Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Il vecchio si fermò e stette in ascolto. “Senti?” disse.
“Cosa?” domandò il piccolo.
“Un rumore così, bum, bum, tapun.”
“Si che sento” disse il piccolo. “Bum, bum, bum.”
“È la guerra” disse il vecchio, camminò per l’aia verso il pozzo, cantando forte tapun, tapun, tapun.
Il piccolo bambino raccolse da terra una canna, e si mise a giocare alla guerra.
Siamo molto lontani dallo stile del Berto de Il male oscuro (qui) o La gloria (qui) in questa opera prima che è un lungo racconto risalente al 1944, periodo in cui l’autore era recluso nel campo per prigionieri italiani di Hereford in Texas. Le opere di Dio si contraddistingue, però, non solo all’interno della produzione di Berto (facendo un tutt’uno con Il cielo è rosso), ma anche perché in parte prefigura un certo neorealismo italiano e, al tempo stesso, si riallaccia alla prosa di Hemingway tanto in voga presso gli scrittori italiani negli anni Quaranta. Le opere di Dio offre una lucida metafora degli orrori della guerra, della sua natura oscura, dei suoi fini ignoti, del velo che fa calare sulla volontà di un Dio che, se non viene messo in discussione nella Sua stessa esistenza, si trasforma Esso stesso, all’interno di una contraddizione vertiginosa, nel simbolo del non senso.
Ne Le opere di Dio è concentrato un dramma che si svolge in una sola, lunga scena – dalla fine d’una giornata passata nei campi, fino all’alba del giorno dopo, passando per una notte che non concedeva il meritato riposo, ma l’amaro destino di chi deve fuggire dalla guerra. È la vicenda tragica della famiglia del vecchio Filippo Mangano, un contadino che sta invecchiando male, reduce della Prima guerra mondiale che lo aveva profondamente segnato, che fatica a comunicare con la moglie, a farsi rispettare dai figli che non comprende più, che ama bere e che trova il suo unico conforto nello stare nei campi col suo adorato nipote che ne porta il nome. D’un tratto un militare si fa sulla porta della loro casa e comunica ai Mangano che il fronte si sta avvicinando e che devono lasciare tutto al più presto e scappare. Gli americani stanno sfondando, la linea del fronte si sposta velocemente, le truppe tedesche ed italiane sono in seria difficoltà. In linea con una letteratura che mostra e non spiega, non vengono date al lettore troppe coordinate per orientarsi – e in questo, del resto, sta un certo tentativo di svincolare la vicenda dal fatto puntuale, singolo, per renderlo una denuncia della guerra in quanto guerra. Sappiamo solo che le famiglie del luogo pensano di spostarsi a nord, verso le montagne, passando per Castelmonte. Ma questa nuova guerra porta una realtà diversa, una realtà che separa e mette in contrapposizione la visione del mondo dei vecchi rispetto a quella dei più giovani, mostrando così come la saggezza di cui il vecchio Mangano è depositario sia del tutto sorpassata ed inutilizzabile per una profonda conoscenza degli eventi.
Non era uomo da preoccuparsi di simili cose. Aveva già fatto un’altra guerra. E aveva lavorato la terra, per molti anni. Sapeva che i fatti degli uomini poco influiscono sui fatti della natura. Malgrado le guerre, sempre l’estate seguiva all’inverno e l’inverno all’estate e sulla terra maturavano i frutti. Perciò egli stava immobile, disteso sull’erba col cappello sulla faccia, e il bambino guardava tranquillo il campo e il tetto e gli alberi e i monti, e il giorno passava come tutti gli altri. Solo un po’ più lentamente, pareva.
Ma questa saggezza è, come detto, antica. La tranquillità della vita nei campi, scandita dal tempo circolare della natura, dall’alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte, della semina e della raccolta, dal ciclo vita/morte e dal susseguirsi delle generazioni così ben rappresentata dal vecchio Filippo Mangano e dal nipote, Filippo Mangano il giovane…ecco, tutto questo viene spazzato via da una nuova forma di guerra, specchio di un nuovo spirito del tempo. Nuova realtà cui il vecchio Mangano, costretto ad abbandonare tutto, non sa rassegnarsi: “Questa è la nostra casa” e ancora, “La nostra casa è qui“.
Mangano beve, impotente, si ubriaca, mentre tutto, intorno a lui, è turbinio e caos: il giovane figlio Nino, poco più che quattordicenne, prende in mano le redini della casa, e poi ci sono le donne, che (come sempre) sono un misto di coraggio, capacità di adattamento e intelligenza. Le donne dividono e sono per lo strappo, per la fuga pur di preservare la vita e le nuove generazioni, mentre Mangano è la fedeltà alla casa e alla terra che, però, deve piegarsi a ragioni superiori – è il vecchio la cui parola non conta più, è il vecchio che può chieder per sé solo di portare un fiasco di vino e il giovane maiale da cui non vuole separarsi.
Lì dove la storia andava lenta nei suoi svolgimenti senza tempo, nei suoi eterni ritorni che non causavano angoscia, proprio lì la guerra portava accelerazioni spaventose e mai viste prima, accorciava distanze, sradicava la certezza del circolo ed imponeva l’angoscia del rettilineo e degli improvvisi cambi di direzione – e solo i più giovani (prodotto d’un tempo nuovo) potevano adattarsi, non i vecchi, abituati ad antiche pratiche, così come ad una antica concezione del tempo (scandito dalla Natura) e dello spazio (che è quello della casa e del campo da coltivare – nella sua c-o/u-ltura secolare). Questo snodo della storia discrimina e divide e il vecchio deve lasciare il passo al nuovo: la fiasca deve andare in frantumi, il maiale morire e, con lui, il povero Mangano deve abbandonare la scena. Mentre gli altri sono chiamati a proseguire, anche se il senso della marcia pare sempre più incerto adesso che quella stabilità che in fondo il vecchio incarnava, e di cui tutti avevano bisogno, non è più – lasciando un vuoto incolmabile. La moglie di Mangano, più di tutti, sente questo vuoto, così come sente il peso della propria ignoranza, il fatto di non aver compreso nulla di quanto stava accadendo, della fuga imminente, del fatto che stavano perdendo tutto, del fronte che si avvicinava, di una figlia che scappava via, del vecchio che, trattato male fino all’ultimo, era destinato a morire.
In una sorta di discorso teologico di questa povera vedova si addensa tutto il significato di questo lungo racconto. La guerra non porta via solo la casa, le usanze, la vita, ma anche la secolare fede in Dio, le cui opere sono ora incomprensibili. Come è possibile difendere l’operato di Dio a dispetto del male che imperversa nel mondo? In poche parole, come possono tenersi insieme il male del mondo e il fatto che Dio sia il saggio, giusto e santo reggitore di tutte le cose? Ecco le parole della moglie del vecchio Mangano.
Mi pare che tutto sia inutile. Ti metti in un posto e lavori per tanti anni e poi viene qualcosa che ti porta via in una notte sola tutto quello che hai fatto in tanti anni. E quello che fa pena è che noi non ce lo meritiamo, e non si sa perché vengono queste cose che non sono giuste. E così si resta là che non si sa cosa fare, perché non si ha voglia di fare più niente. Io non capisco perché Dio ci abbia fatti in questo modo, che non si vede niente di quello che abbiamo davanti, e dopo dobbiamo patire tutte le disgrazie che capitano senza che dipendano da noi. Dicono che è Dio che ci manda dei castighi per punirci dei nostri peccati, ma non è giusto. In fin dei conti, non so quali peccati abbiamo fatto per meritarci tutte queste disgrazie […] È stato proprio Dio a comandarci di lavorare e di fare figli. E adesso non c’è più niente di quello che abbiamo fatto, e della nostra vita.
Nessuna Provvidenza è all’opera, nessun ordine superiore può qui servire a giustificare l’esodo, la violenza, la morte, la separazione e la povertà. Il male è ed esiste e si impone in tutta la sua granitica realtà, irriducibile ad altre istanze, ad un preteso bene superiore. È ravvisabile la volontà di Dio nella storia? No. Esiste questa volontà ed è al di sopra delle capacità umane di comprendere? Se si, non è verificabile. Pare blasfemo questo titolo (ripreso da Giovanni IX). Qui nelle opere si coglie il riflesso dell’abbandono, l’umanità che coglie la propria relazione a Dio nella forma del Suo ritirarsi dalla Storia per lasciare spazio al male, per lasciare l’uomo in balia del negativo, immortalato nella domanda di senso, inchiodato a questa domanda come ad una croce, da dove non può far altro che urlare il proprio abbandono.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Mi piace questa tua recensione, mi piacciono i brani che hai riportato, mi induci a ripetere che “non ci sono più gli scrittori di una volta”.
Penso che tu l’abbia scelta questa storia non a caso. Per la sua attualità. Attualità, ahimè, mi sa, destinata a restare tale, sempre.
Grazie. Che io abbia un debole per Berto mi pare evidente. Lo ribadisco: è uno di quegli scrittori italiani ingiustamente poco letto e commentato, mentre si lascia spazio ad autori che non meritano lo spazio che hanno. Volevo proporlo ieri, ma, ahimè, non ho fatto in tempo – fra le altre cose, è costitutiva una certa tendenza ad arrivare in ritardo. Si, l’attualità di questa opera di Berto è lampante. I temi ci sono tutti. Vengono presi, sviluppati, ma non risolti – in linea con il pensiero di questo autore.
Dalle parole che l’autore mette in bocca alla moglie (che nei momenti di difficoltà non ci sono poi così estranee, visto che poco o tanto frullano anche nella nostra testa) sorge proprio il dubbio che Dio non esista, o che comunque non sia come ce lo siamo sempre immaginato (ipotesi quest’ultima più plausibile). In ogni caso la tua analisi è veramente bella e sentita, e a mio parere rende onore ad uno scrittore che oggigiorno appare immeritatamente un po’ trascurato, e che io stessa avrei bisogno di approfondire meglio e di più… Grazie quindi per l’input.
Grazie. Si, le parole della donna sono un incredibile concentrato di semplicità e abissale visione dell’uomo e della sua condizione. Dio non può consolare e pare non vi siano margini per una positiva (provvidenziale) comprensione del male…di qui l’esigenza di abbandonare l’ipotesi dell’esistenza di Dio, oppure di ripensarne radicalmente la funzione all’interno della storia dell’uomo.
«che comunque non sia come ce lo siamo sempre immaginato (ipotesi quest’ultima più plausibile) » riprendo, sì, le tue stesse parole… 🙂
Era riferito ad Alessandra (intendo le parole) che, d’altronde, vedo riprese da te più o meno, insomma… mi unisco al coro! 🙂
Si, Alessandra ha (come sempre, del resto) perfettamente inquadrato i termini del discorso. Inevitabile ritrovarsi.
Molto bello- e drammatico, questo post. Purtroppo anch’io non ho mai ancora letto nulla di questo autore- del che spero di fare ammenda al più presto; posso però dire che la prima parte del tuo post mi ha ricordato molto, mutatis mutandis , la bellissima canzone di F. Guccini, Il vecchio e il bambino:
Quanto al discorso della moglie -bella, questa definizione, quasi evangelica-, e dunque alla posizione rispetto ai massimi sistemi, io- molto umilmente- sono dalla parte di Caproni:
Dio non c’è,
ma non si vede.
Non è una battuta,
è una professione di fede .
(Professio , da Il muro della terra , 1975)
Molto bella la citazione. Non la conoscevo ed è interessante nella sua feconda contraddizione in termini. Così come non conoscevo il brano di Guccini (che vado subito ad ascoltare – grazie per il link).
Mi scuserai, ma ho voglia di condividere Ta pum con te, e con chi, magari troppo giovane, e non di queste terre, non la conosca.
Grazie per la suggestione!
Che meraviglia questo scambio di commenti con tanto di video musicali in tema… 🙂
Sì, veramente bello e proficuo!