Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Quanto tempo è passato? Una ventina d’anni, uno più uno meno. Non sono pochi, ma neppure poi così tanti. Mi ritrovo a scriverti, adesso che sono prossimo ai quaranta anni, con la stessa consapevolezza che mi aveva spinto a farlo quando di anni ne avevo una ventina. Adesso, come allora, mi rivolgo a te consapevole di essere qui a scrivere a me stesso, indotto a farlo a partire dall’incrollabile (ma non necessariamente vera) convinzione che si possa comprendere cosa si pensa e cosa stia veramente accadendo solo per mezzo della scrittura. Poiché nulla esiste se non le parole, nulla è concreto se non il linguaggio, mentre il resto è solo astrazione che si può toccare, contro cui si può andare a sbattere…ma nulla più.
Da un paio di mesi ho cambiato casa. Avevamo bisogno, io e la mia famiglia, di allargarci. Nell’infuriare dei pacchi e degli scatoloni che venivano presi e trasportati, dallo sgabuzzino è saltata fuori una vecchia scatola di scarpe chiusa col nastro adesivo. Avevo solo un vago ricordo di quello che conteneva. Dei piccoli oggetti conservati perché sono sempre stato superstizioso, qualche foto di me adolescente, un vecchio accendino che tu mi avevi regalato per il mio diciottesimo compleanno. Ma il primo pensiero è andato al fatto che in quella scatola ci fossero alcuni fogli che di getto avevo scritto dopo la fine della nostra sacra amicizia. Perché sacra effettivamente la consideravo anche se adesso sorrido di me stesso e della mia ingenuità. Insomma, ho riletto quelle pagine e sono rimasto scioccato per la stupidità di alcune cose che sono scritte, ma sono rimasto stupito anche per le cose ancora vere che lì posso trovare a proposito di me e della mia natura. Non ci sei più tu a fare da cornice a determinate debolezze e cedimenti, ma il contenuto, la tela, non è poi così diversa. Allo studente di allora s’è sostituito un uomo che lavora; al ragazzo, il padre e marito; a quella prosa romantica e ridicola, il presente tentativo di essere più misurato, pacato, conscio della vergogna che dovrebbe provare chiunque si prenda il lusso – come sto facendo adesso – di scrivere qualcosa che non sia la lista della spesa o una relazione di lavoro. Rimane però immutato il nocciolo. Sono io, ho pensato, rileggendo, a distanza di anni, questa sorta di lettera-confessione. È stata una fortuna il non averla persa o strappata e gettata nell’immondizia venti anni fa. E neppure lo farò oggi. Perché allora ti scrivo? Perché in qualche modo sto scrivendo anche allo Ian Testa che fra venti anni e poi fra altri venti e venti ancora potrà leggere questa e le prossime lettere potendo riconoscersi nel divenire delle cose. Il vecchio che un giorno sarò potrà dire: questo sono io, aggrappandosi pure al negativo che tutto riempie e sostiene, così come io, in parte, mi sono riempito più della tua assenza, che della presenza.
Quanta ingenuità in quello che ti scrivevo: “Non pensare che tu sia per me un semplice mezzo per scacciare questa solitudine, perché questo mi offenderebbe…“, come un bambinetto che deve andare all’asilo, ci sono parole e parole su questo adolescenziale senso di solitudine e tu, che in realtà mi avevi dato una testata in pieno volto dopo che mi ero sbattuto la tua ragazza, finivi per essere “partito” verso non si sa dove e nemmeno perché. Col cazzo che eri partito, abitavi alla via parallela alla mia, in via dei Glicini, ed ogni volta che ci incrociavamo mi guardavi in cagnesco ed io avevo paura che tu potessi aggredirmi ancora una volta e così, mentre ero sull’autobus, diretto all’università, affondavo il naso in uno dei classici che mi portavo dietro, nella speranza che fra le pagine di Tolstoj o Proust il mio naso fosse al sicuro, lontano dalla tua fronte lucente e pronta non solo nel pensiero, ma anche nella vendetta. In questo sono cambiato, sai? Sono un uomo fedele, un padre giusto ed amorevole. Certo, quando vado a lavoro non manca mai una collega che mi faccia le fusa o qualche proposta volta a maggiore intimità; e mai manca la sconosciuta di turno che, per strada, indugia un attimo di troppo nel prendere le misure del mio volto, delle mie mani o che, sui mezzi pubblici si incolla a me che in quei momenti mi sento come morire. Ma insomma, io mi faccio i fatti miei. Non voglio guai, né separazioni, né botte. La tua esplosione di violenza mi ha insegnato a tempo debito tutto quello che c’era da sapere su questo argomento.
Mi vergogno di un mucchio di passaggi di quella lettera che era qualcosa come un lungo conato di vomito, ma il momento più ridicolo è forse quello in cui inizio una lunga tiritera sulla pretesa “maschera” che avrei ai tempi costruito per difendermi dal mondo. Ti prego, lascia che mi esprima così come ci esprimevamo da ragazzi, con un poco di sana volgarità – può mai essere sana la volgarità? Non saprei, tuttavia. Che stronzata! Una delle sciocchezze più ricorrenti, tanto fra le persone, quanto nella letteratura, recente e non – scommetto che sei ancora quello che si spara un paio di romanzi a settimana, vero? – senti qua, cito: “…mi sono dovuto ingegnare per costruire una maschera adatta a tutte le situazioni: beh, ne è venuto fuori un contegno scostante, a tratti austero, costellato di slanci e ricadute, di false risate e di un’ironia che io stesso non sopporto“. Ma ti rendi conto quante stronzate e mistificazioni della realtà. Non so se ricordo male, ma se ripenso allo Ian Testa di venti anni fa nella mia mente sfila uno stronzetto che non pensava ad altro che a bere un mucchio di superalcolici e a farsi tutte le ragazze che gli capitavano a tiro, uno stronzetto che, manco a dirlo, ci riusciva pure (a farsele, intendo), il che ha portato, fra le altre cose, alla fine della nostra amicizia. Austero? Credo che ai tempi non fossi neppure in grado di usare correttamente questo termine, io che facevo finta di essere una sorta di letterato solo perché ero entrato, per caso, un paio di volte in libreria. Si parla di un non meglio precisato “attore che non ha imparato la parte e che balbetta qualche frase insensata“. E lo sai che fine aveva fatto il nostro girovagare strafatti per la merdosa periferia in cui vivevamo? Senti qua: era un “passeggiare sotto il cielo turchino e profondo“, mentre le nuvole “arrossivano al tramontar del sole” ed è solo per pietà di me stesso che non vado oltre. Però qualcosa di vero c’è, fra quella montagna di stronzate. La notte spesso ti sogno ancora. Meglio, nel sogno c’è qualcuno con le tue fattezze, ma so che non sei tu il problema, ma il mio effettivo stato di solitudine e tensione. Sogno di chiamarti e che tu non rispondi mai. So che tu sei lì, all’altro capo del telefono, e che però lasci il telefono squillare e so che nel sogno un grande senso di sconforto lievita nel mio stomaco, fino a farmi svegliare. So di essere effettivamente solo, di non avere amici, ma solo la mia famiglia. Non c’è nulla di patetico (credo e spero) in questa mia ammissione, ma solo la sobria rilevazione di alcuni fatti: non riesco praticamente più a guardare più le persone negli occhi, i colleghi di lavoro cercano il mio sguardo mentre io, sempre competente e capace di fare di più e meglio di chiunque altro, fuori dall’ambito di mia competenza perdo ogni coraggio ed abilità. In quegli stupidi fogli che ho scritto molti anni fa ricorrono tutta una serie di parole che usavo con troppa dimestichezza e poco tatto ma che, a questo punto, mi trovo a leggere nell’ottica di un presente penoso. Sta scritto di “solitudine“, “angoscia“, “fantasie“, ed io che fatico a ricollegarle a quello che sono stato, trovo che si addicano all’Ian Testa che sono effettivamente diventato, io che devo fare attenzione, per strada, perché corro il rischio di mettermi a frignare dal nulla, come una bimbetta, senza che ci sia un valido, urgente, concreto motivo. Io non so come sia la tua casa, ma la mia è piena di luci e mobili in legno caldi e costosi, ci sono grandi quadri alle pareti, molti libri e tutto il resto…ma la mia casa è comunque grigia e mi fa spesso paura tornarci alla sera, dopo aver lavorato tutto il giorno…e quando queste cose le accenno a mia moglie, lei si infuria, urlandomi contro che sono un ingrato. Ti ricordi quando ci divertivamo ad alterare il nostro equilibrio psicofisico per mezzo di sostanze liquide o sintetiche, e alle volte mi perdevo in momenti di chiusura assoluta? Adesso è diverso, ho smesso di bere e fumare, la sera vado a letto presto e mangio seguendo una dieta da manuale, eppure, sempre più spesso, il mio primogenito, uno splendido bambino di cinque anni, mi fissa senza che io me ne accorga e ad un tratto, svegliandomi bruscamente da un brutto sogno, mi chiede a cosa sto pensando, oppure “che c’è, papà?“. E cristo, non c’è niente…nel senso che quel niente c’è, è presente e sono io, e ciò che mi preoccupa sta nel fatto che fino a poco tempo fa questo niente che ero sempre e comunque in potenza non si realizzava mai in presenza dei miei figli, che sono stati, negli ultimi anni, l’unico argine a tutto questo, mentre adesso questa sorta di nulla sta allargando i suoi confini e persino tutta la pienezza d’essere che è sempre stata in loro, può poco contro il buco nero che sono diventato io…
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Interessante, uno Ian Testa che afferma e conferma, e forse, solo forse, non vorrebbe, la propria identità; che afferma sé, e la propria giovinezza, nel perdurare senza cambiamenti, se non di contesto, mentre i decenni trascorrono. Rassicurante, dopotutto, (ma vale per me, naturalmente).
Già. Rassicurato nel trovare qualcosa di stabile, ma desolato nel saggiare la scarsa qualità di ciò che si trova ad affermare.
Perché “scarsa qualità”? No, è (sarebbe per me) lo iato irrisolvibile tra ciò che di noi esprimiamo e ciò che sentiamo indicibile, inespresso. Bello, però, stiamo parlando di Ian. La cosa certa è che possiede una vita sua, indipendente dal suo autore. Qualunque cosa il suo autore ne pensi. Complimenti
Hai perfettamente colto lo spirito della mia (e cioè di Ian) proposta…con più fiducia, Fra qualche giorno, farò uscire la seconda parte…
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