Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Ho riletto quello che ho appena scritto (qui). Ma è anche per altri motivi che quelle pagine mi fanno tanto infuriare. Sono pretenziose. Senti qua: “forse in realtà scrivo solo per me stesso, e forse è proprio quello che fanno tutti coloro che son degni di scrivere“. Stronzate. Si scrive sempre per gli altri, mai per sé. La differenza sta solo nelle intenzioni con cui ci si rivolge ad altri e, per conseguenza, al testo: nella serietà e nel rigore che si mette nello scrivere. Il per sé dovrebbe risiedere solo nell’attività dello scrivere, che dovrebbe essere avvolta in una nube tanto spessa da cancellare colui che scrive. Chiunque scriva deve provare vergogna non per quello che scrive, ma per il fatto stesso di scrivere. Dovrebbe giungere ad un grado di umiltà tale da ridurre l’io ad un puntino capace di creare il mondo (opera) – un punto di incredibile densità e massa creativa che ha interesse solo a che si veda l’opera e mai lui stesso che, di fatto, esiste (come scrittore) solo nell’atto della scrittura e non dopo, come autore (che altro non è se non il residuo dello scrittore, la persona che rimane, ciò che malamente sopravvive al processo creativo, lo scarto che vuole farsi vedere a tutti i costi). Uno dei motivi per cui quella lettera mi fa tanto incazzare è che è intrisa di io, parla di io, è segnaletica di io, piagnucolio di io – e niente più…è io che parla di io con io. E, pertanto, assolutamente vuota e priva di interesse e consistenza – scritta per me stesso solo nel senso che non ha un cazzo da dire, ma è pietosamente rivolta agli altri, ma solo in funzione di un io piccino che piagnucola e fa i capricci e batte i piedi a terra perché in cerca di attenzioni. In linea con quanto detto, senti qua che merdosa retorica di ragazzino che vuole mettere in mostra un piumaggio che non ha: “Amico perduto, ho tanto sperato di ritrovarti, ma le forze vengono meno e l’oblio non alberga in questo cuore i cui battiti son minori degli amari sospiri che lo martoriano“. Ma che cazzo mi diceva il cervello? Di tentativi del genere di mettere in gioco l’altro, il doppio, ce ne sono una montagna, ma questo fa veramente pena da tutti i punti di vista. Mal pensato ed orchestrato peggio. Usare un “amico perduto” per fare un salto mortale e insinuare, sotto traccia, che l’amico altro non è, in realtà, se non colui che scrive: uno che sta vivendo un momento di crisi lancinante e che non sa dove sbattere la testa, la cui scissione è tale da non lasciargli di meglio da fare che scomodare un “dire alto” (ed altro), sprecare inchiostro e carta per tirarne fuori una sorta di insopportabile peto dello spirito. E c’è persino, qua e là, il tentativo di rovesciare il senso comune per mezzo di deduzioni, contro-deduzioni e sparate ad effetto che alla fine sono frasi scopiazzate, rimasticate appena e sputate sul foglio. Goditi questo scaracchio, amico perduto: “non un tramonto che sia sugellato dalla speranza che sia l’ultimo; non un’aurora salutata con disprezzo. Ma sono troppo vile e la vita, per quanto disgustosa, è l’ultimo rifugio“. E poi, bum, memore di qualche sconclusionata lettura: “mai fidarsi delle congetture dell’uomo che soffre“.
Senti qua: “Una torre si alza alta in cielo e la sua circonferenza si chiude intorno al mio corpo irrigidito, marmoreo. Una torre che, per quanto mi protegga, non lascia però alcuna via di fuga. Si slancia grigia ed uniforme, senza finestre e senza porte. Nulla può entrare, nulla uscire. Tutto nella più armonica immobilità. Ma, se l’armonia è equilibrio delle parti, non si avrà altro se non morta quiete. E allora quella torre, nata come fortezza, custodirà il nulla. Perché non cede e va in frantumi sotto il suo stesso fardello, sotto l’inutilità della sua stessa funzione?“. Lo ripeto, a quell’età pensavo solo a fottere e a bere e mangiare e, certe volte, a fare qualche piroetta, la notte, in qualche locale del centro. Ma quelle parole, scritte nel passato, valgono forse per il presente, per il gelo che mi ha sottratto al letto coniugale e al corpo di mia moglie per abbandonarmi, dopo estenuanti serate davanti ad una televisione sempre rimanere accesa, al mio adorato divano. Non scomoderei torri e balestre, pretenziosi rimandi a chiusure dell’io, vaghi richiami alle monadi o all’uso dell’idea di “fortezza” in alcuni ambiti delle scienze umane, però mi è sempre più complesso salire sui mezzi pubblici, sfiorare un ginocchio. Abbracciare mia moglie va oltre le mie forze. L’unico contatto col mondo esterno sta nella prossimità con i miei figli, che invadono il mio corpo, i miei occhi e le mie orecchie e persino il mio palato, quando si ficcano le dita nel naso e poi mi chiedono di assaggiare il loro moccio che sa di polvere e bruciato. Ed io assaggio di buon grado e ne sono lieto, perché solo la potenza della loro dipendenza infantile è ancora in grado di tenermi qui, ancorato al mondo, mentre tu (che in realtà non sei) e queste pagine (che non valgono un cazzo) siete il sintomo di un decentramento, dell’incapacità, per me, di farmene una ragione e di rassegnarmi, una volta e per tutte, all’idea che questo, e non un altro, è il vero mondo – io che lo ripeto ancora ed ancora…la vera vita è altrove…cazzate, mangio moccio e mi sento urlare nelle orecchie e picchiare con manine tenere ed implacabili sullo stomaco dilatato dal tempo, dalla sedentarietà, dall’alcool di cui ho abusato in passato. Solo così torno, anche se per poco, ad essere fatto di carne ed ossa. Attraverso i loro occhi mi penso alto e forte e bello e buono ed intelligente, così come dicono che io sia, così come mi ripete mia moglie, sempre più preoccupata, mentre io non riesco più a cogliere il giusto rapporto fra il mio corpo ed i vestiti che indosso.
L’ho detto e lo ribadisco. Ti ho utilizzato, a suo tempo, per potermi profondere in qualcosa che altro non era se non un esercizio di stile piuttosto grossolano. Ed è ciò che sto facendo in questo stesso momento, mentre mi incaponisco e cado nuovamente nel tranello del doppio, parlando di me mentre mi rivolgo a te, mentre uso te per un non meglio specificato me che (a livello esistenziale e topologico) si sarebbe staccato o perso, mentre faccio ricorso alla vecchia e logora tiritera sulla scissione dell’individuo, sul disorientamento dell’uomo contemporaneo e faccio faticosamente leva, per l’ennesima volta, sulla dicotomia autenticità/inautenticità. Se qui mi auto-denuncio, venti anni fa ero addirittura sfacciato in certe uscite, senti qua: “…la nostra estrema vicinanza è stata la causa della nostra lontananza. È in me ferma l’idea che, relegato fra quelle mura, ci sia anche tu – è il buio ad impedire la nostra conciliazione“. Di stronzata in stronzata, sempre sulla scorta di questa idea di un’anima ferita/separata-da-sé, si passa per momenti patetici: “il mio primo pensiero, al mattino, è rivolto a te, il secondo alla morte” e poi, secondo un dubbio che si fa iperbolico, arrivo a mettere in discussione l’esistenza del destinatario. Bisognerebbe fare un poco di ordine, non credi? Allora, nel momento in cui il mittente riconosce di non aver destinatario, perde, di fatto, il suo status di mittente e, per conseguenza, dovrebbe risolversi nel silenzio. A parte il fatto che per quella lunga lettera questo purtroppo non avviene, tuttavia offre (la lettera, in modo inconsapevole) una preziosa indicazione sulla struttura stesso dello scrivere e sul fatto che mai si scriva per sé, ma sempre per qualcuno. Allo stesso tempo suggerisce che se non si sa creare e pensare ad un destinatario (lettore), allora non si sarà mai dei veri mittenti (scrittori) – il lettore è garante, fondamento dello scrittore e, in qualche modo, gli occhi che leggono vengono prima delle parole da scrivere, perché sono causa finale, insieme al senso ed al compimento dell’opera, dell’opera stessa. E difatti, anche se in modo confuso ed ingenuo, in quelle pagine si fa strada l’idea che al posto dell’amico perduto, ormai sfumato nel non essere, debba esser posto l’altro in generale: “chiunque tu sia amami, ciò basterà, e anche se non sarai l’amico che io penso tu sia, non succederà nulla, perché il buio ti avvolgerà come un velo ed io potrò decorarlo come vorrò. Sarai gioia per i miei occhi“. Ad un barlume di senso segue, lo ammetto, una puttanata cosmica, ma insomma, un minimo di progresso c’è, se si concede il fatto che ciò che veramente manca non è questa pretesa anima che mi apparteneva e che, ad un certo punto, mi era caduta di tasca, come fosse stata un oggetto che potevo/dovevo poi cercare per strada. Superata questa stronzata viene finalmente fuori che tutto quello che c’è da perdere e da cercare sta, in realtà, nell’altro, così come viene fuori che ogni produzione dello spirito non sorge per una distanza di sé da sé, ma da una distanza di sé dall’altro: “questa lettera esiste perché tu sei lontano“. E la solitudine non è mai un oggetto in tasca all’io, ma la misura della distanza dell’io dall’altro, distanza che poi si fa tanto lancinante da farsi distanza di sé con se stessi, nel senso che da soli si “gira a vuoto“.
Insomma, dovrei criticare ancora e selvaggiamente lo Ian Testa di tanti anni fa? Si, così come dovrei farlo con l’Ian Testa di adesso, mentre perdo questo tempo in un esercizio che in modo coatto ripropone tutti gli errori di quello sforzo adolescenziale, nato dalla lettura di qualche romanzo e di qualche saggio di cui non avevo realmente compreso il senso, dall’ingenua pretesa letteraria che mi spingeva a giocare con l’idea del doppio, della scrittura come ricerca di sé e come mezzo per far pulizia. Ti sembrerà semplicistica, ma per me, adesso, tutta questa storia della scrittura altro non è se non un “atteggiamento” nei confronti del mondo; un modo di vivere, proprio come l’andare a lavoro, a fare compere o a passeggio. Non sarebbe male, fra venti anni e poi venti altri ancora, riprendere queste pagine e sputarci sopra come adesso sto facendo con quelle appena sputtanate. Di fronte ai cambiamenti qualcosa, però, rimarrebbe ancora identico. Una certa tendenza all’insoddisfazione, una certa mancanza di empatia, la sostanziale incapacità di comprendere il prossimo e di operare sintesi tanto a livello cognitivo, quanto emotivo. Qualcosa di isterico, una certa tendenza all’umor nero. Fatto salvo che tu non esisti, così come inesistente è Ian Testa, e fatta salva la vergogna che mi toglie il fiato in questo momento, sarebbe però interessante lasciare a te, che non esisti, una definizione di me, che non esisto a mia volta. Potrebbe esserci utile, in futuro, nel caso si possa nuovamente accedere – nella parola – ad una scintilla d’essere. Sto cercando una definizione, ma, come detto, trovo grandi difficoltà nel momento in cui sono chiamato ad operare sintesi.
Io, Ian Testa, sono aggrappato alla vita grazie ai miei figli; sono sospeso nel vuoto interiore in cui capita che sbocci un certo desiderio, a dire il vero astratto, per la morte; ti scrivo non perché so qualcosa, non perché devo dire o scoprire o denunciare una pretesa verità che possa migliorare il mondo (sciocchezze). Questo scrivere è un fantasticare sulle cose, niente più. È inventare un senso che non è mio e non è per me, qualcosa che metto a tua disposizione, anche se non esisti, anche se sei il frutto del mio lavoro. Questa lettera deve poterti portare all’esistenza, anche se è solo attraverso la tua esistenza/memoria che io posso finalmente esistere. Quindi: io che non vivo, dalla mia non esistenza, butto giù – non so come, paradossale – delle pagine che mi portano ad essere grazie a te, che finalmente e grazie alle mie pagine esisti, rendendo possibile me – altrimenti confinato nel nulla. La vita vera non è altrove, ma nella scrittura. Pare proprio un brutto circolo vizioso. Collocandosi al suo centro, però, alcune cose potrebbero apparire un poco più chiare.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Sinceramente sei riuscito a spiazzarmi. Questa audacia narrativa, che non capisco se sia da intendere come divertissement, come una sorta di esperimento letterario o come qualcosa che va ben oltre le apparenze, perché attinge (in ogni caso) da questioni di carattere strettamente personale, mi affascina tremendamente e nello stesso tempo mi lascia in sospeso, quasi a mezz’aria… Dovrò rileggermi Ian Testa dall’inizio, dalle puntate precedenti, per cercare di afferrare meglio ciò che ancora mi sfugge. Un mio limite, naturalmente. Leggerti è però sempre una bella immersione, stimola la curiosità e corrobora il cervello. Di certo hai uno stile che non passa inosservato.
Beh, grazie. In realtà è un po’ tutte le cose che scrivi. Diciamo così: sto ridefinendo i confini del blog e, inoltre, sto cercando di ridefinire i miei di confini, cercando di superare qualche limite, la reticenza a dire…per questo motivo molto di quello che era stato, come dire, “messo da parte “, adesso timidamente si sta affacciando al mondo…
Quello Ian Testa ha la sfortuna di non avere mai fatto… la donna delle pulizie. 🙂
Ci sarebbe qualche furterello (mai di gioielli, comunque) in più al mondo, ma…
Caro Tommaso, ti ho letto, ho perso il filo e poi l’ho ritrovato, l’ho riperso e credo, forse, ma non so se l’ho ritrovato, e non bastasse, ricevo ora una mail da un amico che allega un quadro della decadenza de “L’Impero Occidentale”… è la fine, mi arrendo, sono fatto!
Vero. Dovrebbe fare più spazio alle cose concrete – anche se temo che lui abbia una diversa idea di cosa sia concreto. Per il resto, Non potevi che perderti, il mittente è assai “confuso”. Poi, certo, se a cosa si somma cosa, allora tutto diventa tremendamente difficile…
Mi diverte questo (finezza dialettica):
«lui abbia una diversa idea di concreto» 🙂
“Chiunque scriva deve provare vergogna non per quello che scrive, ma per il fatto stesso di scrivere. Dovrebbe giungere ad un grado di umiltà tale da ridurre l’io ad un puntino…”
E anche una mia convinzione, perciò amo scrivere (non per me stessa!!) ma lo nego e non lo dico soprattutto a me stessa :-))
La tua disamina è interessante, perché contorta e lineare nel medesimo tempo: direi kafkiana.. ma anche no! 🙂
Già, contorta e lineare…bella descrizione. Grazie.
Uomo esagerato! Non tu, che scrivi, dico di quell’altro, che “valuta” quello che il primo scrive! (Non è che siete in tre?) Estrapolando pezzi da un ignoto contesto dove, probabilmente, il tutto ci stava senza conflitto alcuno con il pensare “solo a fottere e a bere e mangiare e, certe volte, a fare qualche piroetta, la notte, in qualche locale del centro” (era bello, sai! E anche molto. Anche se, visto dal femminile, molto meno ludico! Mancava almeno un termine della questione).
Ci sono davvero molte cose, qui dentro.
Vado a spizzichi – anch’io, naturalmente, prendo dagli altri quello che serve a me per parlare a me; e quell’altro/altra è insostituibile come luogo in cui porre parti nostre che poi si potranno utilizzare o disconfermare a piacere, ma che intanto hanno trovato un luogo e un senso d’essere.
“Si scrive sempre per gli altri, mai per sé”. Secondo me non è vero. Si scrive per sé, e l’altro ha unicamente una funzione di specchio; sai, può essere, in effetti, uno di quelli brutti della parrucchiera, una luce schiaffata in faccia che fa vedere tutti i difetti, ma solo a te, occhio impietoso, mentre la parrucchiera, l’altro, ti dice – vede com’è venuta bene?
Poi, certo che si scrive per gli altri, nel senso che senza gli altri non esistiamo, che abbiamo bisogno di un’immagine di noi che ci ritorni. Tale immagine, tuttavia, è per noi.
“Chiunque scriva deve provare vergogna non per quello che scrive, ma per il fatto stesso di scrivere.” Lo dici salvo negarlo proponendoti di creare il mondo (opera)
“Dovrebbe giungere ad un grado di umiltà tale da ridurre l’io ad un puntino capace di creare il mondo (opera) – un punto di incredibile densità e massa creativa che ha interesse solo a che si veda l’opera e mai lui stesso”. Mi ricorda qualcosa che ho scritto anni fa, di cui vedo ora l’enormità di un buco nero – una via per raggiungere interi nuovi universi.
Il centro del cerchio è un buon posto, se posso permettermi, che lascia alla periferia e al suo percorso veloce di lanciare via e consumare il superfluo.
Attendo nuove di Ian.
Grazie per il bel commento. Mi passi il termine “puntuale”? Carino il paragone della parrucchiera. Diverso il punto di partenza. Per me l’io non è un dato di fatto, ma la risultante di un rapporto. Ad ogni modo, grazie per gli spunti di lettera
Ecco, quello che si scrive anche per se stessi, non solo per gli altri, lo volevo dire anch’io all’inizio, ma poi mi sono trattenuta… Meglio così, perché tu sei riuscita ad esprimerlo benissimo.
L’aggiunta di quel “anche” cambia molte cose!
Pingback: Ringraziare – un romanzo | Tommaso Aramaico
Pingback: Delos Digital – Ringraziare | Tommaso Aramaico