Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Perché mettere accanto Alessandro Magno e Franz Kafka? Che c’entrano l’uno con l’altro? Cosa possono avere in comune? Cosa può fungere da ponte per tenerli insieme in uno stesso discorso? Beh, praticamente nulla – almeno ad un primo sguardo. Uno vissuto attorno al 300 a.C. in Macedonia, l’altro a cavallo fra Ottocento e Novecento a Praga. Uno dalla pelle chiara e dallo spirito fiero e sanguigno, l’altro dal carattere flemmatico. Eppure ci sono dei passi che – forzando la mano, lasciando da parte il rigore e giocando un po’ di fantasia – permettono di gettare quel ponte che, ad un primo sguardo, pare semplicemente senza senso e ragion d’essere (il ponte, ovviamente, continua a non aver alcuna ragion d’essere al di fuori di questo gioco).
Alessandro e Kafka sono stati obbligati a prendere le mosse da un identico ostacolo, entrambi ancorati ad un comune dilemma – questione che inevitabilmente tende a dilatarsi, fino a farsi universale – un dilemma che risolveranno in opposti modi, seguendo strade diversissime: entrambi sono alle prese con padri che in comune hanno una qualche forma di grandezza. Certo, si parla di diversi ordini di grandezza, di diversi sensi da attribuire a questa “qualifica” (dato che di questo si tratta), eppure quel che qui conta è la percezione stessa della grandezza e non tanto la sua natura. Questi uomini così diversi sono destinati a grandi imprese (più o meno incompiute), e forse parte del loro sforzo affonda le radici e trova alimento nel disperato tentativo di uscire dall’ombra di un Padre che è, al tempo stesso, reale-biologico e simbolico-divino.
Ogni volta che sentiva annunciare che Filippo aveva conquistato una città famosa o aveva vinto una celebrata battaglia, non dimostrava molta gioia e ai coetanei diceva: “Amici, mio padre si prenderà tutto e non mi lascerà la possibilità di compiere con voi qualche grossa, luminosa impresa”. Egli infatti non aspirava a piaceri o ricchezze, ma a virtù e fama, e pensava che quanto più riceveva dal padre, tanto meno avrebbe guadagnato da solo.
Avevi fatto tanta strada contando sulle tue sole forze, e di conseguenza avevi una fiducia illimitata nelle tue opinioni. […] Dalla tua poltrona governavi il mondo. La tua opinione era giusta, ogni altra assurda, stravagante, pazza, anormale. […] A volte immagino la carta della terra spiegata e tu sopra, disteso di traverso. Ed è come se, per la mia vita, potessi prendere in considerazione solo le zone che tu non copri o che sono fuori dalla tua portata. E in conformità all’immagine che mi sono fatta della tua grandezza, non sono molte, queste regioni, né molto confortanti, e il matrimonio non vi è compreso.
Il primo passo è tratto dal volume delle Vite parallele di Plutarco dedicato ad Alessandro, il secondo direttamente dalla celebre Lettera al padre. In entrambi i passi emerge una visione potenzialmente tragica dell’esistenza e del destino dell’individuo: il potere dei padri è, di fatto e se non contrastato, la debolezza dei figli. Ora, chissà quanto della riflessione di Kafka si sia data, per contrappunto, come una razionale capitolazione rispetto al tipo d’uomo di cui Alessandro è degno rappresentante, però è interessante vedere come una stessa consapevolezza/percezione della potenza del “padre” abbia contribuito a dar vita a due destini così diversi (così simili?). Il rischio (che è di tutti) diviene esemplare grazie a queste due figure chiamate a lottare contro un padre ordalico (almeno nella percezione che ne hanno) che tutto fagocita e conquista e che, tendenzialmente, assorbe il mondo, saturandolo, e minacciando di abbandonare il figlio nel deserto del reale…
Filippo, padre di Alessandro, mirava (stando ad alcune testimonianze) alla gloria, al potere per il potere, al denaro e certo non disdegnava di essere feroce, violento, pulsionale e vizioso; e anche il padre di Kafka (almeno per come viene tratteggiato da un Franz solo apparentemente timoroso e rispettoso) non ne esce pulito: Kafka dice del padre che a tavola mangiava come un porco, che si tagliava le unghie e che, persino, si “nettava le orecchie con lo stuzzicadenti“. Eppure da ogni rigo della Lettera quell’uomo che il figlio vorrebbe “contenere” si staglia sul/nel mondo in tutta la sua terribile grandezza. Ma, a dispetto del medesimo punto di partenza, quanto diverse sono le soluzioni che trovano, le strategie che mettono in campo. Il primo, Alessandro, mira alla gloria propria del grande conquistatore, sfida il padre guardandolo diritto negli occhi, doma il terribile Bucefalo; il secondo, al contrario, (e a tal proposito si vedano le magnifiche – a tratti “cronachistiche” – pagine dei suoi Diari) si chiude nella sua stanza per interi pomeriggi, steso sul letto con le mani affondate nelle tasche. Alessandro riesce ad ottenere l’approvazione del padre, lo sfida apertamente e le loro spade spesso rischiarono di incrociarsi mortalmente; il secondo, che viene esortato ad essere qualcosa, non solo non ha il coraggio per contraddire il padre, ma ne ha un tale timore che la stessa Lettera trova in questa sudditanza trova il suo incipit e la sua stessa ragion d’essere: “Caro papà, recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo di avere paura di te“. Il primo fa la storia (anche se il suo progetto rimane incompiuto), il secondo scrive storie (che però non riesce/può a portare a termine). Il primo è tanto vicino agli dei da farsi dio egli stesso: “assolutamente persuaso della sua nascita e origine divina” Alessandro si stupisce di vedere scorrere dal suo corpo ferito del sangue e non icore, così come avviene per gli dei. Per il secondo lo iato è così profondo che dio si fa sempre più terribile mano a mano che si allontana, prefigurando la grande eclissi che stravolgerà la storia del Novecento. Uno fa figli, conquista mezzo mondo e colleziona spose su spose, all’altro va in pappa il cervello dopo un fidanzamento, mentre l’idea del matrimonio lo manda quasi al manicomio. Mentre Kafka tenta di portare avanti i suoi studi, Alessandro si ritrova ad avere come precettore Aristotele in persona – e a un certo punto se ne stufa pure. Mentre Alessandro si fa celebrare e lascia che in suo onore siano innalzate grandi statue, Kafka si trasforma in scarafaggio…ed è proprio l’idea per cui ciò che è impossibile, precluso e irraggiungibile implichi qualcosa come una metamorfosi, offre qui la possibilità fare un passo in avanti…
Per chi conosce l’opera di Kafka qualsiasi discorso sulla presenza di animali nella sua opera sarà nel migliore dei casi una ovvietà, per questo si tralascia ogni riferimento non necessario. Animali-simbolo, uomini che si trasformano in insetti, oppure, e questo è quello che qui interessa, animali che diventano uomini (o quasi): in questo campo Kafka è una fonte quasi inesauribile di suggestioni. Ora, una cosa è certa: Alessandro non poteva conoscere Kafka. Ma altrettanto certo è che Kafka conosceva e meditava sulla figura di Alessandro. Testimonianza ne dà una paginetta risalente al gennaio del 1917 dal titolo Il nuovo avvocato, racconto inserito nella raccolta Un medico di campagna (dedicata da Kafka – altra coincidenza? – proprio al padre). Eccone le prime righe.
Abbiamo fra noi un nuovo avvocato: il dottor Bucefalo. Nelle fattezze esteriori egli ricorda assai poco l’epoca in cui era ancora il destriero di Alessandro il Macedone. Eppure, a chi ha familiarità con le vicende, non potranno sfuggire taluni particolari. Anzi, non molto tempo fa sullo scalone ho visto persino un usciere qualsiasi del Tribunale ammirare, con lo sguardo professionale del modesto frequentatore di corse equestri, l’avvocato mentre saliva di gradino in gradino sollevando in alto le gambe con passi che rimbombavano sul marmo.
Bucefalo è un nuovo avvocato del Foro, ma sale i gradini come un cavallo e non come un uomo, quasi che l’evoluzione – o metamorfosi – dall’animale non sia davvero compiuta, quasi a voler affondare la lama nell’ambiguità che alberga nell’uomo. Curioso, però, è che non siano gli avvocati del Foro a sentire disagio per la presenza di Bucefalo, ma Bucefalo stesso a soffrire la presenza degli altri. Non esiste più un uomo che abbia la stessa statura di Alessandro, mentre l’umanità viene di fatto pensata come un “gregge” incapace di ideali e grandi imprese, priva di coraggio, di una visione del mondo, di instaurare un rapporto con il divino. Sparito Alessandro, Bucefalo, senza lo sprone e la guida di un grande condottiero, ma anche senza il fardello della forza del suo padrone, si acquieta e si normalizza, si intellettualizza e, nell’incapacità di creare e pensare nuove mete, si appoggia ad antichi codici (Bucefalo si è fatto avvocato, proprio come Kafka). Incapace di perseguire grandi fini, incapace di sfidare il Padre, più vicino all’animale che ad Alessandro, è forse meglio, per questo tipo d’uomo (Bucefalo-Kafka), adagiarsi all’ombra dei testi antichi in una rassegnazione senza azione. Lo studio dei vecchi codici diventa una cosa sola con la meditazione sulla parola di quei padri che devono essere pensati in un pensiero che ossessivamente ritorna, non essendo possibile affrontarli direttamente…studio che è il riflesso, anche nell’arte, di una creazione che non è (analogamente alla fondazione di imperi e alla sottomissione di popoli) capace di dare alla luce opere monumentali, ma destinata a produrre – alla fioca luce di un intelletto non illuminato dalla presenza del divino – solo opere incompiute, a stento capaci di stare in piedi e dare storia a chi non sa fare la storia, di offrire uno scampolo di tempo a chi ha i minuti contati e vive nella colpa e in un profondo senso di inettitudine…Decisamente diverse queste vite: quella di Alessandro capace di fare Storia e lasciare grandiose Rovine, quella di Kafka nata da una Rovina che produce storie esposte da sempre al rischio delle fiamme. In questo senso, però, grazie alle pagine di Kafka, una volta di più lo studio diventa l’unico rifugio per l’uomo incapace di grandi imprese e di una “visione del mondo”…rifugio che è però, al tempo stesso, tentativo di riscatto e di salvezza: studio/creazione come atto di contrizione…e liberazione dall’inettitudine.
Forse proprio per questo motivo la cosa migliore è davvero seguire Bucefalo e sprofondarsi nei codici. Libero, i fianchi non gravati dalle reni del cavaliere, alla quieta luce della lampada, lontano dal fragore della battaglia di Alessandro, egli è assorto nella lettura e volta le pagine dei nostri libri antichi.
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Molto bello questo scritto … Grazie
A te, per l’apprezzamento.
Meraviglioso! Un asterismo in piena regola, e con la benedizione di Jung 🙂
Asterismo in piena regola? Non potevi fare apprezzamento migliore di questo. Grazie.
Buon saggio viziato da una spregiudicatezza che si può accettare solo per le citazioni “salvifiche” e attinenti. Ma si parte per un viaggio con programma stabilito ed esso vien disatteso, Kafka e Alessandro il macedone avevano staccato il biglietot per allergia verso la figura paterna e si sono spiaggiati su rive opposte con letterature e vite distanti anni luce. Non avevo mai pensato a leggere in chiave psicoanalitica un certo tipo di letteratura; è un esercizio interessante…a volte ho la sensazione che Bucefalo non apaprtenga a nessuno dei due. Nemmeno a quello più avventuroso.
È questo, come scrivi, probabilmente l’aspetto più interessante dell’intera storia, Bucefalo e la sua natura eccentrica. Si accompagna ad Alessandro come a Kafka, ma non è di nessuno dei due. Cosa sia, poi, è altra storia.