Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Natale #6. Gianni Rodari, Il pianeta degli alberi di Natale

I nostri baldi scolaretti hanno ragionato così: i sereniani arriveranno qui, vediamo, fra vent’anni. Dunque, quelli di loro che saranno a quell’epoca esploratori, astronomi, astronauti, fisici, generali, capi di Stato e compagnia bella, oggi come oggi sono ragazzini delle elementari, né più né meno di noi. Con chi dobbiamo dunque metterci d’accordo? Non con i governi che passano, ma con la quinta H di Tokio; la quinta H del Testaccio di Roma, la quinta H di Gavirate, eccetera eccetera. (Quei diavoli sono forti in geografia sereniana). E siccome noi siamo stati, in passato, abbastanza ingenui da dotare le nostre scuole di laboratori di astronautica, serviti da robot elettronici di prim’ordine, eccetera, i nostri marmocchi hanno cominciato a produrre cavalli a dondolo spaziali in tutto simili a certi cavalli di cartapesta molto ricercati sulla Terra come giocattoli e doni di Natale.

Non bisognerebbe mai stancarsi di ripetere – prendendosi il rischio di sembrare dei pedanti pappagalli – che Gianni Rodari appartiene a quella schiera di scrittori, a dire il vero esigua, che sono stati capaci di restituire dignità e bellezza alla letteratura per l’infanzia, creando libri che, fra le altre cose, fanno bene anche a quegli adulti che lo scoprono per la prima volta o che lo rileggono a distanza di anni, concedendosi la possibilità di trarne, oltre ad una legittima dose di svago, anche qualcosa di ulteriore.

Ne Il pianeta degli alberi di Natale, Marco, il giovane protagonista, si ritrova catapultato in un avventuroso viaggio spaziale a bordo del cavallo a dondolo che il nonno (che regalo assurdo, aveva pensato Marco, che reputava quel dono degno di un moccioso) gli aveva regalato giusto il giorno prima, il 23 ottobre, giorno del suo nono compleanno. In viaggio – suo malgrado e non si sa come – direttamente dal Testaccio (Roma), Marco si porta dietro tutto il carico di ironia e sfrontatezza e buon cuore della domenica tanto tipico dei romani; e, avendo nove anni, non dimentica a casa neppure quella voglia di parer grande tipica di chi grande non è, ma che faticosamente si prepara a diventarlo: “…per far onore al Testaccio, e a Roma tutta, non bisognava mostrare meraviglia e rispose al saluto con un breve mugugno“. Catapultato in questo viaggio sul cavallo a dondolo, vestito solo del suo pigiama, Marco si troverà su un pianeta nuovo e bizzarro, abitato da uomini e donne e bambini tanto simili, eppure così diversi…lì dovrà imparare che si può vivere/pensare diversamente. Riuscirà?

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– Capitano, un uomo in cielo…

– Da che parte?

– Dalla parte della coda, signore.

– Presto, datemi un trinocolo.

Questo scambio di battute segna il primo avvistamento di Marco nello spazio. L’uomo, e cioè il bambino, non è in mare, ma in cielo, ed è stato avvistato dalla parte della coda (e non a prua o poppa o cose del genere), perché l’equipaggio che lo avvista è a bordo d’una navicella spaziale, anch’essa a forma di cavallo. Tutti i membri dell’equipaggio, compreso il capitano ex Paulus (ex perché stufo del vecchio nome, Paulus per l’appunto, ma ancora alla ricerca di uno nuovo che gli piacesse), sono in pigiama. Per quanto concerne il trinocolo: è, in buona sostanza, un binocolo perfezionato con l’aggiunta d’una terza canna per guardare alle proprie spalle. Così, all’insegna di queste prime bizzarrie, inizia il viaggio di Marco su questo nuovo pianeta di cui al principio non comprenderà niente e che lo metterà di fronte non solo a situazioni assurde, ma anche a prove da superare. La prima e più importante prova sarà quella su come affrontare gli “arcicani“, enormi cani volanti e fastidiosissimi, capaci di render quasi sordi col loro assordante abbaiare. La soluzione più immediata di Marco è non solo quella più ovvia per un “sereniano” (così vengono lì chiamati gli abitanti della Terra, che ha per nome Serena), ma anche la più sbagliata per qualsiasi abitante del pianeta degli alberi di Natale.

Ucciderli, distruggerli, sterminarli, annientarli. Non ce l’avete il raggoi mortale? E le pistole disintegratrici?

Il comandante dell’astronave, per tutta risposta, gli dirà che su quel pianeta capiscono tutto quel che dice, ma che la parola “ammazzare” no, quella proprio non la conoscono, semplicemente non esiste. Molte cose dovrà imparare questo ragazzo del Testaccio, prima di tutto il bizzarro calendario in uso in quel pianeta: lì è sempre il giorno di Natale e lì in tutti i vasi sono piantati dei piccoli alberi di Natale. E poi ci sono palazzi costruiti appositamente essere distrutti, per lasciare alle persone la libertà di dare sfogo a certi impulsi: lì si va per spaccare tutto, quando se ne sente il bisogno: così la voglia di litigare delle persone, adulti e bambini, scompare per anni, se non, in alcuni casi, per sempre. E non è un caso che in quel paese, per le strade, tutti sono sempre sorridenti e di buon umore. E poi ci sono panchine e marciapiedi mobili e i negozi sono senza vetrine e di soldi non ce n’è: lì tutti possono avere quel che desiderano e perciò tutti desiderano solo quello di cui hanno veramente bisogno. Non c’è traccia di avarizia perché nessuno può diventare più ricco, nessuno più povero; e perciò non esiste il furto, e il concetto di proprietà viene pensato non come puro ed esclusivo possedere un qualcosa, ma come più un  temporaneo utilizzo di ciò che è legato ad un verace bisogno. Non esiste la parola “pagare” nel senso di uno scambio merce/denaro, perché lì le cose vengono più donate che vendute. Marco mangia “tristecche ai ferri” e “rubinetti fritti“, vengono servite “corna di lumache, forchette lessate…“. Ci sono muri su cui si può scrivere e lasciare messaggi. E poi ci sono quelli che raccontano le favole della buonanotte, proprio come facevano le nonne una volta, e non funziona come su Serena, dove c’è la televisione. Marco è sempre più sorpreso per quello che vede e la sua personale guida in questo strano mondo, un bambino della sua età di nome – guarda un po’ – Marcus, ha molto da spiegare e rettificare. Troppe cose insieme, anche se belle ed entusiasmanti, mandano in confusione il nostro giovane protagonista, e il fatto poi che non ci siano dei “grandi” sempre pronti ad imporre regole, prescrizioni e divieti, manda Marco in agitazione: in quel mondo non c’è neppure un vero e proprio governo, prima di tutto perché non succede mai nulla di grave (ricordiamo che lì non esiste il furto, tutti sono di buon umore, il clima è sempre bello) e poi perché non c’è traccia di sete di potere e privilegi. Marco, però, troppo abituato al suo mondo, non riesce a tollerare tanta libertà (di agire e pensare – sempre bene).

Si sarebbe rivolto volentieri a qualcuno per avere delle spiegazioni. Ma a chi? Non si vedevano guardie, né vigili urbani: non una divisa qualunque che facesse pensare alla presenza di una qualsiasi autorità.

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Quando è che Marco potrà e sarà pronto per tornare a casa? Beh, quando avrà imparato a risolvere non da sereniano alcuni problemi fondamentali che questo mondo gli pone. Il punto di svolta si dà quando il ragazzo riesce finalmente ad affrontare in modo nuovo il problema degli arcicani, che questa volta tenterà di risolvere senza ricorrere alla violenza, a raggi mortali e cose del genere…

Ma perbacco, possibile che non sappiate far stare zitte quelle bestiacce? Sono degli arcicani? Dategli degli arciossi: vedrete che, tempo dieci minuti, vi verranno a leccare la mano.

Per l’invenzione della parola “arciossi“, la “parola che mancava”, una parola all’insegna della pace, a Marco verrà dedicato un monumento. Certo, anche qui nello stile caratteristico del posto: un monumento di neve che presto scioglie al sole per lasciar spazio ad altri monumenti – ognuno dovrà avere il suo, prima o poi. Marco, superando brillantemente l’ostacolo rappresentato dagli arcicani ha dimostrato, dando prova di aver dimenticato il verbo “uccidere“, di essere finalmente pronto a far ritorno al suo amato Testaccio. Fra venti anni, o quando verrà il momento, il Marco ormai adulto che si troverà a sbarcare sul pianeta degli alberi di Natale dopo un lungo viaggio spaziale, sarà capace di stringere amicizia con quel popolo, in grado di usare un vocabolario che al suo interno non contemplerà parole come “uccidere”, “ammazzare” e cose del genere. Il ritorno di Marco al Testaccio, però, segnerà l’inizio di un impegno quotidiano volto a trasformare, già da subito, i giovani abitanti di Serena, o Terra.

La Terra cambierà nome, – gridò Marco allegramente, montando a cavallo – Si chiamerà il “Pianeta degli alberi di Natale”, vedrete.

Scritto per i più giovani, ma adatto anche per chi ha qualche anno in più, questo romanzo (arricchito da una seconda parte in cui vengono raccolte preziose informazioni sul calendario in uso in quel mondo, ma anche poesie di ogni genere) può essere letto da molti punti di vista. Quello primario, laico direi, è diretto alla definizione del lungo e necessario lavoro per la formazione di un cittadino capace di coltivare la tolleranza e l’amicizia, di opporsi alla violenza e alla retorica individualista. Il pianeta degli alberi di Natale è il luogo dove, pur nel paradosso e per mezzo dell’ironia, tale idea viene realizzata non come sogno d’un giorno (quello di Natale, appunto), ma come dato di fatto (che a tratti, forse, è difficile da tollerare proprio in quanto ideale realizzato). Eppure questa storia è un bell’esercizio anche per l’adulto, magari perché può servire a ricordargli che può abitare diversamente il mondo, ma anche il pensiero e, di conseguenza, le parole stesse.

Una volta un signore / andò ad abitare / nella parola “palazzo”. / Non c’erano muri / e tirava vento. / Non c’era il tetto / e pioveva dentro. / Allora quel signore / si provò ad indossare / la parola “cappotto”, / ma l’acqua e la tramontana / ci passavano sotto. / Quel signore / si prese il raffreddore. / Per tutta una settimana / si curò con la parola “medicina” / (due cucchiaini la sera / e due la mattina). / Però in definitiva / se non correva la Croce Rossa / a quest’ora davvero / era bell’e sepolto / nella parola “cimitero”.

11 commenti su “Natale #6. Gianni Rodari, Il pianeta degli alberi di Natale

  1. ysingrinus
    dicembre 30, 2015

    Grandissimo scrittore Rodari!

  2. Alessandra
    dicembre 30, 2015

    Che bella storia, fantasiosa ma ricca di significati preziosi. Mi hai dato un ottimo spunto per un prossimo regalo…

    • tommasoaramaico
      dicembre 30, 2015

      Si. Ho ripreso in mano questo libro per altri motivi e alla fine mi sono trovato – lo ammetto – a rileggere più e più volte le poesie (di cui il finale è un piccolo ma gustoso assaggio).

  3. Pingback: Natale #7: Pier Vittorio Tondelli, Ragazzi a Natale | Tommaso Aramaico

  4. Ivana Daccò
    gennaio 3, 2016

    Eppure, quanta gente si perde tanto, per non dire tutto, non leggendo libri che, qualcuno, imbroglione, cataloga: ‘per l’infanzia’. Credo pensino che l’infanzia sia qualcosa da superare, invece che da maturare, per gustarla al massimo. E si perdono, senza saperlo, il più bello di qualsiasi libro bello. Mangiano frutta acerba per tutta la vita.

    • tommasoaramaico
      gennaio 4, 2016

      Hai ragione. Ed io, fino a qualche tempo fa, ero irretito nella stessa ingenua convinzione. Poi, per caso, mentre cercavo non ricordo cosa fra i libri lasciati dai miei genitori, mi sono imbattuto in vecchi libri illustrati che avevo dimenticato. Pinocchio, Alice, Isola del tesoro, tutti ancora ben conservati e con le splendide dediche (e si rinnovava il mio infantile stupore di fronte a quella calligrafia perfetta – ma come fa) della maestra Anna che spiccavano all’interno. Allora ho messo da parte certe letture “impegnate” per impegnarmi in altre letture cercando d’essere “buono e bravo” e seguire i suggerimenti della maestra.

    • Guido Sperandio
      gennaio 4, 2016

      Vero, verissimo!Sono arrivato anch’io alle stesse conclusioni 🙂

      • Guido Sperandio
        gennaio 4, 2016

        Giusta l’osservazione di Ivana corroborata anche dalla tua esperienza.
        Anch’io da tempo mi sto domandando se i libri cosiddetti per l’infanzia siano tali. E se non sia il caso di superare la distinzione. (Esopo, per esempio, è davvero per bambini?)

      • tommasoaramaico
        gennaio 4, 2016

        La distinzione sarebbe sensata solo se una corrispondente distinzione fosse reale in noi in quanto esseri umani e in quanto lettori. Il che mi pare del tutto improbabile. L’animo umano è strutturato per stratificazioni e ciò che è passato non è di per sé cassato, bensì conservato ed operativo…i suoi “fumi” o “esalazioni” influenzano gli strati successivi, quelli dell’adulto. Stessa cosa per il lettore. Non vorrei sembrare (lo sembrerò) patetico, ma l’ansia di mio figlio mentre gli leggo una storia non è poi così diversa o più ingenua rispetto alla mia, anzi. L’anziano non ha 90 anni, ma è i suoi 90 anni, tutti, nessuno escluso, per questo il bambino può e deve rappresentare qualcosa per noi.

  5. Pingback: Il Capodanno di Gianni Rodari | Tommaso Aramaico

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Questa voce è stata pubblicata il dicembre 29, 2015 da con tag , , .

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