Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Un paio di settimane fa è venuta improvvisamente a mancare la madre di una mia collega di lavoro, Debbie (nome di fantasia, ovviamente). Debbie è una strepitosa professoressa di matematica e fisica e nel corso dell’anno appena trascorso io e lei abbiamo gettato le basi per una possibile amicizia, tipo seme lasciato cadere nella terra. Venuto a sapere del lutto inaspettato grazie ad un altro collega, sono entrato improvvisamente in crisi. Che fare? Dopo qualche ora di riflessione ho tirato su un messaggio che mi sembrava assolutamente perfetto, oltre che assolutamente sincero. Poche parole, tutte ben calibrate, pensate e meditate. Un messaggio di condoglianze ben fatto per chi, come me, non aveva ancora la necessaria confidenza per fare una chiamata in un momento così delicato, né la giusta distanza di sicurezza per poter far finta di nulla. La risposta è arrivata dopo pochi minuti. Debbie mi ringraziava per il messaggio di cordoglio, ma subito virava il discorso, con mio sommo stupore, su delle scuse (non richieste) per il fatto che non aveva risposto ad un messaggio che le avevo spedito qualche giorno prima per chiederle come procedessero gli esami di maturità. Così si scusava per un qualcosa di assolutamente non-essenziale, soprattutto in un momento così difficile per lei: le figlie usano spesso il suo cellulare e prima di lei leggono messaggi e cose del genere, così alcune cose inevitabilmente le sfuggono. Dopo qualche minuto di riflessione, alla ricerca di una risposta che potesse essere anche minimamente credibile, sconfitto, ho lasciato il cellulare sul tavolo. Sono ormai dieci giorni che ci penso, al fatto che non sono riuscito a risponderle. E cosa avrei dovuto scriverle, che la scusavo per quella disattenzione? E così, davanti ad un tale ostacolo (probabilmente una cosa del genere può essere un ostacolo solo per uno come me) la comunicazione si è interrotta, caduta nella voragine aperta fra noi dal problema della morte.
Non è la prima volta che il tema della morte si prende il suo spazio. Lo ha fatto a partire dal problema del suicidio o del darsi la morte (qui), si è poi insinuata attraverso una riflessione minima sulla condivisione del dolore (qui), ma anche a partire dall’ansia, come quella di Ian Testa, che paralizza al solo pensiero della sua necessità (qui). Sarebbe il momento di chiudere con questa “storia”, eppure il discorso è così tremendamente complesso che è inevitabile – soprattutto per chi proprio non riesce a farsene una ragione – ritornare sulla questione.
La storia di Debbie e del brutto silenzio che s’è venuto a creare, della comunicazione interrotta, mi ha riportato alla mente la morte di mio nonno. Sono passati più o meno venti anni, ma ricordo ancora il lungo viaggio in treno per andare al paese, così come ricordo perfettamente mia nonna che disperata, urlante, mi viene incontro, dicendomi, testuali parole: “il padre di tutti voi è morto”. Ed era vero, il padre di tutti noi era effettivamente morto. Operaio, padre di quattro figli, lavoratore instancabile, vecchio siciliano che non aveva bisogno di parlare per dire tutto quello che aveva da dire ed insegnare. Non credevo potesse morire, nemmeno dopo la visita che non avevo potuto fare a meno di fare solo due settimane prima, quando la sua voce faticava ad attraversare lo spazio minimo che ci divideva – lui steso sul letto, io seduto su di una vecchia sedia lì davanti. Non aveva mai fatto cenno alla morte, prima di quella occasione, in cui mi chiedeva, al suo funerale, di fare attenzione a mia madre, a mia zia, a mia nonna. Affidava a me, ed era incredibilmente serio, la moglie e le figlie. Ho detto qualcosa di stupido, del tipo che non doveva parlare a quel modo. Aveva ripreso fiato e poi mi aveva detto, sempre serio, che dovevo mettere una cravatta nera, al suo funerale. La malattia si stava prendendo tutto, pezzo dopo pezzo, ma una cosa era rimasta – la sua capacità di sorridere, i baffi bianchi pieni di senso che si allungavano. Non c’era da aver timore, era tutto nella natura delle cose – così la pensava lui. Rispetto alla sua figura la mia persona non era, però, quella di un ventenne nel pieno della sua furia critica, ma rimaneva ingenuamente legata a quella del bambino che con lui passeggiava sul lungomare, si lasciava comprare un cartoccio di lumache, la brioche col gelato. Le mani di mio nonno erano sempre state più grandi di quelle di mio padre. Con la sua morte la morte era, nella mia visione delle cose, per la prima volta entrata nella storia della mia famiglia, aveva attaccato ed intaccato le fondamenta – e di lì, uno dopo l’altro, avrebbe travolto, nel tempo, tutti gli altri.
In quella stessa occasione ebbi modo di osservare per la prima volta come il dolore per il lutto potesse prendere forme molto diverse, fatte di pianto, parole a non finire e di una porta di casa aperta a chiunque, e quando dico chiunque dico veramente chiunque…tanto che a cose fatte mia nonna s’era lamentata per la scomparsa di qualche oggetto a lei caro. Da un lato, dicevo, c’era la morte aperta a tutti, il corpo esposto alla vista di parenti, conoscenti e passanti, inquilini dello stabile, dall’altro la schiera dei nipoti (me compreso), che non riuscivano a tollerare tanto chiasso e così tante chiacchiere e che volevano che la questione si chiudesse il prima possibile. E sia chiaro, quell’evento è stato un vero e proprio trauma. Cinque anni fa è venuta a mancare una delle sorelle di mio nonno. Il caso ha voluto che accadesse in estate, periodo in cui non posso resistere dal ritornare al paese dei miei nonni. Beh, quelle stesse persone che durante il funerale di mio nonno s’erano quasi strappate i capelli, adesso parlavano a bassa voce e si limitavano ad una fugace comparsa, la porta di casa era chiusa, ridotto ai parenti più stretti il giro delle visite, il corpo senza vita della donna quasi nascosto, di impiccio, di troppo, come quando non si sa cosa fare delle proprie mani se non si hanno tasche e non si deve pregare e non c’è nulla da maneggiare. Ero rimasto di stucco, nel vedere una così evidente differenza tra i due lutti, dove a parità di carico di dolore (non per me, ma di certo per altri), ricordi, sentimento, si assisteva ad una discrepanza così eccezionale nell’espressione e nella manifestazione del lutto-dolore.
La morte, il pensiero della morte, la concezione della morte, la visione della morte non è sempre stata la medesima. Quello della morte è un evento fuori dal tempo, ognuno ha la propria fine, identica alle altre negli esiti, unica ed irriducibile nella sua valenza morale ed esistenziale. Eppure, pur essendo sottratta al tempo, la morte ha una sua storia e questa storia può essere raccontata. Quello che è successo con Debbie mi ha fatto venire in mente prima la morte di mio nonno e poi, a distanza di diversi anni, la morte della sorella. Il differente atteggiamento con cui le persone coinvolte, gli stessi attori, hanno reagito, mi ha spinto a riprendere in mano un libro che ho letto un paio di anni fa, Storia della morte in Occidente di Philippe Ariès. Attraverso una grande quantità di fonti e riferimenti storici, lo studioso francese mostra in modo convincente come il nostro, contemporaneo, atteggiamento di fronte alla morte è un tratto profondamente contemporaneo e che nel passato gli uomini avevano con la morte un rapporto più sereno e naturale, meno pregno di angoscia, dolore, volontà di nascondere, negare, cancellare. Risalendo la linea del tempo, attraversando i secoli, si vede come solo nelle società industriali e del benessere, improntate alla ricerca e all’ostentazione della felicità a tutti i costi, la morte diventa un tabù, oggetto di interdizione. Il lutto viene ritenuto qualcosa da eliminare o, al più, da ridurre all’osso, così come il dolore qualcosa da nascondere, pena l’accusa di sfacciataggine, di essere morbosi, di importunare gli altri con un dolore di cui questi non vogliono farsi carico direttamente, faccia a faccia (per questo, forse, la condivisione virtuale del proprio dolore diventa tanto necessaria, perché è sempre più pressante il divieto di farlo fra persone in carne ed ossa). Nei secoli passati non era considerata come qualcosa da eliminare dall’ordine dei discorsi, ma era parte integrante della vita. Se si risale nel tempo si vede come la morte, pur essendo fonte di inquietudine per la sua natura misteriosa, era qualcosa di accettato come termine ultimo naturale. Gli uomini sapevano di dover morire, così come “sentivano” il sopraggiungere stesso della fine. Alla luce della fede, la morte era riassorbita all’interno di una realtà più ampia. Il morente aspettava la fine pienamente consapevole, disposto ad abbandonare la vita, così come tutte le cose che amava. Lasciare senza “fare troppe storie” la vita era, anzi, parte di un rituale che predisponeva ad abbracciare la vita eterna. Il morente era contornato di molte figure – amici, parenti, bambini – in una cerimonia pubblica che presiedeva seguendo un protocollo condiviso. Dopo saluti, raccomandazioni e assoluzioni varie, il morente si riservava un momento in privato per meglio prepararsi a donare l’anima a Dio. La familiarità con la morte era l’accettazione della morte stessa. Solo lentamente, fra l’anno Mille e il XIII secolo, in modo progressivo, la morte iniziava a diventare un problema. Più che un evento naturale che dà compimento al destino di ognuno, la morte diviene il simbolo del fallimento dei progetti dell’uomo, il luogo della presa di coscienza del limite. Il destino di tale idea è però in movimento, e verso il XVIII secolo, romanticamente, la morte diventa qualcosa di interessante, di affascinante. Solo di recente, dalla seconda metà del Novecento, la morte diviene oggetto di divieto e di vergogna. Il morente deve, se possibile, essere tenuto all’oscuro sulla fine che si avvicina, così come i parenti più prossimi non tollerano l’idea di dover dire-la-verità sulle reali condizioni del malato, sulla morte certa. La morte dell’altro non è più tollerata. A livello privato, famigliare, oltre che sociale la presenza della morte diviene intollerabile, esplosivo un dolore cui non si è più abituati, per cui non si hanno “istruzioni” per meglio fronteggiarlo, tanta è la rimozione, la vergogna per il lutto, ma anche e soprattutto per il fatto che vi sia un malato, un sofferente destinato a morire…è indecoroso in una società dove la vita è realizzazione della piena felicità qui ed ora.
Cosa accade, dunque? Viene da pensare alle tragedie che nascono dall’assenza di piani regolatori o da dissennati progetti, quando si va a costruire lì dove non si dovrebbe, dove si toglie spazio ai corsi d’acqua o si gettano fondamenta su terreni non adatti ad ospitare palazzi, condomini, villette…lì dove l’uomo nasconde e rinnega una natura che, puntualmente, chiederà di pagare il prezzo – sempre alto – per lo scempio che nasce da ogni progetto dissennato. Lo stesso, in qualche modo, avviene con la negazione della morte nella società contemporanea, il tentativo di ridurla ad incidente, ad errore, a qualcosa di cui vergognarsi, da nascondere. La morte come meritato castigo per uno stile di vita sbagliato o come qualcosa che sopraggiunge solo perché non si seguono i consigli del medico, non si fanno i controlli, quasi che con i dovuti accorgimenti e seguendo le buone raccomandazioni che arrivano da tutte le parti, si possa scongiurare il pericolo della morte. Questi tentativi tradiscono un’idea di fondo: l’uomo contemporaneo si pensa immortale. La verità è un’altra: non si muore perché ci si ammala, ci si ammala perché si deve morire. E così, in un tale clima di negazione, subito sotto la soglia dei discorsi e del pensiero, la morte, di per sé fonte di angoscia, diviene qualcosa di mostruoso e soffocante, capace di dividere, di far maturare odio e risentimento contro quei cari che si ammalano; qualcosa che impedisce di dire il nostro e il loro dolore e che condanna ad una silenziosa e rancorosa solitudine. Eppure la storia dell’uomo testimonia un diverso atteggiamento rispetto alla morte (la propria e quella altrui).
Questo atteggiamento non può essere riproposto nella sua totalità (le condizioni storiche sono troppo diverse), ma certamente può servire da promemoria e modello di riferimento. Innanzitutto ricordando all’uomo il suo posto nel mondo, la natura del limite, il fatto che la vita è vita non a dispetto e nonostante il suo limite, ma in quanto ha ed è limite – altrimenti sarebbe altro. Questa prima consapevolezza, nella sua ovvietà, potrebbe aprire alla possibilità di recuperare un nuovo/antico rapporto con la vita/morte e non cadere in errore, non cedere alla tentazione di negare, portare il discorso su altro, far finta che non sia accaduto nulla o ridurre a poche parole di rito qualcosa che (la morte) si dà esattamente come rottura di ogni ritualità. Cercare di non perdere di vista il cuore della questione e delle persone e schivarsi e rimanere soli, isolati, perdere l’occasione di essere vicini…la morte deve avere il proprio spazio nella vita di ognuno di noi, un piccolo campo di tensione, una zona d’ombra necessaria che abbia la possibilità di inquietare. Questo è forse l’unico modo per scongiurare l’eventualità che lo spettro della morte, non trovando il giusto spazio, inizi a tormentarci per mezzo dell’ansia e dell’angoscia che separa ed ammutolisce ed allontana le persone, proprio come ha fatto con me e con Debbie qualche giorno fa. Ho deciso che non le scriverò. Ho deciso che lascerò passare tutta l’estate e che a settembre, al primo Collegio docenti, mi avvicinerò e le chiederò scusa per quel messaggio così violentemente rispettoso dell’etichetta e poi le farò le condoglianze senza sottrarmi allo sguardo. Spero che non si arrabbi troppo, per questa cosa.
Tutta questa storia, a dirla tutta, è venuta fuori perché come spesso accade quando sento di aver profondamente sbagliato o di aver agito male nei confronti di qualcuno, mio nonno si ripresenta con tutta la sua capacità di stare autenticamente in silenzio e che autenticamente gli permetteva di parlare, un silenzioso-parlare che io non ho ancora imparato e che, ormai sono certo, non imparerò mai…la mia incapacità di oggi è quella stessa incapacità che, venti anni fa, mi faceva precipitare ad una cabina telefonica (non avevo ancora il cellulare e non volevo usare il telefono di casa di mia nonna) per chiamare a rotazione i miei amici e ripetere ossessivamente che mio nonno era morto e che mia madre era distrutta dal dolore e mia nonna era come impazzita e loro – all’inizio, giuro, non mi rendevo conto di cosa stessi facendo – erano profondamente sorpresi per quel mio modo di fare, per tutte quelle chiacchiere – poi uno di loro mi aveva chiesto se stavo bene e allora ho realizzato che no, che non stavo bene per niente. No, non stavo bene, ma all’amico dall’altra parte del telefono non l’ho detto, e da allora mio nonno ha iniziato a tornare, ciclicamente, nel tentativo di farmi capire che nulla di male era accaduto, e che non era un male nemmeno se, non accettando io la sua scomparsa, al funerale avevo dimenticato, contravvenendo alla sua volontà, di indossare una cravatta nera…
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
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Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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La morte è uno dei grandi tabù irrisolti del nostro tempo,come tu dici; qualcosa che ci ricorda che non siamo onnipotenti ed eterni come amiamo credere. Qual’è la soluzione, allora? Minimizzare. Eclissare. Ridurla ad un equivoco, ad un contrattempo del quotidiano, qualcosa che non può né deve distoglierci dai nostri costumi- e dai nostri consumi , come se una vita perduta fosse l’equivalente- anche in termini emotivi- di quella perduta ai videogiochi (che pure contribuiscono non poco a creare questo terribile equivoco). A proposito di Storia, se ne hai memoria come me, pensa per quanto tempo al telegiornale si è parlato di Ustica, o della strage dell’Italicus,di piazza Fontana, e, perché no, anche delle stesse torri gemelle. E confronta il tempo e lo spazio dedicato alle vittime di Nizza, o agli italiani morti in Bangla Desh. La morte è una cosa seria, e noi seri non siamo più: le stragi terroristiche sono, nelle nostre coscienze, di importanza uguale o inferiore alla necessità solenne di trovare i Pokemon. Quando Epicuro diceva che nulla è per noi la morte, non credo intendesse esattamente questo. Ma tanto, minimizzarla o negarla non la rende(rà) meno definitiva, né meno terribile.
Grazie per il bel commento, ed è paradossale che mentre leggo i tuoi riferimenti a Nizza e ti rispondo sono davanti alla televisione per seguire le notizie sull’attacco a Monaco…e le parole, le supposizioni si sprecano, si fa la conta dei morti, anche se nella conta non possono entrare i possibili futuri delle vite spezzate, cosi come il riverbero della morte che travolgerà le famiglie coinvolte, quelli che sopravvivono ai morti…la morte è una cosa semplice, eppure terribilmente seria…e tu l’hai ben espresso nel tuo commento. Grazie.
Sì, il paradosso tragico lo avevo notato anch’io. Verrà la morte e sembra avere, sempre di più, i nostri occhi (di vittime, astanti terrorizzati, spettatori televisivi).
Quanto a Debbie, per scendere più nel concreto, io non le chiederei scusa (specie al Collegio del 1 Settembre….O-o) né tantomeno riaprirei la questione (il suo dolore è privato, e voi forse non ancora sufficientemente vicini per condividerlo), però le farei sentire la mia vicinanza e il piacere di lavorare con lei, magari, perché no, anche con qualche progetto interdisciplinare….(o variazioni sul tema).Nel bene o nel male, ti ha fatto capire che vuole superare, andare oltre; giusto o sbagliato, chi può giudicarla? E’ di futuro che ha bisogno, Debbie, non di riaprire le ferite. Stalle vicino in questo, se vuoi e puoi – e puoi star certo che te ne sarà grata. E, già che ci sei, perdona la forse (certamente) eccessiva libertà di questo commento.
Nulla da perdonare. Grazie per le tue parole.
Hai detto grandi verità, su questo differente modo di considerare la morte a secondo delle varie epoche. Sul nostro modo poi, nostro di questo nostro tempo, devo dire che la tua analisi è scrupolosamente obiettiva e più che esauriente. Mi ci sono ritrovato e ho ritrovato amici e conoscenti e discorsi e comportamenti.
Quanto poi al tuo caso, nel senso del punto di partenza del tuo post, e cioè Debbie – non so se sia giusto da parte mia entrare in merito. A parte l’abusata parola privacy, ma proprio perchè ciascuno di noi ha una sua elaborazione personale.Però ti butto là: e perchè a Debbie non telefoni, tout court? A viva voce? Non devi scusarti di niente, è una persona che conosci (mettiamola così) e non è giusto, scusa, che tu le chieda come sta? Cosa puoi fare per lei, ecc.? Non può che gradire.
Tuo nonno era un’altra persona, di un altro tempo e geografia, allora i figli davano del Voi al proprio padre e le ragazze si sposavano a diciotto anni e a venticinque se non erano sposate erano condannate zitelle irrecuperabili!
La testa a volte è cattiva consigliera, va dove ti porta il cuore (che sarà un romanzo discutibile ma il titolo – che i maligni davano per ripreso – è vero e bello 🙂
Grazie. Dura la questione, complessa sul piano teorico, labirintica su quello esistenziale. Ho timore che rimarrò nuovamente imbrigliato nella questione. Per quanto concerne la collega, ammetto di trovarmi in una situazione di stallo. Quello che suggerisci ha un senso, lo ammetto, ma non sempre si persegue quello che ha un senso…e non sempre (questa passamela) si ha cuore (in senso etimologico) per seguire il cuore…
Chiarissimo, e te lo dico con simpatia
Condivido pienamente le considerazioni espresse da Guido Sperandio. Mi astengo solo dal consigliarti cosa fare con Debbie.
Me ne astengo perché non è detto che Debbie abbia sofferto per la morte della madre e che invece non l’abbia a tal punto vista nell’orine naturale delle cose (così come i padri dei nostri padri) che le è parso naturale deviare il discorso sulla vita presente, su quel brandello, grande o piccolo, di vita che ci resta da vivere con gioia e con serenità. Forse i vivi, nella quotidianità, sono importanti quanto i morti nell’intimità del proprio cuore.
Grazie per la suggestione. Effettivamente si, Debbie potrebbe aver effettivamente accettato l’evento con grande forza d’animo, cogliendone, come dire, la “dolorosa necessità”…
Senza esprimere giudizi sulla tua amica, che sarebbero del tutto inappropriati dal momento che è impossibile immaginarsi cosa stia vivendo a livello interiore (se è per questo capita spesso di interpretare in modo sbagliato anche l’umore di chi ci vive accanto, presi come siamo dalla presunzione di conoscere meglio gli altri di noi stessi), devo dirti che questo tuo sfogo personale, arricchito con tante e tali riflessioni scaturite dall’interessante saggio che hai letto, mi è piaciuto moltissimo. Anzi, credo che il libro che hai citato me lo procurerò, mi sono già segnata il titolo e l’autore. Nella seguente frase che hai riportato forse (ripeto forse) è possibile intravedere una spiegazione psicologica del problema e una sua parziale risoluzione: “ la morte deve avere il proprio spazio nella vita di ognuno di noi, un piccolo campo di tensione, una zona d’ombra necessaria che abbia la possibilità di inquietare. Questo è forse l’unico modo per scongiurare l’eventualità che lo spettro della morte, non trovando il giusto spazio, inizi a tormentarci per mezzo dell’ansia e dell’angoscia che separa ed ammutolisce ed allontana le persone “. Ma il discorso sulla morte è da sempre così delicato e complesso, fonte di infinite speculazioni che non trovano mai una risoluzione certa, che all’uomo non resta che perlustrarlo con grande circospezione, magari procedendo sulle punte dei piedi.
Grazie. Si, hai perfettamente individuato il fulcro del post. Il tentativo di trovare una via possibile per rendere meno angosciante il pensiero della morte. Chiaramente non è il tentativo di offrire una formula valida per più di una persona (cioè io), ma la condivisione di un pensiero ricorrente, fastidioso come una zanzara nel migliore dei casi, asfissiante e penoso come ritrovarsi bloccati in ascensore nei giorni più cupi. Di Debbie non parlo – come è giusto che sia, mentre il libro è decisamente interessante.
Non sappiamo come affrontare la morte, non la nostra né quella dei nostri cari. È stata esiliata dalla nostra vita e dai nostri pensieri, per i motivi che tu spieghi benissimo nel tuo articolo. Ci servirebbero delle nuove istruzioni per l’uso, soprattutto per chi, come i bambini, vive la morte come un errore e un’ingiustizia e non come parte del ciclo della natura. Siamo impreparati a tutto il dolore che, comunque, essa porta con sé. Immaturi, innocenti e impreparati.
Questione irrisolvibile. Non solo sul piano del pensiero, ma anche del sentimento. Un grande filosofo, come Spinoza, diceva che il saggio medita sulla vita e non sulla morte (che accetta con contegno). Difficile essere saggi, però. Grazie per il commento.
Forse la tua amica semplicemente non voleva parlare del lutto e deviare il discorso è uno dei modi per chiedere dell’altro. Non è un allontanarsi ma chiedere di continuare a vivere.
Scrivile e parlale di una giornata tua, di qualcosa con lei possa confrontarsi.
Per la morte il dato nuovo è che essa come molto d’altro sta diventando un fatto individuale quando prima era collettivo. Si è spenta anche l’ultima eco in occidente (fortunatamente) della bella morte e ciò che rimane sembra un fatto che si restringe ad una cerchia esigua, che rompe continuità e possibilità che riguardano davvero pochi. Per alcuni miti contemporanei del cinema e della musica, la morte è divenuta invece fatto collettivo, ha raccolto molte solitudini e le ha rappresentate consentendo l’identificazione in un modo d’essere.
Forse anche il rimuoverla è sintomo di una relazione sociale assoluta che può trasformarsi ma non cessa di interrogare.
Concordo con l’idea della morte come fenomeno che si è fatto individuale, da collettivo che era. Difficile risalire con certezza alle cause, difficilissimo prevederne le conseguenze a lungo termine. Grazie per il bel commento.
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