Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Questo pomeriggio, dopo tre anni, ho incontrato Vinnie e, nemmeno io so bene perché, appena arrivato a casa mi sono chiuso in bagno a piangere.
Vinnie è un nome di fantasia, però Vinnie esiste davvero ed è un uomo bello e colto e sano, di trentotto anni, proprio come me. Per me è stato come un fratello, con tutto quello che comporta l’avere un fratello, essere fratello. Vinnie è decisamente una delle persone più brillanti che io abbia mai conosciuto, ma non brillante nel senso comune del termine. Era tutto fuorché uno alla Gatsby, e anche se poteva permettersi di essere e diventare qualsiasi cosa avesse desiderato, la sua tendenza al mutismo e al farsi pressoché invisibile lo rendevano una sorta di gigante in borghese. Io e Vinnie ci conoscevamo dai tempi del Liceo. Frequentavamo lo stesso Istituto, non la stessa classe. Avevamo scelto due facoltà diverse – lui Architettura, io Filosofia. Eppure io e Vinnie passavamo moltissimo tempo insieme: salivamo sugli stessi mezzi pubblici, andavamo al cinema, suonavamo nella sua stanza, bevevamo e fumavamo, studiavamo insieme e così via. Il tempo con lui era tempo al quadrato, al cubo, era tempo elevato all’ennesima potenza. Non ho mai capito perché ne passasse così tanto con me e non ho mai trovato il coraggio per chiederglielo in modo diretto. Negli anni ho avanzato diverse ipotesi, che però terrò per me. Vinnie, a un certo punto, aveva smesso di rivolgermi la parola, poi, sempre senza una apparente ragione, non aveva più voluto avere nulla a che fare con me, ed io non sono mai riuscito a farmene una ragione.
Vinnie ha sempre avuto questo problema del parlare, solo che questa stortura del suo carattere – a tratti inquietante – non aveva mai direttamente investito me: Vinnie è stato in assoluto l’essere più silenzioso che io abbia mai incontrato, persino più di mio nonno, un vecchio siciliano che essenzialmente comunicava con i suoi occhi azzurri da normanno, il naso grande da arabo, le enormi mani da operaio specializzato. Riusciva a fare la spesa, tutte le mattine, senza dire una sola parola. Mio nonno sapeva sorridere e portare la calma tutto intorno a sé e per il bambino nervoso che sono stato era una sorta di farmaco senza controindicazioni. Mio nonno è stato il mio modello ed ideale, mio padre il suo negativo da allontanare il più possibile. Da quando è morto, ho sognato mio nonno una volta sola. In quel sogno mi invitava a sedermi a tavola prima che il pranzo si freddasse. Mi ero svegliato non appena mi ero reso conto che la mia pasta con le zucchine era insapore ed inodore. Il senso di quel sogno, se mai i sogni ne hanno uno, mi è sempre stato ignoto. Vinnie, esattamente come mio nonno, sapeva comunicare senza parlare e questo era uno dei motivi che lo avevano reso così importante per me. Vinnie, da che lo avevo conosciuto, aveva sempre avuto questo maledetto problema, e questo problema andava facendosi di anno in anno più serio. Non ricordo che abbia mai preso per primo la parola. Ai bei tempi si limitava a rispondere a chi gli si rivolgeva, ma mai una volta che avesse dato inizio ad una conversazione o fosse intervenuto in una discussione. Parlava solo se direttamente chiamato in causa. Col tempo questa sua tendenza diventava sempre più un vero e proprio impedimento. Vinnie attirava le donne come un secchione stracolmo di immondizia sa fare con randagi e ratti e insetti schifosi. Però non parlava, o quasi. E insomma, questo creava tutta una serie di malintesi. I casi erano due, o le donne se ne andavano incazzate ed io ci rimanevo come uno stronzo, oppure ne rimaneva solo una, quella più temeraria, e la temeraria rimaneva immancabilmente per Vinnie, non per me. Gli chiedevo spiegazioni. Nemmeno mi guardava, mentre mi rispondeva che, fra i molti motivi (senza considerare che lui, alla fine, rimediava sempre), lo sapevo benissimo, c’era anche quel suo difetto di pronuncia, quel suo esitare nel parlare. E non valeva a nulla rispondergli che era tutto falso, una scusa, e che quel suo “difetto” e quel suo “esitare”, se proprio insisteva, erano al più cose del passato e che nel presente non se ne vedeva traccia alcuna. Vinnie sorrideva. Un trucco, il suo. Era solo un trucco, non era stato eliminato niente e il presente era, al contrario, da considerare in blocco una traccia di quel passato cui non voleva nemmeno pensare. Il suo giochetto era ben celato solo agli occhi, anzi, alle orecchie dei meno esperti, ma lui sapeva che in giro c’erano un mucchio di persone che avevano imparato i suoi stessi giochetti, e cosi come lui smascherava loro, loro erano in grado di smascherare lui, di fiutare la traccia e risalire al difetto e lui, quel difetto, non lo poteva sopportare.
Quando Vinnie non ha più voluto avere niente a che fare con me sono rimasto lì a chiedermi perché, ma non riuscivo a trovare una risposta che avesse davvero senso.
La cosa si era fatta sempre più complicata, nel tempo. Per discutere la tesi di laurea aveva preparato un progetto grandioso che gli era costato mesi di lavoro in cui non era praticamente più uscito di casa, se non per questioni direttamente riconducibili alla sua carriera universitaria. Si limitava a parlare al telefono con poche persone, per gli altri semplicemente non esisteva. Quando poi era dovuto uscire di casa per presentarsi di fronte ad un “pubblico” in cui le persone veramente fidate erano poche, c’eravamo tutti accorti – e con “tutti” intendo quei pochissimi che ancora avevano una qualche relazione con lui – che aveva sostanzialmente disimparato a parlare. Discusso il progetto, Vinnie non aveva più detto una sola parola. Per la prima volta si rifiutava – o forse non ne era più in grado? – di rispondere a domande o di sostenere anche la minima conversazione. La madre di Vinnie, che era orfano di padre da quando aveva sette anni, s’era messa a piangere davanti a tutti noi ed era scappata via rovesciando tutti i flute in precario equilibrio sul tavolino pieno di porcherie varie, mentre Mary e Danny, rispettivamente sorella e fratello del mio più caro amico, erano in imbarazzo ma non sorpresi per l’accaduto. Avevo chiesto spiegazioni e sul momento ero venuto a sapere che Vinnie già da un paio di mesi non parlava più con Danny e che con la madre e la sorella parlava solo se si chiudevano a chiave in camera sua. Mentre mi dicevano quelle cose, Vinnie era seduto accanto a me, elegante ed in splendida forma, e mi chiedeva – con gli occhi, si intende – sventolando i progetti al vento che soffiava forte e freddo sul piazzale della facoltà, se avesse fatto centro. Certo che si. Aveva parlato come sempre parlava una volta che si decideva a farlo. Era stato semplicemente sbalorditivo. Tutti noi avevamo capito quello che diceva, le sue idee si materializzavano in linee di forza, volumi, nuove forme di equilibrio. Le sedie, i tavoli, le pareti non erano più quello che erano sempre stati, le nostre ingenuità venivano dolcemente spazzate via, i nostri occhi finalmente vedevano e tutto questo avveniva grazie alle sue parole (e insieme alle sue parole, purtroppo, questa nuova consapevolezza doveva svanire)…il divenire delle cose e il permanere di qualcosa di immutabile all’interno di quel divenire erano al centro del suo progetto, che doveva rappresentare, nella e per mezzo della forma d’un edificio, il movimento delle cose stesse. A quel punto, però, buona parte degli uditori doveva aver perso il filo del discorso, ma non io, non io che gli ero alle costole, intellettualmente. L’aula magna era piena di persone arrivate lì solo per ascoltare lui che, però, non si accorgeva di nulla.
Quante volte avevo detto a Vinnie: “Parla, ti prego”. Ma lui no, quelle idee cui io facevo riferimento, sentiva di perderle del tutto, una volta che iniziava a parlare, dato che quel vago timore per il suo preteso difetto di pronuncia era una sorta di basso-continuo che assorbiva tutta la sua attenzione e le sue energie, ed era in grado di irretire persino le sue facoltà intellettuali. Ed era per questo che anche la sola idea di parlare e poter continuare ad avere determinate (feconde) idee era qualcosa che andava oltre il pensabile, oltre un orizzonte piuttosto inquietante che era (suo malgrado) una catena montuosa di idee altissime e spigolose coperte di neve e nubi capaci di indurgli una certa ansia di rimando che andava a creare (insieme all’ansia di partenza) un circolo vizioso da cui faticava a tirarsi fuori. Dunque, dato che questa idea (sic!) non gli andava a genio, due erano le possibilità: o aveva dei discorsi preconfezionati, preparati a tavolino (uno dei tanti meravigliosi esempi di quello che Vinnie era in grado di fare – dire – era stata proprio la discussione della tesi), oppure era meglio far silenzio, il più possibile, e mostrare agli altri quello che sapeva fare (e cioè i suoi progetti, dato che era un vulcano di idee), prendendo posto in quello che lui sosteneva essere un “altrimenti che dire”. Io lo guardavo perplesso e con sempre maggiore fatica mi prestavo al solito giochetto: il suo non era un “altrimenti che dire”, ma un “dire altrimenti”. Vinnie mi guardava per un istante, poi mi invitava con gli occhi a prendere la chitarra e ad accordarla, mentre lui si schiariva la voce per cantare. Già, perché Vinnie canta(-va) da dio, e cantare, per lui, era un modo per non parlare.
Intanto i mesi passavano ed io, meno capace di lui in tutto, andavo avanti. Nel mondo, si intende. Avevo trovato un lavoro (interessante, ma non troppo), un monolocale arredato (accogliente, ma non troppo), una donna (amabile, ma non troppo). Vinnie, invece, era rimasto fermo – rispetto alle cose del mondo, si intende. Dopo la discussione della tesi, aveva smesso di parlare anche con me. Mi spiego meglio, mi parlava solo ed esclusivamente al telefono, ma di persona non più. Per quello c’erano la madre e la sorella. Con me parlava al telefono, nessun altro poteva avere il privilegio di sentirne la voce. Vinnie mi stava facendo ammattire con tutta quella storia. Mi piazzavo sotto casa sua, anche se mi aveva fatto esplicitamente ed adorabilmente capire che non desidera più nemmeno le mie visite. Aspettavo che qualcuno aprisse il portone e così mi piazzavo sul suo pianerottolo nella speranza che qualcuno aprisse la porta per uscire o arrivasse salendo le scale, di ritorno da un qualche impegno in quello stesso mondo che Vinnie, pazzo maledetto, rifiutava con tanta superbia. Quando Mary o Danny mi trovavano piantato lì sul pianerottolo, pieno di spavento, sbuffavano infastiditi e impietositi al tempo stesso. Diamine, mi sentivo tipo un cane abbandonato che aveva miracolosamente ritrovato la via di casa. Ma era grazie a questa dedizione che quella porta si schiudeva, per me solo. Facevo irruzione nella stanza di Vinnie e lo trovavo a lavorare, piegato su quel piano inclinato che, dopo anni e solo dopo aver smesso di parlare del tutto, aveva deciso di sistemare proprio davanti alla finestra. Vinnie mi accoglieva sorridendo, alle volte infilava le scarpe e mi invitava ad andare a fare una passeggiata o a bere qualcosa. Mi sorprendeva sempre, Vinnie. Io parlavo, lui mi rispondeva scrivendo sul taccuino che sempre si portava dietro. Questa storia era andata avanti per non so quanto tempo, ma era qualcosa che puzzava di eternità. Nel senso che quell’uomo sarebbe stato in grado di andare avanti a quel modo senza soluzione di continuità. Vinnie si comportava come se fosse tutto normale, ma non lo era affatto. Glielo ricordavo ogni volta che riuscivo a superare tutti gli ostacoli che mi separavano da lui, per incontrarlo. Mi scriveva che aveva scoperto quanto gli piacesse scrivere, oltre a tracciare linee e fare calcoli. Continuavo a ripetergli che tutta quella storia non era normale, e lui, alla fine, aveva cercato di inchiodarmi al fatto che io per diversi anni – almeno fino alla fine del Liceo – avevo spesso comunicato in quello stesso modo, e non con una persona qualsiasi, ma con mio padre. Era vero, ma noi avevamo i nostri buoni motivi. Io e mio padre non amavamo stare contemporaneamente nella stessa stanza e non ci salutavamo mai; eravamo soliti guardarci per un istante negli occhi, se ci incontravamo, come i gatti randagi quando si incrociano per strada. Se proprio non ne potevamo fare a meno, allora ci lasciavamo dei biglietti sul piano della scarpiera che occupava lo spazio vuoto fra la porta della sua e della mia stanza. “Questo, però, non è un argomento stringente, caro il mio Vinnie”, gli avevo risposto, scoprendomi per la prima volta a mostrare i denti con lui. Sapevo che Vinnie aveva cercato a lungo quel momento, eppure, arrivati a quel punto, non potevo proprio tacere. Mi stupivo che lui, tanto intelligente, venisse lì a tirarmi fuori un argomento del genere, un pettegolezzo che io stesso avevo messo in giro. Mio padre era un pezzo di merda. Punto. O forse tutti noi, io stesso, eravamo dei pezzi di merda ai suoi occhi? Diamine, qualcuno l’aveva mai forse pestato senza un valido motivo? Era mai stato insultato, cacciato da tavola e costretto a mangiare sulle scale del pianerottolo di casa, obbligato a stringere le gambe su gradini gelidi per far passare i condomini che abbozzavano un sorriso e un “buon appetito” prima di scappare via? Qualcuno gli aveva mai detto che era poco dotato o piccolo di statura e ridicolo e che quando parlava non si capiva un cazzo di niente di quel che diceva perché il filo dei suoi discorsi si rompeva di continuo e le parole gli uscivano dalla bocca in ordine sparso come le perle d’una collana strappata via? No che non si era mai trovato in una situazione del genere, lui, ed era per questo motivo che non poteva permettersi di trattarmi a quel modo. Allora Vinnie mi aveva dato il colpo di grazia. Aveva scritto, con la sua bella calligrafia, che io sapevo benissimo perché lui avesse deciso di togliere la parola anche a me. No che non lo sapevo. Si che lo sapevo, aveva scritto, e se non lo avevo capito era ancora peggio – per me, si intende. E non era valso a nulla chiedergli scusa per come gli avevo parlato un attimo prima e che ero pronto a capire se solo lui avesse avuto il buon cuore di aprirmi gli occhi con il suo sapere. Mi aveva lasciato lì che piangevo come uno stronzo e se n’era andato.
Tutto questo era accaduto pochi giorni prima del mio matrimonio. Mi ero sposato pensando a Vinnie e a cosa avessi potuto fargli di tanto orribile. Poi il viaggio di nozze: una tremenda settimana in Messico. Per fortuna una forma piuttosto severa di dissenteria mi aveva aiutato a dissimulare di fronte a Cloe la mia nostalgia, la mia incredulità per un castigo cui non riuscivo a far corrispondere un vero e proprio delitto.
Per tre anni – anche se sempre con minore intensità, si intende – ho continuato a rimuginare sulla cosa e, alla fine, ero giunto alla più ovvia e ragionevole delle conclusioni. Vinnie era una persona incredibile, però era matto, completamente matto. Così ero convinto di aver messo il punto sull’intera faccenda. Sbagliavo.
Ieri ho incontrato Vinnie. Passeggiavo con Cloe, dandole il braccio per non farla affaticare troppo dato che è al nono mese di gravidanza. Avevamo appena deciso di sederci per mangiare qualcosa quando l’ho visto. Era lui, Vinnie, ed era proprio dall’altro lato della strada, appena uscito da un grande portone, di quelli antichi come se ne trovano solo al centro. Non era cambiato in nulla. Ho fatto accomodare Cloe sulla prima sedia libera lì sull’ampio marciapiedi pieno di turisti seduti a bere e a mangiare. Cloe mi ha pregato di lasciarlo perdere, ma a me serviva un minuto, un solo minuto. Dopo anni ho nuovamente pronunciato il suo nome. Vinnie si è voltato lentamente. Lo pensavo, mi piaceva pensarlo, lo confesso, chiuso a marcire nella sua stanza, a saltare come un pazzo sul letto, a tracciare linee sbilenche sul suo piano da lavoro, a giocare con i suoi escrementi, con la madre stanca e i fratelli disgustati che lo evitavano, la lingua atrofizzata, il cervello andato in malora come un vino pregiato e mal conservato che si fa aceto. Sbagliavo. Per quel portone si andava al suo studio, la targa ne dava lucente testimonianza. Uno studio lì, in quel posto? Vinnie aveva davvero fatto centro. Mi aveva stretto la mano, poi aveva scambiato un paio di battute con una donna di passaggio. Sentivo nuovamente la sua bella voce che non ero più riuscito a rievocare. Mi veniva da piangere. Non appena s’era accorto di Cloe aveva attraversato la strada per salutarla. Le aveva fatto gli auguri e toccandole la pancia quel figlio di puttana lì dentro gli aveva subito risposto e dato soddisfazione con un calcetto. Un calcetto, ma cristo santo. Cloe aveva abbassato lo sguardo. Le facevo pena. Vinnie aveva impiegato meno d’un minuto per riprendere le sue antiche dimensioni da gigante. Mi sentivo morire. Dovevo dire qualcosa, e subito, ma adesso ero io che proprio non potevo parlare, mentre lui doveva assolutamente andare. Aveva salutato nuovamente Cloe, cortese, solo con lo sguardo, poi, sempre nel più assoluto silenzio, aveva salutato me e se ne era andato.
Vinnie, per il solo fatto di esistere, ha avvelenato la mia esistenza. Ha ridotto a barzelletta i miei successi al Liceo, la sua ombra ha portato il gelo sulla mia intera carriera universitaria e sul mio lavoro. La sua presenza nel mondo mi ridicolizzava di fronte a Cloe e la sua assenza aveva reso povere e grigie le nostre nozze. Perfino al mio primogenito ha avuto accesso; persino lui, ancora nel ventre della madre, è stato sedotto dalla potenza di Vinnie. Lui che sembrava finito è invece vivo, più vivo e potente che mai, mentre io mi sento sul punto di morire. Adesso Cloe è sul divano a praticare la respirazione per il dolore delle contrazioni che vanno e vengono. Tiene il tempo con l’orologio, segna tutto su un foglio di carta, mentre io, invece di essere con lei, mi sono chiuso in bagno. E lo sa benissimo, Cloe, che la mia non è una crisi dovuta la fatto che il nostro bambino sta forse per nascere e che il borsone per l’ospedale è già in macchina. Cloe sa che sono qui pieno di rabbia e di invidia e che questa rabbia e questa invidia mi hanno tenuto per anni incatenato a Vinnie, sempre pronto ad assistere ai suoi prevedibili trionfi pur vivendo nella speranza di poter essere, un giorno, spettatore d’un suo improvviso fallimento.
Sento i passi di Cloe. Sta venendo qui da me. Cerco di scacciare i segni della disfatta dal volto e apro la porta. Cloe mi indica la sua pancia, “Guarda”, poi mi invita a guardarla nella sua interezza, il suo volto, il seno e i fianchi. Stringe i denti per poter sopportare il dolore, “Guarda”; mi prende per mano e mi trascina per casa, mi indica i mobili, gli scaffali stracolmi di libri, prende le mie carte, i miei appunti, “Guarda”; mi porta nella stanza del nostro bambino, del bambino che è sul punto di nascere, “Guarda”; mi riporta in bagno, davanti allo specchio, mi obbliga ad incontrare il riflesso del mio volto, l’ampiezza della mia fronte fatta per ospitare qualche idea da conservare con cura, “Guarda”. Cloe vuole che io guardi e tenga a mente tutte quelle cose, vuole che io riconosca una volta e per tutte il valore di quello che mi circonda, che io ho creato. Mi piacerebbe tanto poter vedere tutto quello che lei vede e che sicuramente c’è, solo che io guardo e guardo, ma non vedo un bel niente, non ne sono mai stato capace. Ma io questo non posso proprio dirglielo, a Cloe, figurarsi adesso che si sta piegando in due per l’ennesima contrazione. La invito a respirare e respiro con lei, ma con gli occhi chiusi, perché non c’è nulla da vedere.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Sto rimuginando. Su questa case-history (la chiamo così perchè mi viene facile).
In sintesi è il rapporto tra un protagonista, l’io narrante, e l’amico. “A” maiuscola. Come capita in effetti realmente negli anni dell’adolescenza. Rapporto che l’inizio del post illustra magnificamente. E anche la controparte, Vinnie, si staglia a tutto tondo. Con l’addentrarsi nella maturità dei due, protagonista e Amico, si delinea una doppia patologia. Vincente quella dell’Amico al punto di esacerbare la patologia del protagonista e distruggerne e azzerarne la personalità. Ecco, lo sviluppo a seguire l’adolescenza, è come l’ho riassunto?
Esattamente. In realtà questo post è il risultato di un errore, o mia incapacità. Da principio (e cioè dopo la lettura di un libro poco interessante che però mi ha spinto a riportare alla mente un vecchio adagio + a ripensare sotto una diversa prospettiva un caso spinoso a lavoro) doleva essere qualcosa come una (volutamente) asettica descrizione di alcuni degli aspetti più importanti della comunicazione. Non essendone capace ho pensato di inventare un’intervista con un certo Vinnie, poi quel nome, buttato lì a caso, ha fatto il resto. Dopo due ore di lavoro mi sono ritrovato fra le mani questa cosa. L’idea di averle perse (quelle due ore) mi dava quantomeno fastidio e così, anche se in questo spazio preferisco non lasciarmi andare a “certe pratiche” ho deciso di lasciarlo andare. E difatti l’ho postato subito ieri sera (cosa che non faccio mai, preferisco la mattina), questa mattina, ne sono certo, avrebbe ricevuto un rifiuto…ci dispiace ma la linea editoriale. ..
Non parlerei di incapacità, la riprova che incapacità non c’è, è la coscienza di eventuali parametri. Dico: eventuali, perchè anche nel tuo scritto, è da vedere, se realmente non sono stati rispettati.
E quanto al termine “errore”… auto-assolviamoci con l’alibi della passionalità, debolezza umana di cui nessuno – nessuno – è esente, e a cui tanto più sono esposti gli innamorati in genere, e quindi anche della scrittura.
Mi confermi un assioma cui la pratica mi ha condotto, e cioè: gli scritti nascono prima di tutto dentro e la loro venuta alla luce non è che una prima stesura cui altre, e più d’una, non possono non seguire, frutto di ulteriore maturare… dentro.
Come tu dici: ci dev’essere di mezzo una notte.
Il blog poi è una trappola, perfida alleata della passionalità: un post è un attimo… basta schiacciare un tasto e vai!
Mi ricordi che chi scrive dev’essere generoso e avaro.
Dare e dare senza chiedere, ma non buttare via niente nel contempo.
Il tempo matura le nespole, vecchio proverbio. Aggiungo: a patto che non siano finite nel frattempo nel pattume.
Tienitelo caro questo post. 🙂
A questo punto sono spalle al muro. Come suggerisci tu, me lo terrò caro, questo post. E poi si, lo penso anche io, non si butta via niente. Queste “pratiche” non possono, a mio avviso, prescindere da una necessaria attività di riciclo, ma anche di riciclaggio, se la scrittura serve a far circolare, dopo esser stati adeguatamente”ripuliti”, “prodotti” di origine spesso inconfessabile.
Profondamente evocativa, direi, questa pagina.
Le suggestioni sono molteplici, tra il letterario e il personale.
Più bello è ‘l tacer che ‘l dire, naturalmente.
Io credo che l’amicizia sia un sentimento molto più profondo, contraddittorio e “inconfessabile” di quello che sembra,(come tu giustamente lo hai rappresentato), ma sono d’accordo con Cicerone: non so se dagli dèi ci sia mai stato fatto dono più grande.
Grazie. Si, l’amicizia è certamente fra i più grandi doni e la sua origine divina la rende così piena di contraddizioni e così difficile da gestire per noi, umani, troppo umani.
Devo sedimentarlo, l’amicizia, l’adolescenza, il suo perdurare come incertezza su di sé e sui rapporti, ciò che riconosco come storia personale (e personale vuol dire mia tua nostra loro…). Deve essere uno scritto molto riuscito, dato che sto rileggendo e rileggo, a pezzi, tornando sulle frasi, sui blocchi di discorso.
Mi piace
Grazie. Devo confessarlo, nei (necessariamente pochi) rapporti di amicizia che ho avuto e che ho osservato (anche come parte in causa) mi sono trovato davanti a dinamiche pazzesche; come non ne ho viste – per profondità, latenza ecc – in altri tipi di relazioni, tipo lavorative o amorose.