Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
In un precedente post, nato dalla lettura del racconto La forma delle cose di Truman Capote, erano venute fuori tutta una serie di considerazioni sulla guerra, sulla serietà di questo fenomeno che devasta il mondo e che pare bruciare d’un fuoco che non si consuma – evento impossibile da sradicare. Ne veniva fuori il ritratto tragico, ma romantico della guerra e dell’uomo che, pure nell’atrocità degli eventi, manteneva la sua centralità. Diversa è la prospettiva in Terra di morte, racconto di Ballard dove l’uomo perde la propria centralità per lasciare il posto alla macchina, così come lo spirito e la psiche cedono la scena ai “materiali“. Ogni umanesimo sembra ormai alle spalle. L’uomo non è colui in cui albergano forze che, se lasciate senza briglie, possono infuriare e produrre distruzione sfociando nella guerra, bensì diviene esso stesso parte di qualcosa di più generale: la guerra – e, con questa, la tecnica. Il problema della tecnica, così come quello della guerra sono temi che tornano di continuo nell’opera di Ballard, cui dedica ampio spazio ne La mostra delle atrocità, ma anche (benché sotto un’altra prospettiva) ne Il condominio, ma anche in L’isola di cemento. E del resto Ballard non può che tornare incessantemente su questi temi data la sua stessa esperienza autobiografica, nato nel 1930, vissuto nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale, segnato dall’esperienza dei campi di internamento in Giappone. In Ballard la guerra pare cancellare l’uomo. Solo che qui non ci si riferisce a quello che perde la vita, ma all’uomo che non agisce nel conflitto, che è cancellato in quanto uomo perché agito dalla guerra. La guerra cancella l’uomo anche se, a tratti, sembra riemergere da questo magma indistinto; la guerra lo cancella perché presto viene nuovamente risucchiato…
Mentre l’ultimo fumo del relitto in fiamme si levava nell’aria umida dell’alba, il maggiore Pearson riuscì a vedere le acque argentee del fiume a trecento metri dalla sua posizione di comando sulla collina. Polverizzati dal fuoco dell’artiglieria, gli argini del canale erano collassati, trasformandosi in un intrico di crateri. Le acque filtravano nei prati, macchiate dal carburante uscito dai serbatoi del relitto…Gli elicotteri americani si erano già levati in volo dalle loro basi intorno alla città, rumoreggiando in tanti stormi sopra la vallata, come uccelli ottusi.
L’acqua si mischia al carburante, gli elicotteri volano in stormi e non in formazioni, alla Natura si sovrappone la potenza della Tecnica, all’uomo colui che esegue comandi. Al centro di Terra di morte c’è il maggiore Pearson, uomo ormai stanco e sfiduciato al comando di un reparto addetto alle operazioni di guerriglia e parte dell’Esercito di liberazione nazionale inglese impegnato contro le forze di occupazione americane – all’interno di un conflitto che durava ormai da trent’anni e che era divenuto un “Vietnam su scala mondiale“. Il maggiore e i suoi uomini sono in pausa dopo un agguato andato a buon fine che ha portato i suoi soldati a bloccare un veicolo con dentro militari americani. La pausa, però, è carica di tensione, perché il suo reparto è in attesa delle indicazioni che dovrebbero arrivare da un momento all’altro dal comando generale. Pearson teme che giunga l’ordine per un nuovo assalto contro un avamposto americano. Lo teme non per paura della morte, ma perché fa sempre più fatica a comprendere le ragioni del conflitto. Contro chi è che viene combattuta la guerra? Sembra che l’idea dei schieramenti opposti, in lotta per affermare diverse concezioni del mondo non abbia alcun ruolo in tale vicenda – al centro c’è la guerra, con le proprie ragioni, ragioni che non sono quelle del maggiore, né quelle dell’uomo in generale. La ragione della guerra è oltre l’uomo ed ha ragione dell’uomo.
Pearson si guardò intorno nella postazione fortificata […] e contò le facce tormentate degli uomini raccolti intorno alla stufa da campo. Vestiti con uniformi stracciate, tenute insieme da cinghie americane, costretti per vivere per mesi in buche scavate nel terreno, sottonutriti e con poche armi e munizioni, che cosa li faceva resistere? Non certo l’odio per gli americani, che non avevano mai visto, a parte da cadaveri.
E invece adesso gli americani li vedono vivi. Sono tre giovani soldati, legati e sistemati dietro una lapide. Questi prigionieri sono troppo avanzati, troppo convinti della loro superiorità e del loro diritto a dominare il mondo, e così nessun invito a collaborare, nessun interrogatorio avrebbe mai portato a nulla. E poi, in fondo, qui non ci sono, non esistono uomini, ma solo soldati. Tutto sottostà al dominio dei materiali, della tecnologia, delle regole della guerra. Ma a un certo punto un libro entra in scena. Con circospezione, per non tradire “l’indelebile traccia di interessi letterari nel suo carattere“, Pearson raccoglie il libro caduto di tasca dal giovane capitano americano e inizia un breve scambio di battute da cui viene fuori che l’americano non è un soldato, ma un architetto che lavora per la Commissione Sepolcri dell’Esercito degli Stati Uniti e che la sua missione aveva come obiettivo il recupero della lapide di Kennedy, posta proprio lì in suolo inglese molto tempo prima, in segno di alleanza tra i due popoli. Per un attimo gli uomini paiono emergere dal fondo indistinto della guerra, per un attimo la gabbia costruita dalla guerra, lo scheletro fatto di conflitto che governa la realtà pare risolversi in rugiada, fluidificarsi, liberare il singolo che può finalmente incontrare l’altro singolo, faccia a faccia, indipendentemente dalla contrapposizione degli eserciti e dei popoli – solo che la realtà, nella sua durezza, riprende il sopravvento: il comando ordina di riprendere la spedizione e, per definizione, i prigionieri non si portano in spedizione…
L’americano si alzò in piedi, gli occhi quasi chiusi. Raggiunse i due prigionieri sdraiati dietro il monumento funebre […] gli passò alle spalle e gli sparò alla testa. L’americano cadde addosso al soldato semplice americano […] come un contadino che tosi una pecora con fare esperto, sparò agli altri due, tenendoli fermi mentre si dibattevano. Restarono stesi ai piedi della lapide, le gambe che grondavano sangue.
La guerra è sopra tutto e tutti e non lascia tempo per problemi esistenziali, per la paura di morire, l’orrore di uccidere o cose del genere. In guerra si va a combattere e nella lotta è insita la possibilità della morte. È per questo che anche Pearson , esattamente come il giovane architetto americano, sa che è finita e va a morire senza farsi troppi problemi, accogliendo la pioggia di granate scagliate dagli americani.
Non esiste l’uomo, non esiste il dolore, non esistono conflitti esistenziali, ma solo distanze fra postazioni, fattezze degli argini, piani di attacco, disposizioni per la difesa, crateri creati dalle granate, relitti fumanti, trincee e poi divisioni per gradi: maggiore, tenente, sottotenente e così via…e certo, poi esiste il profilo inconfondibile della guerra, e cioè la morte, ma non la morte naturale, no, ma quella in cui si viene colpiti e si cade a terra, non più uomini di quanto lo si sia stati prima, riversi “nell’acqua macchiata di benzina“.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
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«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Non ho mai letto Ballard. Ora ci penso
È un grande scrittore. Certo, si deve apprezzare il genere – anche se Ballard spazia molto.
Ritrovo Ballard citato di frequente, a questo punto una sua lettura diventa esperienza pressante.
Nota: quel tuo “spazia molto” mi suggerisce un’indagine preliminare 🙂
Ballard non è fra i miei preferiti…e tuttavia…I testi che ho citato nel post (cui aggiungerei L’Impero del sole e Crash) sono una “ghiotta” occasione per godere di un po’ di buona letteratura. Fra le altre cose: Ballard ha scritto romanzi piuttosto contenuti (quanto a numero di pagine), quindi non richiede di essere un “lettore kamikaze”.
Non hai idea come apprezzo (mi hai fatto ridere!!!!) la tua postilla (lettore kamikaze).
Ti ringrazio per la segnalazione dei tue titoli, oltre a quello del post. Perchè, appunto, se è scrittore che come dici “spazia”, penso sia utile inquadrare il singolo titolo in una visione complessiva.
Risata di ritorno – quella dell’andata era la mia nel leggere il tuo post. Anche se io sono uno di quelli kamikaze. Non posso farci niente.
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