Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire, in quell’estate del quarantasei, nella camera sette bis, dove ero giunto da molto lontano, con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo, dopo essermi trascinata dietro, di stazione in stazione, con le dita aggranchite sul ferro della maniglia, una cassetta militare, una minuscola bara d’abete per i miei vent’anni dai garretti recisi.
Diceria dell’untore, di quest’opera si è detto e scritto molto, in tanti l’hanno letta ed apprezzata. Appena data alle stampe, nel 1981 – opera prima di un autore che esordisce già sessantenne – quest’opera venne accolta come qualcosa di unico. Risultato di un lavoro di decenni, di scritture e ripensamenti continui, Bufalino narra a partire dalla sua personale esperienza di degenza in un sanatorio nei pressi di Palermo, la Rocca, dove, reduce dalla guerra, cercava di guarire dalla tisi. Diceria è, al tempo stesso, opera di cui si può dire tutto in poche parole ed opera per la quale tutte le parole non basterebbero per dirne l’incredibile varietà interna di toni, registri e materiale trattato. Tutto in poche parole perché la trama è assai semplice, dato che, così come l’autore non manca di precisare: “a me interessano più i colpi di scena delle parole che non i colpi di scena dei fatti, […] non cerco di mimare in nessun modo il reale”. Assai complessa, quest’opera, perché all’immediatezza della trama corrispondono una quantità incredibile di riferimenti e tracce, facendo sì che il discorso si snodi in mille rivoli di parole e di senso. Non che la realtà non entri nel discorso, anzi, spesso lo fa in modo prepotente. Penso, a tal proposito, alla città di Palermo, che porta tutti i segni di una guerra appena conclusa, oppure al breve soggiorno del protagonista nella suo paese d’origine a contatto con i genitori e vecchi amici. Eppure tutto il discorso dell’io narrante pare come sospeso, collocato in una prospettiva assoluta (ab-soluto, sciolto), quasi sub specie aeternitas. Uno sguardo dall’alto, fra le altre cose, simboleggiato da una Rocca che vagamente riporta al pensiero il celebre sanatorio de La Montagna incantata di Thomas Mann. Solo che questa è una ben strana sospensione. In una vicenda che si gioca quasi tutta al di fuori di un mondo messo fra parentesi paiono muoversi il protagonista, gli altri ospiti della Rocca, il dottore-direttore detto il Gran Magro, padre Vittorio con la sua contrastata religiosità e Marta (donna ambigua e con un oscuro passato con cui il protagonista intreccia una relazione amorosa burrascosa e tragica), eppure, a ben vedere, questa è una sospensione fittizia, qualcosa come una mongolfiera alimentata dall’alito delle parole e dei discorsi, ma tenuta e trattenuta a terra da un cavo invisibile ed indistruttibile che è lo spettro angosciante della morte imminente promessa a tutti questi moribondi, uomini e donne promessi alla morte che giocano ad essere vivi, a progettare vite che non potranno vivere.
“Ascoltami” soggiunse, con una torva solennità, “e ricordati: io sola sono vera e sarò finché vivo. Voi, gli altri, siete appena barlumi e finzioni che sento respirare e parlare al mio fianco. E la storia non riguarda che voi, io non so cosa vuol dire. Capiscimi: nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte. E tutte le carneficine e derive di continenti e scoppi di stelle sono soltanto canzonetta e commedia al confronto di questo minuscolo e irripetibile cataclisma, la morte di Marta. Cosa non farei per ritardarlo di un attimo. La puttana, la spia, l’aguzzina. E chissà che non l’abbia già fatto”.
La morte è ovunque. Nei fazzoletti lordi di sangue, nei colpi di tosse che squassano corpi gracili e senza forza, nelle parole che si fanno al tempo stesso rifugio e veicolo del morbo. Chiunque, alla Rocca, è untore, ha il fiato di veleno. Tutto è vissuto all’interno dell’orizzonte del contagio, dell’assenza o della pochezza d’ogni barriera possibile per proteggere ciò che è interno da ciò che sta di fronte, l’io dall’altro. La comunità di questi uomini è quella di chi è destinato alla morte, di chi, per tacito accordo, finge di vivere sapendo di dover presto morire, è una comunità portatrice d’una saggezza che sopraggiunge spesso troppo tardi in tutti gli altri, in quelli che alla morte arrivano impreparati, quando sono prossimi al confine che separa (ma questa separazione è poi così netta?) la vita dalla morte. La morte è dunque il centro attorno a cui tutto ruota, mentre le parole cercano di costruirle attorno una ragnatela per catturarla, tenerla a distanza in uno sforzo prodigioso (quanto a costanza e determinazione) ma inutile nei fatti, dato che la morte, col suo peso infinito, sfonda la rete delle parole e dei discorsi, serra le labbra nel silenzio, irretisce il corpo, elimina ogni velleità, ogni retorica. La morte porta tale pesantezza nel corpo, si deposita. La morte “cosifica”…
Era morta, questo era ora il suo stato naturale e pacifico. Come se non fosse mai stata altro: di botto impietrita, uccisa e neutra, una cosa.
Il protagonista, contravvenendo al tacito accordo con gli altri ospiti della Rocca, sarà l’unico a salvarsi. Cosa se ne farà di questa vita che gli è stata inaspettatamente restituita? Lui così avvezzo all’idea di una morte imminente? Lui ancora giovane e con davanti un’esistenza per cui non è veramente preparato? Cosa se ne farà, lui che, finalmente sano, verrà preso dal timore di nuovi e fatali sbocchi di sangue, lui che è ancora schiacciato dalla paura della morte? Ecco che memoria e morte si saldano indissolubilmente, così come si salda l’angoscia per la morte (soprattutto quella scampata) con l’arte che si fa testimonianza.
Per questo forse m’era stato concesso l’esonero; per questo io solo m’ero salvato, e nessun altro, dalla falcidia: per rendere testimonianza, se non delazione, d’una retorica e d’una pietà. Benché sapessi già allora che avrei preferito starmene zitto e portarmi lungo gli anni la mia diceria al sicuro sotto la lingua, come un obolo di riserva, con cui pagare il barcaiolo il giorno in cui mi fossi sentito, in seguito ad altra e meno remissibile scelta o chiamata, sulle soglie della notte.
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
Bella analisi, molto ben centrata sulla tematica di fondo del romanzo, che è appunto quella della “morte” e di tutte le paure più o meno dissimulate che le ruotano attorno. Hai ragione, in Bufalino ciò che colpiscono di più sono i colpi di scena delle parole che non quelli dei fatti. Ma nonostante l’abbondanza dei virtuosismi stilistici questa storia riesce comunque ad incantare e ammaliare, nondimeno a turbare. Ci sono dei tratti che sono molto intensi, molto sentiti intimamente, quasi lirici per la bellezza espressa del pensiero.
Grazie. Si, una delle cose che più colpisce di Bufalino è la capacità di conciliare il virtuosismo dello stile con la capacità di veicolare un’emotività intensa, credibile, mai patetica.
Resoconto impeccabile, e sintesi efficace di Alessandra.
I miei brividi a parte… 🙂 che siete riusciti a suscitare… (MI viene in mente mia madre che tornava dal cinema e commentava: «Bel film, mi è proprio piaciuto, ho tanto pianto!»)
Grazie. Per quanto concerne Alessandra, poi, ogni suo commento arricchisce e, di diritto, entra a far parte del post stesso, come nota al testo (e per chi se ne intende è noto che il senso del testo sta nelle note più che nel testo stesso, che rimane inevitabilmente vincolato a regole spesso soffocanti).
Dimenticavo un particolare: che riuscire a sviluppare un romanzo (lo definisco così per comodità e farmi capire) e coinvolgere senza indulgere alla trama occorre essere scrittori di spessore.
Quando la forma, in qualche modo, si fa contenuto. ..
Esatto! Bravo!
Peraltro, schiacci un tasto basilare che già merita tutto un suo discorso.
Solo su questo ci sarebbe da soffermarsi e discettare all’infinito… ero presso che adolescente che mi sono imbattuto sull’argomento forma e contenuto, due aspetti che ora si fondono ora si scindono, con sostenitori di questa o quella tesi… questione che ritengo sempre aperta…
Questione irrisolvibile per definizione. Equilibrio o squilibrio fra queste due istanze che viene risolto solo momentaneamente, in base al periodo storico di riferimento, e che si deposita direttamente nelle opere che via via ci vengono consegnate…
Condivido, alla lettera. È la stessa conclusione cui, negli anni, sono pervenuto.
Esatto! Bravissimo. Metti in luce un aspetto (rapporto: forma e contenuto) che già di per se stesso meriterebbe tutto un suo discorso.
Cose da pazzi, le coincidenze! Sono in sanatorio anche io, a Davos, immersa nella ri-ri-lettura di quell’incanto che è “La montagna incantata” di Mann… Arrivo qui e che mi trovo davanti? Un altro sanatorio… 🙂
Ti stupirà forse apprendere che non ho letto Bufalino, si lo so dovrei farlo ma non certo adesso, chè uscire da un sanatorio per entrare in un altro sarebbe davvero superiore alle mie forze.
Però mi sono gustata la tua analisi, e di questo, soddisfatta ringrazio.
ciaociao
Grazie. Anche io arrivo tardi a questo testo, che per diversi anni era rimasto in attesa di lettura dopo che l’avevo pescato per qualche moneta ad una bancarella dell’usato. Sanatorio per sanatorio direi di no, anche se con Bufalino si scende di quota e ci si riscalda con un clima decisamente mediterraneo, molto meno rigido. Sempre meglio essere cauti, però, soprattutto dopo aver a lungo sostato presso le altezze di Davos. Troppo grande, come direbbe Nietzsche, sarebbe il rischio di ammalarsi a furia di respirare aria così fresca e pulita…
Lessi Diceria dell’untore anni fa, e credo gli abbia nociuto il confronto inevitabile con La montagna incantata . E’ vero che non è possibile paragonare due testi solo sulla base delle affinità tematiche, ma comunque è quello che accadde.Ricordo peraltro che il personaggio femminile mi disturbava particolarmente (rileggendo la tua analisi, direi che probabilmente non è un caso). Bufalino non è un autore nelle mie corde, anche se all’epoca ricordo di aver apprezzato molto di più, se non proprio amato, Le menzogne della notte . Segnalando invece altri “sanatori letterari”, vorrei non si dimenticassero i volumi centrali dell’autobiografia di Bernhard ( Il respiro e Il freddo ) e La veranda del nostro Salvatore Satta.
Certo, difficilmente un romanzo può uscire indenne da un confronto con La montagna incantata. Per quanto concerne gli altri sanatori, quello di Bernhard mi è noto, mentre devo ammettere che quello di Satta non lo conoscevo. Sarebbe interessante metterli uno accanto all’altro e vedere cosa uscirebbe fuori dal confronto tra diverse idee di malattia, guarigione, convalescenza…e magari (il riferimento è inevitabile e continuo) illuminarli per mezzo della lezione di Nietzsche, dato che nessuno più di lui ha sviscerato e sviluppato queste tematiche.
Leggendo il vostro scambio di opinioni mi stavo chiedendo se mi conviene approcciare Bernhard con Il soccombente, come avevo già in mente di fare. O se è meglio, come primo passo, un altro dei suoi libri… Visto che tutti (o quasi) lo avete letto, magari una dritta me la concedete 😉
@Tommaso
Perdona la mia ignoranza imperdonabile, ma su Nietzsche non ti seguo…..avevi in mente un testo particolare ?
@Alessandra
Quando provai anch’io ad accostarmi a Bernhard attraverso Il soccombente , non funzionò assolutamente.Il mistero, per così dire, non si rivelava. Il mio amore per Bernhard è nato leggendo L’origine e poi gli altri volumi della sua autobiografia, per cui è da lì che ti consiglio di partire,anche perché credo sia qui,ben più che nei romanzi, che Bernhard abbia raggiunto i suoi esiti più alti.
Un bacione- sperando che Tommaso ci perdoni l’off-topic 😉
Tommaso è un gran signore, credo (e spero) non si dispiaccia se approfitto di un autore citato per chiedere consigli in merito 😉 Grazie per la raddrizzata, un bacione anche a te!
Approfitta!
Al contrario, vi ringrazio. Fra le altre cose, concordo su Bernhard. I volumi autobiografici sono splendidi. Su Nietzsche nessuna ignoranza, ovviamente, al più sono io ad esser stato frettoloso. Nessuna opera in particolare su questi temi, ma, al tempo stesso, tutte le sue opere (o quasi) tematizzano il problema della malattia e della convalescenza, e non solo perché questa riflessione era alimentata dalla particolare vicenda di N. stesso, soggetto a continue ricadute (fino alla follia/morte), ma anche perché il pensare stesso era a suo avviso attraversato da momenti di malattia e di buona salute “la festa del pensiero”). Su due piedi (giusto per fare un rimando) mi viene in mente la prefazione alla seconda edizione de La gaia scienza. Pagine incredibili.
Inutile aggiungere qualcosa. Io ho iniziato con Perturbamento (per poi piacevolmente soccombere a Il soccombente), ma all’epoca avevo delle fisse. I volumi autobiografici sono un bel biglietto da visita. Poi, come dire, da cosa nasce cosa.
Grazie caro, intanto comincerò con l’autobiografia, poi mi sa che un giorno perturberò e magari soccomberò anch’io 😉
@Tommaso
Curioso! Nel corso di questi mesi mi è capitato più volte di inciampare, per un motivo o per un altro, ne La gaia scienza . La sincronicità junghiana sembrerebbe dunque suggerirne, anzi caldeggiarne la lettura. Un saluto e mille grazie 🙂
Sembrerà assurdo, ma io sono arrivato alla Sincronicità (non letto ma preso di mira) attraverso la lettura, sempre di Jung, de L’archetipo della madre. Un saluto a te.
Anzi, meraviglioso. Meraviglioso come, per giungere ad un medesimo punto, si seguano strade così diverse,tra le infinite presenti nell’Universo (che altri chiama la Biblioteca) ;-).