Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. 28 E Gesù: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. 29 Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. 30 Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. 37 Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.

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Solitamente si pensa che il prossimo sia colui che dall’esterno si avvicina, il generico altro. Qui, dalla parabola appena riportata, le cose paiono fin da subito molto più complicate. Un primo dato pare incontrovertibile: al di là di ogni patetica ed edificante concezione, la dinamica della prossimità assume tratti decisamente respingenti. Il sacerdote ed il levita sono esattamente l’esemplificazione della durezza che implica l’esser prossimi, del fatto che l’autentica prossimità non è cosa semplice e che non risponde ad alcun automatismo, se non di segno inverso: il sacerdote e il levita fuggono di fronte al corpo straziato dello sconosciuto. Il sacerdote e il levita si mantengono dall’altra parte della strada, guardano verso altri luoghi, non deviano dal loro percorso. Solo il Samaritano, anche lui impegnato in un viaggio, prova compassione. La compassione dà immediatamente la misura etica della prossimità, che non è vicinanza o contiguità in senso spaziale ma, prima di tutto, sfondamento dei confini dell’io: lo straniero mezzo morto, con il suo corpo straziato, varca la soglia della soggettività, irrompe nel cuore del Samaritano portando in lui il dolore che lo affligge – il Samaritano, nel provare compassione, è prigioniero del dolore dello sconosciuto. Non solo, in questo passaggio si evince un’altro aspetto fondamentale della prossimità: il prossimo non è mai l’altro, ma sempre io stesso. E infatti il Samaritano lascia la sua strada per avvicinarsi e farsi-prossimo allo straniero. Per il soggetto l’approssimarsi è di fatto un disporsi a rinunciare ai propri confini fisici, spirituali e culturali per sostenere la forza d’urto e la capacità di sfondamento proprie dello straniero, dell’altro che non è più un generico altro, ma l’altro uomo con le sue particolari, irriducibili, non-generalizzabili ferite e sofferenze. Ci si può fare prossimi solo a quello che disturba e respinge, a ciò che è diverso e persino nemico, a ciò che contrasta il nostro modo di essere…rispetto a quanto ci assomiglia, che ha sembianze di ciò che noi già siamo, ecco, rispetto a questo non ci si può approssimare, A=A è vuota tautologia e non prevede incontro/prossimità, né movimento, bensì solo stasi…

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Il vero ed autentico approssimarsi è sempre senza speranza che vi sia simmetria alcuna, prescinde da calcoli fra entrate ed uscite, è dare che non mette in conto un ricevere, che non si fonda su di un patto…è la bancarotta etica del soggetto che si assoggetta all’altro, è il luogo dove “salta ogni schema compensativo-retributivo” come afferma Cacciari…il Samaritano si approssima, lì dove gli altri passano dritti. Nessun motivo (nel senso di ritornello, motivetto, canzonetta dello spirito) patetico, si ribadisce…il Samaritano agisce, interrompe il suo viaggio, si approssima a chi sta a terra, al corpo martoriato, tocca e sana delle ferite, si riempie le narici di tanfo, gli occhi di orrore, le mani di sangue e piscio e merda, gli orecchi del lamento dell’uomo…assiste ai bisogni più basilari dello straniero (ecco tutto il materialismo sublime dello spirituale), se ne fa carico, svuota le proprie tasche, si fa garante, ma senza lasciare un nome…si predispone ad essere in debito, ma nel suo andar via dalla locanda rinuncia alla ricompensa, all’eventuale gratitudine. Semplicemente non ne “tiene conto” perché nessuna logica economica lo muove…il beneficiario è libero da vincoli e gravami. Il Samaritano non aveva previsto questo incontro, non si era recato in un luogo per assistere o far del bene, semplicemente andava per i suoi affari ed ha deciso di mettere fra parentesi quanto prestabilito per far fronte all’imprevisto, a quanto non preventivato, a ciò che inquieta e mette in pericolo. Il Samaritano non lascia campo libero a quel naturale movimento di rifiuto che è invece esemplificato da coloro che passano dritti, bensì risponde ad una urgenza che non è però di stampo intellettuale o emotivo, bensì di natura etica…nel prendersi cura di quel corpo il Samaritano sana se stesso che da quella visione è stato colpito e ferito…il dolore dello straniero è, per effetto della com-passione, il dolore che affligge il Samaritano stesso…prendendosi cura dell’altro il Samaritano può approssimarsi e prendersi cura anche di sé. Non si ha immediato accesso a se stessi, così come non ci si può prendere immediatamente cura di sé. Non esistono né coincidenza, né linea dritta. La vera via verso il sé passa per l’altro, che detiene la chiave d’accesso per l’enigma che siamo.

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Amare è approssimarsi a ciò che è distinto, assumendone il carico di dolore, facendolo nostro, superando ogni vincolo famigliare, sociale, politico, etnico…colui che si approssima fa saltare la gabbia della propria appartenenza senza appropriarsi dell’altro, ma vivendone il dolore come dolore che lo offende…il Samaritano può quindi tornare al suo viaggio solo dopo aver deviato…senza quella deviazione il suo viaggio sarebbe stato ridotto a fuga e vicolo cieco, ad un perdersi nell’angusto labirinto dell’Io…la curvatura etica del suo viaggio è di per sé rottura della gabbia rappresentata dalle aride pretese e direttrici dell’Io. Si è sempre responsabili del dolore dell’altro nel momento in cui non si devia dalla propria via, non si può mai veramente tornare su (e percorrere autenticamente) questa via se non dopo averne arricchito il tragitto passando attraverso l’altro. Contro ogni volontà di mantenere la propria strada, il perdersi – e cioè il farsi prossimi – per sentieri che non ci appartengono, permette di approssimarsi a se stessi, oltre che all’altro, ed approdare ad una nuova idea di essenza, non più intesa come qualcosa che sta o sub-sta, ma come qualcosa che ex-siste, che sta fuori, che caccia fuori e contemporaneamente lascia spazio all’altro…esattamente come il Samaritano, in cui amare coincide con il saper farsi prossimi e mantenere la distanza dall’altro, togliendo a questa prossimità ogni tentazione al possesso…

Che c’entra tutto questo con il Natale? Molto, se si considera la natività come una forma dell’approssimarsi di Dio all’uomo, del Suo deviare verso il basso, verso le sofferenze, il vizio, la brutalità umane…c’entra molto se, nel farlo, assume la forma dell’indifeso per eccellenza, il neonato…preconizzando la ferita che si aprirà, dilaniando il divino nel suo contatto bruciante con l’umano.

Che cosa c’entra col Natale? Molto, se l’accesso al divino ed alla sua rivelazione non è mai diretta, ma sempre mediata dall’approssimarsi all’altro, al sofferente…così come il Samaritano mostra.

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Cosa c’entra? Molto se il giorno della vigilia di Natale, per errore, una signora del piano di sotto – e con cui non avevi mai scambiato una parola – si trova sola a casa, senza cibo, né figli o cari a prendersene cura, se è sporca della solitudine in cui versa e non emana buon odore; molto, se la vecchia ha fame e freddo e suona al campanello della porta della tua casa, che invece è calda e festosa; molto, se chiede del pane perché non ne ha in più; moltissimo, se dandole del pane e le chiedi dei cari ti risponde che è sola, per quella sera, e che solo il giorno dopo, per pranzo, uno dei figli dovrebbe andare a prenderla per portarla nemmeno lei sa bene dove. C’entra, con quanto detto, se chiudi la porta facendo gli auguri alla donna che lenta scende le scale e dopo aver percorso un pezzo di corridoio ritorni indietro e spalanchi la porta e scendi le scale e la riporti nella tua casa anche se lei, vecchia, piagnucola e ripete un no in cui risuona una disperato si. C’entra, se quella vecchia siede nel tuo salotto ben tenuto e riscaldato ed ha occhi solo per i bambini che giocano e dall’alto della sua posizione di disgraziata non bada ai parenti esterrefatti che lasciano uno spazio fra sé e lei. C’entra come null’altro al mondo, se l’intrusa mangia con la lentezza…e, frenando la mano tremante che non osa carezzarli, si rivolge ai bambini con parole appena sussurrate che spezzano il cuore del padrone di casa….

4 commenti su “Natale #10: Il prossimo tuo

  1. Guido Sperandio
    gennaio 12, 2017

    Il principio è giusto è sacro. L’applicazione nella pratica è difficile. L’accoglienza della vecchietta vittima di un cattivo destino è un esempio perfetto. Purtroppo però esiste anche il detto, non a caso: “accogliere la serpe in seno”. Il prossimo è in realtà un termine-un contenitore che di prossimi ne contiene tanti. Il problema, savlo comunque sempre il principio enunciato nel post, è conciliare slancio di cuore e freddezza di mente, da questa non si può prescindere.

    • tommasoaramaico
      gennaio 12, 2017

      Come dici tu, giusto è sacro. E giustamente il contatto con tale sfera è arduo, quasi impossibile da mettere in pratica, o per pochi, in pochi momenti…

  2. Ivana Daccò
    gennaio 14, 2017

    Hai scritto: “La vera via verso il sé passa per l’altro, che detiene la chiave d’accesso per l’enigma che siamo.”
    Tante cose in questo tuo scritto, tutte importanti perché si tratta di domande di ognuno di noi su di sé; e sull’altro che siamo e sul nostro essere unicamente come altri per qualcuno. Ininfluente il fatto di esserne o meno consapevoli.
    La distanza come sola condizione perché l’identità si realizzi, che richiede il mettere a rischio la possibilità di non raggiungerla. Dopotutto, per fallire un obiettivo, quest’ultimo dovrà pure esser stato posto.
    Che poi la nostra domanda di senso si realizzi attraverso il saperci rendere prossimo all’altro, o con il senso di colpa, il senso di impotenza di non saperlo/volerlo/poterlo fare, sarà ogni volta diverso. All’estremo, può andar bene anche il respingimento dell’altro, attivo, che comunque riconosce, a noi e all’altro, identità. Penso al riconoscimento, doloroso e violento, su altri e su di sé, che vive il razzista, che non dispone di altro modo per esprimere la domanda capace di farlo essere, attraverso l’altro. Creando dolore. Meglio di niente?
    Un pensiero confuso, come vedi. Che si disperde. Che tuttavia non deve avere risposte.

    • tommasoaramaico
      gennaio 14, 2017

      Hai riassunto benissimo. È il problema della definizione di sé a partire dall’altro – e non viceversa. È si tratta di una definizione non sempre consapevole. All’intero di questo schema generale c’è tutto, credo – tanto il riconoscimento, quanto la negazione…grazie per il bel commento.

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Questa voce è stata pubblicata il gennaio 12, 2017 da con tag , , , .

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