Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
…al di sopra d’una nera massa frastagliata di alberi, la casa levava il suo spoglio rettangolo nero contro il cielo che impallidiva. La casa era una rovina sventrata che si ergeva nuda e desolata da un boschetto di cedri inselvatichiti. Era una costruzione storica di prima della Guerra Civile, conosciuta come la casa del Vecchio Francese.
Queste righe, foriere di terribili presagi, prese nelle prime pagine di Santuario di Faulkner, mi hanno immediatamente portato alla memoria uno dei ricordi più antichi e angoscianti. Soffocavo nel buio, sottoterra, gli occhi aperti nella penombra di un’enorme stanza in cui potevo intuire la sola presenza di un tavolo e qualche sedia; un enorme spazio in cui ero stato lasciato, solo e febbricitante, senza respiro. In quello spazio vuoto e però pieno della mia angoscia, si apriva, d’un tratto, contro il soffitto, un fazzoletto di luce, illuminando appena una scala a pioli che di lì scendeva giù e il viso raggrinzito e spaventoso d’una vecchia silenziosa che mi scrutava con un’espressione che non sono mai veramente riuscito a ricostruire – che il vuoto della memoria, nel tempo, ha trasformato in ghigno. Solo molti anni dopo quel ricordo, oltre a riaffiorare, ha trovato il suo posto nella realtà. Ero tornato, a 15 anni, nella casa dei miei nonni paterni. Mio padre m’aveva portato nello scantinato e lì, mentre lui parlava della sua infanzia passata fra galline e maiali, io seguivo con lo sguardo una lunga scala a pioli, in legno, che poggiava sul pavimento di pietra e saliva su fino ad una botola ritagliata nell’alto soffitto. Quello era il luogo che aveva ospitato, tanti anni prima, il trauma. Un paio di domande e mio padre aveva riempito tutte le falle nel ricordo e raddrizzato le storture dell’immaginazione: avevo 3 anni ed eravamo lì nella casa dei miei nonni paterni, mezzo pastori mezzo agricoltori in una delle aree più arretrate nel profondo sud. Era estate e m’aveva preso una febbre altissima e così ero stato sistemato in cantina, lì dove era più fresco. Tutto qua, niente di più. A 15 anni, dunque, mi trovavo a salire su per quella scala di legno e aprivo la botola scricchiolante che dava sulla casa, a livello della strada, dove era un’esplosione di luce ed insetti. Dall’alto guardavo giù, tutto sudato, nella cantina dove avevano sistemato un bambino di tre anni, decisamente troppo piccolo per sostenere quegli spazi, quella collocazione, quella sorta di sepoltura. A quindici anni, dopo molto tempo, salutavo mia nonna, consapevole che quella vecchia – non poi tanto vecchia, in realtà, ma, piuttosto, “altra” nella sua natura di contadina calabrese – era la stessa donna che mi aveva riempito di terrore tanti anni prima. L’aver riportato “alla ragione” quel ricordo, quell’allucinazione di bambino, però, non ha cancellato l’impressione che, ancora oggi che sono decisamente più anziano, riesce a produrre in me il pensiero di quel volto pauroso sospeso sopra di me e il senso di assoluto abbandono e la paura di soffocare.
Anche senza farla troppo lunga e senza caricare di proiezioni del tutto personali questo romanzo, nulla vieta di definire Santuario come un’opera cupa e tragica, capace di mozzare, ancora oggi, il fiato di un lettore che ha visto/letto di tutto.
Siamo nel profondo Sud – fra Mississippi e Missouri – durante il proibizionismo e la Grande Depressione. E la casa, quella casa, il rudere in cui Faulkner ci invita ad entrare è in realtà una distilleria clandestina in cui si agita una umanità reietta e senza scrupoli, fatta di uomini violenti, di magnaccia e truffatori d’ogni genere. Eppure in quella casa, proprio in quella casa, facendo saltare ogni schema e divisione per classi sociali, ceti, condizioni economiche, finisce Temple Drake, una ragazzina di diciassette anni, bella e di buona famiglia, figlia di un importante giudice, una ragazza che non riesce però a stare buona, a “fare la brava ragazza” e che esce la sera contro ogni divieto: “la sfrontata bocca dipinta e il mento morbido, gli occhi che guardavano vacui a destra e a sinistra, distaccati, rapaci e discreti”. Temple viene catapultata lì dopo un incidente stradale, mentre era in compagnia di un certo Gowan Stevens, ubriacone dell’Università della Virginia che viene malmenato dai padroni di casa e che poi scappa, lasciando la ragazza in preda all’incubo. Uomini che per tutta la notte si aggireranno intorno a Temple, barricata in una stanza buia e fredda e piena di topi, immobilizzata per il terrore di una violenza sempre più vicina e certa, le gambe strette, il desiderio infantile di diventare un bambino pur di uscire dell’orbita del desiderio animalesco di quegli uomini orrendi, fuggire la violenza, per non sentire il sangue che le si gela nelle vene ad ogni movimento, al continuo scricchiolio del materasso di pannocchie su cui siede (pannocchie che ritorneranno – simbolo di un sistema economico e della sua violenza culturale, razziale, di genere – non aggiungo altro per non togliere il gusto della scoperta a chi non ha ancora letto quest’opera). Padrone indiscusso in quella casa è Popeye, figura sinistra, carica dell’ambiguità di una società corrotta.
La sigaretta mandava la lieve spirale della sua piuma su per il viso di Popeye, l’occhio da quella parte socchiuso per via del fumo, come una maschera intagliata in due espressioni simultanee.
Al centro di Santuario sta proprio l’incontro fra Temple e Popeye. Ne verranno fuori un omicidio, una violenza carnale, la segregazione della ragazza in un bordello di Memphis, dove entreranno ed usciranno, a conferma di quella commistione e quella condanna generale di Faulkner, uomini di ogni professione ed estrazione sociale: politici ed avvocati, ingenui provinciali, studenti universitari di buona famiglia. Ne verranno fuori, dall’incontro fra Temple e Popeye, un processo e il tentativo vano di ristabilire verità e la giustizia di Horace Benbow, un avvocato animato da un debole ideale, una vaga aspirazione alla giustizia (“Non posso restarmene con le mani in mano a vedere un’ingiustizia“), ma in realtà stanco e sfiduciato, alla ricerca, in realtà, dell’occasione giusta per mollare tutto e ritirarsi in sé, nella sua vuota vita di piccolo borghese: “Tutto quello che volevo era una collina dove sdraiarmi, capite. Allora sarei stato a posto“.
Pubblicato nel febbraio del 1931, dopo lo scarso successo de L’urlo e il furore e di Mentre morivo, Santuario ottenne un incredibile successo. Romanzo scandalo che valse a Faulkner un primo riconoscimento che però poggiava – e di questo l’autore era pienamente consapevole – su di un profondo misconosciuto dei reali intenti che avevano animato l’opera stessa. A partire da tale incomprensione, nel novembre dello stesso anno Faulkner scriveva un’introduzione – poi divenuta celebre – per la ristampa di Santuario. Due pagine sfrontate in cui Faulkner fa risalire la sua carriera di scrittore alla volontà di far soldi senza dover veramente faticare facendo lavori veri. Due pagine che paiono quelle d’un venditore che ammicca, promette e cerca comprensione per sé, consapevole dello scarso valore del prodotto in sé. Faulkner definisce Santuario un’opera inferiore a L’urlo e il furore o a Mentre morivo, un’opera di cui vergognarsi, studiata a tavolino per andar incontro ai “gusti” dei lettori. Un’opera presentata come frutto di un lavoro portato avanti nei ritagli di tempo, la notte, mentre spalava il carbone per la caldaia del fochista. Cosa poteva venirne fuori? Niente di buono, sembrerebbe, eppure, al tempo stesso, un romanzo tanto apprezzato da un pubblico che – qui il messaggio implicito di Faulkner – in realtà non capisce nulla, che non sa leggere, che non vuole incontrare il mondo, né se stesso per mezzo della letteratura. Cosa si può chiedere, quindi, ad un pubblico del genere? Di comprare il libro e di far guadagnare qualche soldo all’autore, e al diavolo, poi, che ci capiscano qualcosa o meno…che riescano a percepire tutto il male di cui Santuario è intriso come qualcosa di reale per loro, o anche solo in loro, magari sotto forma di incubo, tipo l’essere segregati in uno scantinato buio, in preda alla febbre, soli, senza fiato, con solo una debole luce, per qualche istante, a far da tela al viso inquietante d’una vecchia…
Cominciai a pensare ai libri come fonte di possibile guadagno, e decisi che tanto valeva guadagnassi qualcosa anch’io. Mi presi un po’ di tempo, meditai su quali cose una persona in Mississippi avrebbe ritenuto delle tendenze attuali, scelsi quella che mi sembrò la risposta giusta, e inventai il racconto più spaventoso che potessi immaginare […] Feci un discreto lavoro e spero che lo comprerete e lo direte ai vostri amici, e spero che lo comprino anche loro.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
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Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Hai scritto un ottimo pezzo. Scorrevole ma non superficiale, come la scorrevolezza spesso può comportare. Così il parallelo tuo usuale – fatto personale e oggetto della recensione – è bilanciato.
Un lavoro rischioso questo, perchè difficile e impegnativo, che può scappare di mano.
Interessante la documentazione, alludo anche a quella prefazione dell’autore, così “americana”, da ring. Per la sua schiettezza, senza complessi. 🙂
Grazie. Faulkner era un tipo decisamente spigoloso e sprezzante che scriveva libri spigolosi e drammatici. Scriverne è talmente assurdo che l’unico modo per farlo è di buttarci dentro qualcosa della propria, personale esperienza. Del resto credo di potermelo permettere: ho comprato il libro, rispondendo alla prima richiesta dell’autore.
Te le puoi permettere, sì:-) 🙂 🙂
Su questo libro, parecchi anni fa, costruimmo uno spettacolo teatrale… non per la mia presenza ma era, secondo me, bellissimo… sospinto e sostenuto dalla densa atmosfera del testo… in scena non mettemmo la “pannocchia”…
Deve essere stato complesso mettere in scena e quindi “tradurre” un testo così denso – per quanto concerne la pannocchia, beh, avrebbe avuto una discreta presenza scenica.
Una presenza da “diva” macabra…
Definizione da manuale!
Faulkner è così.
E’ un autore che non fa sconti. Si prende o si lascia, si ama o si odia.
Di sicuro, non lascia indifferente nemmeno il lettore, che, come tu dici, “ha letto tutti i libri”.
Io ho letto la scorsa estate L’urlo e il furore , che però non ho amato quanto Assalonne, Assalonne! , libro di gigantesca, disumana potenza.
Avevo in progetto di leggere Santuario ma non avevo chiaramente idea di quale ne fosse la trama- e il tono, e il carattere.. Non so quando riprenderò Faulkner, ma -quando sarà- mi ricorderò di tornare a leggere queste tue preziose note.
Vero, Faulkner non ammette mezze misure. O si prende in blocco o, in blocco, si rigetta. Per quanto concerne le opere, Assalonne, Assalonne! È un capolavoro assoluto, anche se personalmente fra tutte le sue opere quella che prediligo è Mentre morivo – strepitoso.
Ammettendo che non amo Faulkner (ho letto solo L’urlo e il furore’, grande, bellissimo romanzo, che non mi è piaciuto leggere) mi è piaciuto molto questo tuo pezzo, che rende bene l’autore (e mi fa pensare che meriterebbe da parte mia un altro tentativo).
Mi piace molto il tuo saper legare, con una scrittura molto bella, la lettura alle esperienze, al proprio mondo interiore. Tra l’altro, leggo questo pezzo mentre sto scrivendo, pensando, qualcosa di analogo, anche se il campo di esperienza è diverso; sempre, in ogni modo, al come le nostre vite, le nostre esperienze si legano ai libri che leggiamo, cui diamo e da cui prendiamo vita.
Grazie. Per me, invece, Faulkner – quando qualche anno fa lo lessi per la prima volta – è stato una vera e propria rivelazione. Tornando ad analogie e coincidenze, leggerò con gran piacere – se è destinato a trovare casa sul tuo blog – il pezzo che stai scrivendo.
Grazie. Oggi vedrò se, in parte, farne qualcosa.
Ho approcciato Faulkner soltanto l’anno scorso, erano anni che gli giravo attorno e non mi decidevo mai. Mi ha subito, immediatamente travolta (e francamente, non me lo aspettavo, ero abbastanza diffidente). Vero è che ho cominciato da “Assalonne… Assalonne” che adesso, dopo aver letto quasi tutti i suoi libri pubblicati in italiano (mi mancano solo “Le palme selvagge”, “Gli invitti” e “Storia di una monaca”) ritengo semplicemente immenso…
Condivido tutto quello che hai scritto (e così bene) su “Santuario”. Da parte mia, aggiungo solo che ho trovato formidabile il tono grottesco e persino…. comico con cui Faulkner mette in scena le parti più trucide della storia. Insomma, per dirla proprio tutta: io mi sono ritrovata spesso a ridere come una matta… e questo si, che proprio non me lo aspettavo: ridere leggendo Faulkner! Il personaggio di Popeye è gigantesco, il suo modo di parlare, di comportarsi è semplicemente strepitoso (mi faceva pensare a certi dipinti di Grosz, a certi fumetti americani ma anche — e molto— alle figure dell’espressionismo tedesco e come colonna sonora avrei messo un Kurt Weill d’annata…). E tutta la storia del bordello, io l’ho trovata esilarante.
Ho poi comprato e letto un volume che contiene una raccolta di interviste di Faulkner, e mi sono convinta che anche la arcifamosa nota da lui scritta a proposito di “Santuario” e che tu giustamente citi non è altro che una (stupenda) mossa di depistaggio…Faulkner, mon amour 🙂
Prima o poi rileggerò “Assalonne”, chè è romanzo di tale spessore e — come ha già detto Dragoval — di tale potenza che va non solo letto, ma studiato.
Sono lieta di aver trovato un altro estimatore di Faulkner, leggendo il quale personalmente mi sono ritrovata a ridimensionare altri scrittori americani (specialmente contemporanei viventi) che adesso ritengo decisamente sopravvalutati.
Ciao e grazie
Prendo le mosse dalla tua conclusione e rilancio: Faulkner non solo fa impallidire molti scrittori americani contemporanei, ma probabilmente è uno fra (il più?) i più grandi scrittori americani di sempre. Io lo leggo e rileggo senza stancarmi e, ogni tanto, cerco (da impunito) di scriverne qualcosa – così come ho fatto per Assalonne…quella introduzione, poi, è un piccolo gioiello per ferocia ed eleganza. Da ridere, si, proprio come le scene al bordello, con i cagnolini ringhianti, la “padrona” sentimentale e tutta la fanfara di personaggi non credibili che lo popolano…e poi c’è quella madre/moglie/donna/prostituta quando è necessario, che mette il figlio neonato in una cassetta per proteggerlo dai topi…Faulkner, mon amour! Grazie a te per il bel commento.
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