Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Immaginate una mattina di fine novembre. Un principio d’inverno, più di vent’anni fa. Cercate di figurarvi la cucina di una vecchia casa enorme, in un paese di campagna. Una mastodontica stufa economica nera è la caratteristica principale di questa cucina; ma ci sono anche un grande tavolo rotondo e un camino che ha davanti due sedie a dondolo. Proprio oggi il camino ha cominciato il suo ruggito stagionale.
Ricordo di Natale di Truman Capote non è di certo fra i più noti e racconti di Natale, ma è probabilmente uno dei più belli che mi sia mai capitato di leggere. Capote era un grande scrittore, e questo è noto, e questo racconto è scritto in modo così magistrale da rendere superflua ogni introduzione e/o spiegazione. Traspare, da queste poche pagine, tutta la componente autobiografica, l’infanzia dell’autore trascorsa in Alabama, in una New Orleans d’altri tempi, avvolta in una cornice quasi onirica. Pare di trovarsi in quella “natura” per come traspare, giusto per fare un esempio, ne L’arpa d’erba, romanzo splendido di cui purtroppo si parla poco o nulla. Bisognerebbe ricavarsi una decina di minuti, assicurarsi che nulla possa disturbarci nel bel mezzo della lettura e così lasciarsi catapultare in una infanzia dura e povera, ma resa magica dal potente influsso dell’immaginazione. Nessuno dovrebbe interromperne la lettura, perché questo è un racconto scritto da un adulto in grado di vivificare le esperienze dell’infanzia, un racconto diretto non a bambini, dunque, ma ad adulti che vengono chiamati ad abbandonare il freddo intellettualismo dell’età matura per lasciar nuovamente il “bambino” libero di sognare, svincolandolo dalla dura necessità di crescere e prendere atto della realtà…la voce narrante è quella di Buddy, un bambino di soli sette anni, lei, la sua migliore amica, ne ha invece più di sessanta, anche se in fondo è ancora una bambina…e il Natale si avvicina ed è ora, come ogni anno, di preparare le focacce.
Le focacce sono tutto, sono il centro ed il senso del Natale e tutto ruota intorno alla preparazione del dono più prezioso che hanno da offrire. Buddy e la sua amica del cuore ci fanno correre per campi oceanici, ci fanno inoltrare nei boschi in cerca delle noci non colte dai proprietari, ci fanno conoscere Queenie, la cagnetta che li accompagna ovunque. E poi, con i pochi soldi che hanno, devono comperare molte cose, tipo un mucchio di farina e vaniglia e zenzero, canditi, uvetta e nocciole e poi passare addirittura qualche momento di tribolazione per il whisky. Ne fanno di tutti i colori, Buddy e la sua amica: partecipano a fiere e concorsi, si perdono in interminabili discussioni, il mondo stesso diventa una variopinta girandola mossa dalla fantasia; e la sua amica, poi, sa fare cose pazzesche, tipo uccidere serpenti a sonagli, addomesticare colibrì, raccontare storie paurose, coltivare splendide camelie. Ma la cosa più importante sono le focacce. Per poterle preparare sono capaci di fare di tutto. I soldi per comprare gli ingredienti li hanno racimolati persino uccidendo le mosche, “oh, la carneficina di agosto“.
La cucina economica, nera, piena di carbone e di legna, brilla come una zucca illuminata…in quattro giorni il lavoro è finito. Trentun focacce, zuppe di whisky, si allineano sul davanzale della finestra e sugli scaffali. Per chi sono? Per gli amici…
Beh, c’è da sorridere nel sapere chi sono questi amici. Persone viste una volta o due e che hanno colpito la loro fantasia, tipo l’arrotino o un conducente dell’autobus. L’attività che dà fondo alle loro energie e alle loro misere casse si risolve in focacce per sconosciuti, nel segno di una stupefacente gratuità, così come stupefacente è l’energia spesa per trovare nel folto del bosco l’albero giusto da tagliare, anche se non hanno nulla per addobbarlo e per questo sono obbligati a passare giorni e giorni a disegnare, colorare e ritagliare carta per creare quelle decorazioni che non possono permettersi di acquistare all’emporio. E poi ci sono i doni per quelli che abitano nella casa e poi per loro stessi, da confezionare in gran segreto…hanno le idee chiare, ma non possono permettersi di donare quel che vorrebbero…”è già abbastanza brutto nella vita dover fare ameno di qualcosa che vogliamo noi, ma, accidenti, quello che fa più rabbia è non essere in grado di dare a qualcuno qualcosa che vogliamo dargli“…e però, pur sapendo che il dono sarà sempre lo stesso – un aquilone di carta – non riescono comunque a dormire, tanto sono eccitati.
Si è alzato il vento, e nulla più conta per noi finché non abbiamo raggiunto di corsa il prato sotto casa dove Queenie si è precipitata a seppellire il suo osso. Qui, affondando nell’erba che ci arriva alla vita, liberiamo i nostri aquiloni, li sentiamo dare strappi alla corda come pesci celesti mentre nuotano nel vento.
Truman Capote pare prendere le mosse da un assunto: il Natale è dei bambini, non per gli adulti, a meno che gli adulti non siano un poco toccati o infantili o, in generale, mossi più dall’immaginazione che dall’intelletto. Ed è per questo che la compagna e migliore amica del protagonista e voce narrante è una signora decisamente svalvolata, infantile. Ed è per questo che il Natale, per l’adulto, non potrà darsi che come ricordo-del-Natale e non più in modo diretto, così come avviene per i bambini. Solo attraverso il bambino che è dentro/fuori di noi, il Natale potrà assumere un autentico significato e prendere carne, tanto in senso simbolico, quanto psicologico, nonché (per chi ne coglie il senso) religioso…la natalità che caratterizza il Natale è propria del bambino, di colui che, a differenza dell’adulto, “sa” o “puzza” ancora di nascita, di colui che cronologicamente, spiritualmente e psicologicamente è prossimo alla nascita. Diversa è la condizione dell’adulto che già “sa di vecchio”, dell’adulto che il tempo ingobbisce impedendogli di cogliere le altezze del creato; dell’adulto che il tempo acceca, impedendogli di cogliere le sfumature e di leggere in filigrana al misero pezzo di carta l’aquilone che potrebbe volare in cielo; dell’adulto che è insicuro ed avaro, incapace di cogliere il vero significato dello scellino che può tramutarsi – grazie al macellaio – in un osso per un cane smagrito e felice fino all’organismo, perché anche lui coglie il senso del dono. Questo sa fare Capote che, però, è adulto e che può parlare solo “dal basso” della sua età, pensando il Natale attraverso il cono di luce rovesciato del ricordo, di un ricordo venato di risentimento: “È questo il nostro ultimo Natale insieme. La vita ci separa. Quelli-che-la-sanno-lunga decidono che il mio posto è in una scuola militare…ho una nuova casa, anche. Ma quello non conta. La mia casa è dove c’è la mia amica, e là non vado mai“.
Il Natale di Capote è lo sguardo innocente che coglie la realtà con una intuizione pura, senza mediazione alcuna; è lo sguardo privo di pregiudizi, l’umiltà di chi coglie ciò che è come ciò che è stato creato a partire da intenzioni sante in vista del bene presente e futuro. Questo è, indipendentemente dalla visione del mondo propria dell’adulto, la visione religiosa cui il bambino accede in modo immediato. Visione in cui il mondo si manifesta come creato indipendentemente dall’esistenza di un creatore intelligente, giusto, santo. Simone Weil, grande pensatrice del Novecento, nei suoi Quaderni scrive: “La gioia è il sentimento del reale“. E questo è precisamente il senso del Natale che ci consegna Truman Capote attraverso le splendide parole di una donna ignorante che non si era mai allontanata più di qualche miglio dalla sua casa e che non aveva mai letto nulla che non fosse un fumetto o un qualche estratto da quella Bibbia che non poteva mancare in nessuna casa che si rispettasse, in America, negli anni Cinquanta, in uno stato del Sud.
“Oh, Dio, che sciocca che sono!” esclama a un tratto la mia amica, allarmata…”Ho sempre pensato che una persona dev’essere malata o moribonda per poter vedere il Signore. E immaginavo che il suo arrivo sarebbe stato come guardare la finestra battista: bello come i vetri colorati quando li attraversa il sole…Ma scommetto che non succede mai. Scommetto che alla fine una persona si rende conto che il Signore si è già mostrato. Vedere le cose come sono…vederle come si sono sempre viste, era vedere Lui. Per quel che mi riguarda, potrei lasciare il mondo con oggi negli occhi”
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Un racconto meraviglioso.
Meraviglioso il modo in cui l’autore introduce immediatamente il lettore nell’intimità del ricordo. In un’esperienza di vita così profonda.
Concordo. Questo racconto, come del resto gli altri di Capire, è semplicemente perfetto.
Concordo. Questo racconto, come del resto gli altri di Capote, è semplicemente perfetto.
Sì. Hai ragione. I racconti di Capote sono un vero e proprio modello.
Di Capote lessi a Sangue Freddo, era un periodo che non mi trovava molto disposto alla lettura, non trovavo titoli che mi prendessero abbastanza, Ma Sangue Freddo ha rotto il malefico incantesimo. Ne ho un ricordo stupendo. I motivi, più di uno, tanti.
Vero. Quello è certamente il titolo più noto e “titolato” di Capote, che ha però scritto altre pagine di grande spessore narrativo. I racconti ne sono degno esempio. Da leggere, a mio parere.
Ci arriverò, ci arriverò 🙂 Le tue parole sono già nodo nel fazzoletto.
L’espressione “Nodo al fazzoletto” mi ha sempre divertito, fin da bambino. C’è stato un periodo in cui lo facevo davvero, e ne facevo molto. Un giorno mia madre mi fece saggiamente notare che non c’era bisogno di farne tanti. Da quel giorno ho smesso ed ho potuto finalmente avere la riprova di quanto mi dicevano tanto a casa quanto a scuola, e cioè che avevo una ottima memoria…non faccio più nodi, Ma ho un mucchio di foglietti sparsi per nulla intellegibili, a meno che non li si guardi come a dei nodi al fazzoletto…
Bellissimo! E che non conosco. Così ora, subito (quasi) sarà necessario, per il momento, rileggere l’Arpa d’erba, ricordo lontano. Perché poi si dimenticano libri e emozioni bellissime? Immagino perché si incartapecorisce. Grazie del suggerimento e complimenti per la recensione.
Grazie. I racconti di Capote raccolti ne La forma delle cose sono veramente notevoli. Da leggere e rileggere.