Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Ho visto un matrimonio pochi giorni fa…ma no! È meglio che vi racconti di un’altra festa. Era un bel matrimonio, mi piacque molto, ma l’altro avvenimento ancora di più. Guardavo il matrimonio e, non so come, mi ricordai dell’abete. Ecco cosa accadde. Alla vigilia di Capodanno, esattamente quasi cinque anni fa…
In classico stile dostoevskijano, anche una brevissima storia che si consuma nel periodo di Natale, assume i tratti della grande descrizione, dell’affresco. Abbiamo un estraneo, un osservatore sostanzialmente esterno rispetto alla vicenda, silenzioso ed emarginato, che si trova calato non si sa come – né perché – in una situazione apparentemente normale che presto svelerà tutto il suo carico di assurdità (da Dostoevskij spesso traslata in immoralità, vizio, ipocrisia). Poi, improvviso, un salto mortale (in questo caso di natura temporale) ed una altrettanto improvvisa ricomposizione del tutto che svela intenti prima solo accennati e dà senso a frasi smozzicate la cui vera natura emerge solo al temine della storia stessa.
In questo caso, con L’albero di Natale e il matrimonio, la vicenda prende le mosse da un matrimonio che si sta celebrando nel presente e che però rimanda fin da subito il narratore (di cui non sappiamo nulla) ad un ricordo che risale a cinque anni prima, ad una grande e lussuosa casa dove una ricca famiglia aveva dato una festa in onore dei bambini e per dar loro i regali di Natale. La festa, in realtà, serviva ai genitori come scusa per poter permettere loro di ritrovarsi e poter parlare e tirare su intrighi ed alleanze d’ogni genere. Una moltitudine di marmocchi giocava e correva intorno all’albero addobbato; tutti tranne una bella e ricchissima bambina che, dopo aver subito un torto da uno dei suoi compagni di giochi, aveva deciso di isolarsi in un salottino vuoto, dove muta e malinconica (da subito prefigurando un destino ostile) giocava con una bambola: “una bambina di circa undici anni, adorabile come un amorino, molto quieta, meditabonda, pallida, con grandi occhi pensosi…aveva già trecentomila rubli di dote“. L’ospite di riguardo è un certo Julian Mastakovič, un ricco ed intrigante personaggio adulato fino all’indecenza da tutti gli invitati, compresi i padroni di casa, “una autentica personalità“. I doni vengono distribuiti ai bambini con grande sapienza ed accortezza. I più costosi vanno a quelli più ricchi, i meno belli consegnati via via ai bambini appartenenti a famiglie meno facoltose. Fino a qui tutto potrebbe sembrare sopportabile, ma presto emerge un ulteriore elemento di disturbo, il figlio della governante dei bambini, parte della ciurma, cui tocca in sorte un brutto libro tutto scritte, senza figure, né illustrazioni. Il povero bambino, la cui estraneità e diversità rispetto agli altri è evidente, cerca in tutti i modi di poter stare con gli altri bambini, di poter giocare con loro e godere un poco della loro buona sorte. Eppure, questi bambini, abbandonata ogni innocenza, sembrano aver ben interiorizzato il loro status e i diritti che a questo credono connessi – compresa una certa idea di superiorità. Per conseguenza, per quanto il disgraziato ragazzino faccia per ingraziarseli, alla fine viene da questi prima sonoramente picchiato e poi scacciato via.
Così come sempre avviene in Dostoevskij, lì dove si annida la possibilità del senso, vi è un testimone pronto a coglierlo. Lo sconosciuto che narra la storia, stanco ed un po’ annoiato, s’era rifugiato nello stesso salottino dove si era rintanata la bella bambina che con sé portava la grande dote cui si è fatto cenno. E così la bambina ricchissima e il bambino povero andato lì a rifugiarsi per non subire, in aggiunta, le conseguenze dell’ira della madre, sono seduti insieme a giocare con una bambola. Julian Mastakovič, l’ospite di riguardo, entra nel salottino sputando numeri apparentemente senza senso: “Trecento…trecento…” mormorava, Undici…dodici…tredici…“, è tutto in orgasmo, in uno stato di vera e propria eccitazione, quasi di confusione. Poi, nel vedere la bambina le si avvicina: “mi amerai?” le chiede, ma la bambina, intimorita, si aggrappa, in cerca di aiuto e conforto, al nuovo amico, il povero figlio della governante…con furia Julian Mastakovič si scaglia contro il piccolo disgraziato per scacciarlo via e, a questo punto, l’osservatore e voce narrante si mostra, interrompendo la scena, quasi scattando un’istantanea su quanto spaventosi possano essere gli adulti agli occhi dei bambini e su quanto difficile sia, per l’adulto, riuscire a cogliere la realtà con quello stesso sguardo infantile. Lo sconosciuto esplode poi in una terribile risata, facendo schiantare la scena e il suo ricordo, per tornare al presente e al matrimonio cui sta assistendo.
Prima di passare alla scena una questione, giusto per farne cenno. Che fine ha fatto quel povero bambino di cui non si dice altro? Non ci viene detto nulla, quasi che non sia degna di nota la storia dell’uomo comune, anche se, forse, non ci viene narrata perché a lui (pur così svantaggiato) è forse toccata in sorte una vita migliore, forse più autentica. Mentre il narratore ci invita a tornare alla vita di quella bambina parte dell’aristocrazia, ricoperta d’oro, ma che allo stesso tempo, come un oggetto, era stata messa come un pacco sotto l’albero di Natale, trattata come materia di scambio dai genitori e, per conseguenza, come un oggetto considerata, presa e posseduta da Mastakovič, che è grasso della grassezza di chi ha troppo, così come agitato ed affaticato come tutti quelli che non sanno star fermi e la cui vita coincide con l’intrigo, il lavorio tutto teso ad accaparrare cose, riducendo gli uomini a delle cose, non avendo lui il tempo (e la capacità) di fermarsi per guardarli negli occhi: “…era un piccolo omiciattolo, rotondetto, pienotto, panciuto, tutto agghindato. Correva, si affaccendava, dava ordini“. Non sapremmo nulla di vero della giovane sposa, la cui dote si è moltiplicata negli anni, se non ci fosse lo sconosciuto convitato. Sapremmo solo del cocchio e delle ricche vesti, dello sfarzo del suo matrimonio. Solo grazie al testimone silenzioso ed invisibile, solo grazie allo scrittore/narratore, solo grazie a lui, che vive di un tempo diverso ed alternativo, possiamo guardarla negli occhi e farci attraversare dal negativo del Natale in cui si è consumato il destino di questa splendida creatura…
…e vidi una bellezza meravigliosa sul primo fiorire della primavera. Ma la bellezza era pallida e triste. Guardava distrattamente, mi sembrò perfino che i suoi occhi fossero rossi di lacrime recenti…
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Dostoevskij.
Immenso.
Sempre.
Grazie per il dono di questo magnifico, terribile racconto.
Scriverne è sempre un azzardo. Su di un racconto di poche pagine mi sento meno a disagio.
Purtroppo quella delle spose bambine e dei matrimoni forzati è una piaga ancora oggi diffusa in molti paesi del mondo. Con Africa e India in testa. Fenomeno contro cui si batte da anni l’Unicef, ma che appare difficile da debellare. Dostoevskij, a differenza dei suoi coevi e connazionali, aveva probabilmente una marcia in più (a livello di coscienza) per riuscire a parlarne. Mi unisco al ringraziamento di Valeria e ti abbraccio forte con l’augurio di un Sereno Natale.
Vero. Il problema è enorme e di una disarmante attualità. Grazie. Ricambio sinceramente. Buon Natale.
Bellissima recensione con cui sei andato molto al di là dell’evidenziare il fenomeno delle spose bambine perché hai saputo porlo con il giusto equilibrio nel più grande problema dello sfruttamento dei deboli.
Beh, grazie. Ribadisco: l’opera di Dostoevskij è così “potente” da indurre chi ne scrive ad allinearsi (anche se a livelli infinitamente più bassi) allo sguardo dell’autore…
Il bambino povero umiliato-scacciato e in più sgridato dalla madre, la bambina (contrapposta) condannata invece proprio dalla sua ricchezza.
E si dovrebbero temere di più i lupi?
È esattamente quello che D. mostra in modo tanto dirompente.
Fa male. Come spesso, quasi sempre, Dostoevskij, Un autore, molto amato, che, da tempo non leggo – temo proprio perché fa male. E oggi, troppo spesso, ci si sente stanchi e sfiduciati di fronte ai tanti aspetti del problema, alle sue mille sfaccettature. Una bella e importante recensione. Di che ringraziarti.
Già. Dostoevskij, con la sua scrittura, obbliga il lettore a misurarsi con il negativo del reale, ma sempre (penso) nella convinzione che solo attraverso il negativo si possa accedere alla pienezza dell’essere. Grazie a te.
Pingback: Natale #12 Guy de Maupassant, Notte di Natale | Tommaso Aramaico