Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Oliver Sacks e il mio vicino di casa

La cosa viene da lontano. Due infarti, uno nel 2006, l’altro, più lieve, quasi una scossa d’assestamento, l’anno dopo. Di lì la pensione forzata, l’addio totale al vino (finiti i bei tempi dei 2L al giorno), una certa flemma, il passo lento, una drastica perdita di peso e della vista, aumento esponenziale di un atteggiamento negativo che, è giusto dirlo, trovava terreno fertile su di una struttura tendenzialmente depressiva, priva di slanci, passioni o passatempi di qualsiasi genere (persino il calcio sembrava un’aspirazione troppo elevata); e, ancora, incapacità di sopportare le basse temperature, il sentimento del freddo, alopecia. Abbandonate a giornate che s’erano fatte improvvisamente lunghissime, Ennio – ecco il nome – era costantemente e disperatamente alla ricerca di compagnia (con discorsi che viravano inevitabilmente su disgrazie passate, presenti e future, su lutti, malattie inguaribili, morte e ancora morte, morte), così come di semplici mansioni: portare i nipoti all’asilo, potare le rose nel giardino comune e piccole cosette del genere. Dopo la premessa si può passare al presente. Più o meno un mese fa uscivo di casa per andare a lavoro. Erano le sei del mattino e sul pianerottolo mi ritrovo tre infermieri, una barella ed Ennio che si faceva aiutare da Anna, la moglie, a mettersi il giaccone. Come sempre Ennio non ha mancato di salutarmi: Ciao Tomma’. Di ritorno da lavoro suono a casa sua per capire cosa fosse accaduto. Anna, sconvolta, parlava e piangeva, piangeva e parlava. La sera prima, seduto sulla poltrona a vedere la televisione, il marito aveva fatto fatica ad alzarsi per andare al bagno: una gamba, la destra, non ne voleva proprio sapere di mettersi a lavoro. Quella notte stessa storia, solo che, oltre che la gamba, s’era messo in sciopero anche il braccio ed era subentrata una certa difficoltà ad esprimersi. A quel punto Anna, una vita passata al bancone di verdura di famiglia a Centocelle, aveva mollato la tiritera del “e che sarà mai” per chiamare l’ambulanza. E aveva fatto bene. Principio di ictus, lieve, questo si, ma capace di tenere Ennio dieci giorni in ospedale: un giorno e mezzo in corsia, il resto in uno stanzone con altri cinque ricoverati. Dopo le sue dimissioni ho lasciato passare qualche giorno, poi mi sono precipitato a casa sua per salutarlo. Ennio, fatalista più che mai, invece di esser lieto per una ripresa veloce ed incoraggiante, s’era immediatamente lasciato andare alle sue solite (e più che mai realistiche) considerazioni sulla vita e sulla morte, cioè sulla sua morte e sul fatto che la sentiva dietro l’angolo. Che la povera Anna piangesse lì davanti a me non era per lui cosa degna di rilievo. Fra le altre cose, Ennio s’era fissato su di un suo vecchio problema, su una questione che lo metteva a disagio più per il suo carattere antisociale che per ragioni patologiche: la sua difficoltà nel riconoscere le persone. Ennio aveva sempre impiegato una frazione di tempo di troppo prima di riconoscere le persone che incontrava e che si fermavano per parlargli e questa storia (che lo deprimeva e lo faceva vergognare), dopo l’ultima sventura – già all’ospedale se ne era accorto – aveva subito una brusca accelerazione. Mentre era ricoverato aveva riconosciuto il figlio più grande solo dalla voce, e il più giovane solo per esclusione, quando s’era sentito chiamare papà. Già da tempo riconosceva solo dal contesto le persone che non facevano parte della cerchia famigliare o chi, come me, abitavano nell’appartamento di fronte al suo e che incontrava quotidianamente. Adesso le cose s’erano complicate e la sua incapacità s’era estesa a tutti. Anna aveva cercato di farci su una risata – e che, vorresti dire che non riconosci nemmeno me? – questo il senso delle sue parole. Ennio aveva scosso la testa per dire che era proprio così e che, almeno per il momento, era certo che fosse lei perché sapeva con assoluta certezza di vivere con una donna di nome Anna che era sua moglie…il volto veniva subito dopo, come conferma, risultato di un processo, non come dato di fatto da cui prendere le mosse. Dopo un’altra ora fatta di vecchi ricordi (di Ennio), sono riuscito a tornare a casa e tutto preso da quello che avevo appena sentito, sono andato a riprendere la mia copia de L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks.

Certo, il cervello è una macchina e un elaboratore, e la neurologia classica ha perfettamente ragione. Ma i processi mentali, che costituiscono il nostro essere e la nostra vita, non sono soltanto astratti e meccanici, sono anche personali; e in quanto tali non implicano solo la classificazione e l’ordinamento in categorie, ma anche una continua attività di giudizio e di sentimento.

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Ora, quello Ennio e quello del dottor P. “eminente musicista” al centro dell’articolo che dà il titolo all’intera raccolta di interventi, sono due casi simili ma non identici (forse “non ancora”, ma su questo non oso pronunciarmi…chissà se qualche medico non abbia prospettato qualcosa del genere al mio vicino di casa). Il dottor P. non riconosceva i volti in quanto volti, era capace di avvicinarsi alla moglie, prenderne la testa fra le mani e tirarla verso di sé per mettersela sul capo, proprio come un cappello. Ennio, al contrario, vede e riconosce i volti (almeno così sembra, anche se forse se ne può dubitare) in quanto volti, solo che non li riconosce come volti di persone a lui note da anni o da sempre. Finita l’analogia, mi rimaneva però fra le mani un libro di cui non ricordavo bene il contenuto e di cui ultimamente si parla molto (dopo la scomparsa dell’eminente neurologo). Rileggendolo dopo qualche anno, ho riportato alla mente non solo tutta la vastità (e la drammaticità) dei casi analizzati, ma, soprattutto, l’impostazione metodologica, la visione innovativa della malattia e quindi della vita, del suo valore, il modo rivoluzionario con cui Oliver Sacks definisce, meglio, di ri-definisce i criteri per dirla dignitosa, piena, da vivere nella sua assoluta unicità.

Il termine preferito della neurologia è “deficit”, col quale si denota una menomazione o l’inabilità di una funzione neurologica: perdita della parola, perdita del linguaggio, perdita della memoria, perdita della vista, perdita della destrezza, perdita dell’identità ed una miriade di altre mancanze e perdite di funzioni (o facoltà) specifiche. Per tutte queste disfunzioni abbiamo tutta una serie di parole privative: afonia, afemia, afasia, alessia, aprassia, agnosia, atassia…Ma va detto fin dall’inizio che una malattia non è mai semplicemente una perdita o un eccesso, che c’è sempre una reazione, da parte dell’organismo o dell’individuo colpito, volta a stabilire, a sostituire, a compensare e a conservare la propria identità, per strani che possano essere i mezzi usati…

Leggendo questa raccolta di casi ci si trova di fronte ai casi più strani, bizzarri, commoventi, inimmaginabili. Oltre al musicista che non riconosce i volti, ci sono il marinaio Jimmie G., un uomo entrato in contatto con Sacks nel 1975 e i cui ricordi e la cui cognizione del tempo si fermava al 1945, al termine della guerra, data fino a cui ricordava tutto fin nei più minuti dettagli. Dopo quella data, però, tutto si perdevano nel nulla, lasciando al mondo un uomo che ricordava tutto di quello che gli era accaduto fino al ’45, ma che non sapeva cosa avesse fatto o detto solo pochi minuti prima. Christina, la donna che aveva perso il senso del proprio corpo. Uomini che non riconoscono come propri delle parti del loro corpo, una gamba, un braccio. Ma oltre alle malattie da “deficit”, ci sono quelle che si manifestano per eccesso, dove non si riscontrano amnesie, ma ipermnesia, non agnosia, ma ipergnosia. Così ci troviamo di fronte a “Ray dai mille tic”, irretito dalla sindrome di Tourette, che lo obbligava a movimenti incontrollati e violenti che ne limitavano fortemente la vita sociale, ma che nondimeno contribuiva a renderlo un virtuoso batterista jazz. Novantenni come Natasha K., affetta dalla “malattia di Cupido”, improvvisamente arzilla, euforica, sconveniente nei comportamenti, civetta, sconcia, a tratti. E, ancora, il signor Thompson, che non ha più un’identità. Nel libro di Sacks la carrellata di casi va avanti, ma quello che più mi pare interessante è il fatto che Sacks non si limita a presentare casi, malattie, diagnosi, dato che tutto questo è subordinato ad altro: alla presentazione di storie individuali, di vite particolari ed irripetibili che non possono essere ridotte alla malattia che ne inficia il naturale svolgimento; vite che, al contrario, proprio nella e attraverso la malattia mostrano la loro irriducibilità, il loro non poter essere trattate solo come vite malate, e questo perché tali vite sono sostenute dall’indomita volontà di organizzarsi nuovamente, inglobando e non facendosi inglobare dalla patologia che le attraversa. È tale rovesciamento che traspare da ogni pagina di questo magnifico documento dalla valenza non solo medico-scientifica, ma anche esistenziale e filosofica. Accanto alla volontà di ridefinire il concetto di malattia, c’è anche il tentativo di far emergere un fondo comune ed universale che non può in nessun caso andar perduto: la volontà di vivere, la capacità di rovesciare il peso della malattia in quanto deficit, tenere aperto un canale, una prospettiva per una narrazione ancora possibile, per un discorso (quasi che non sia già di per sé evidente e che necessiti di altre prove) sulla natura del soggetto come struttura narrante e narrata.

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Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un “racconto”, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità…Ognuno di noi è un racconto peculiare, costruito di continuo, inconsciamente da noi, in noi e attraverso di noi…Da un punto di vista biologico, fisiologico, noi non differiamo molto l’uno dall’altro; storicamente, come racconti, ognuno di noi è unico…Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi – possedere, se necessario ri-possedere, la storia del nostro vissuto. Dobbiamo “ripetere” noi stessi, nel senso etimologico del termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi stessi. L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé.

Nella malattia, ma anche in una situazione di normalità, il soggetto è soggetto solo in quanto assoggettato ad un racconto, ad una narrazione che lo vertebra, lo costituisce, gli permette di esistere. Non è, però – oso aggiungere e completare – solo un discorso, un racconto di sé a se stessi (questo non sarebbe assolutamente sufficiente per “esistere” veramente), ma anche e soprattutto un discorso ed un racconto da proporre, da consegnare agli altri…un narrare nel suo senso più alto. Noi siamo racconto agli altri, per gli altri, degli altri, siamo soggetto e al tempo stesso oggetto di un racconto, siamo ciò che raccontiamo, ma quel che raccontiamo è in gran parte frutto di quello che ci è stato detto di noi e del mondo. Siamo il racconto ed il raccontato, narrati e narranti e tramite questi racconti riconosciamo noi stessi e gli altri…ed ecco che si può tornare ad Ennio, accogliere da un altro punto di vista i suoi discorsi, i suoi racconti, le storie di uomini e donne che lavoravano con lui al mercato di Centocelle, anni fa, quando ancora esisteva…i racconti di lui ed Anna in piedi già alle tre del mattino, esposti alle sfuriate del vento, alla pioggia gelida, al sole che picchiava sodo, alle chiacchiere della gente, alle urla dei vicini di bancone, agli anziani, ai morti. Morti che sono parte integrante della sua vita, morti che strutturano il suo presente, le vie che ancora oggi lentamente calca per andare a comprare il pane, il latte. Di loro ha un ricordo preciso, non così del volto della moglie, con cui vive da quasi cinquant’anni. Ma Anna esiste perché di lei e della sua vita sa tutto, può raccontarla per filo e per segno senza commettere errore alcuno, anche se la donna che dorme al suo fianco non gli è immediatamente nota per mezzo della vista: sa che è lei, però, e tanto basta. Le sue condizioni potrebbero peggiorare, potrebbe presto prenderle la testa fra le mani e provare ad indossarla, proprio come un cappello, e sono sicuro che ci sguazzerebbe in un incidente del genere, crogiolandosi nel suo galoppante pessimismo, nella sua voglia di pensare la sua morte; ma al tempo stesso sono certo che non rinuncerebbe mai ai suoi racconti, a ritornare sulla sua storia, sui fatti del quartiere, sul mio lavoro – di cui ricorda tutto – o sui compleanni dei miei figli, della loro madre, del mio…sono certo che fino all’ultimo non lascerà cadere un solo frammento della vita di Anna, di quando l’ha fatta trasferire a Roma da Sezze, del gelo del mercato, dei due parti cesari, dell’osteoporosi invalidante che l’ha colpita, dei denti caduti, dei capelli sempre più radi e sottili, dell’anca rotta dopo uno scivolone in bagno, del busto che la tormenta, della sua mania per la pulizia, dell’amore morboso per i nipoti, del panico che l’aveva presa quando lui era stato colpito dal primo infarto e poi dal secondo e poi, ancora, dall’ictus…non è detto che sia poi così lontano il giorno in cui, incontrandola in casa, potrebbe cadere in un dubbio profondo, un debbio da cui non sarà più in grado di tirarsi fuori, però una cosa è certa: nel racconto, e solo lì, Ennio rimarrà Ennio, così come Anna rimarrà Anna, in questo lui le sarà fedele fino alla fine, e per questo immegino che Anna sarà disposta a perdonarlo, a prendergli senza rabbia le mani, qualora lui cercasse di mettersela in testa, proprio come un cappello.

12 commenti su “Oliver Sacks e il mio vicino di casa

  1. Guido Sperandio
    dicembre 19, 2015

    Anni fa, questo titolo mi era stato proposto da un amico, ma non sono andato al di là delle prime pagine, avevo l’alibi del tempo minimo a causa del lavoro.
    So che è un titolo famoso ed ora che tu te ne sei occupato mi rendo conto che apre mondi sconosciuti e visuali sugli stessi, inedite.
    Mi è difficile considerare questo genere di argomenti con freddezza. Sono toccanti.
    Quanta povera umanità (noi compresi) allo sbaraglio!
    Siamo tutti insetti in balia di un bambino sadico.

    • tommasoaramaico
      dicembre 19, 2015

      Si, Sacks riesce ad avvincere il lettore non addetto ai lavori senza mai rendere banale il male di queste vite, eppure, senza stucchevole retorica, è capace di indicare la via che rende accettabile la vita di alcune (non tutte) di queste persone. Una via lastricata di note e colori: la musica, il canto, la pittura, persino la danza, possono essere sentieri per ritrovare una sorta di normalità e, al tempo stesso, recuperare, quasi “organizzare”, la malattia ad un livello superiore. Bello.

  2. Ivana DaccòIvana Daccò
    dicembre 20, 2015

    La morte di Sacks è una grande perdita, per la medicina e per la pichiatria, in particolare (fa niente il fatto che era un neurologo e non uno psichiatra). E’ la perdita di qualcuno che sapeva spiegare ai lettori, vale a dire ai medici e ai pazienti, dato che se pochi di noi sono medici tutti siamo pazienti, come porsi in relazione. Sapeva mostrare, e per questo riferisco il suo lavoro alla psichiatria in particolare, che siamo relazione e che siamo racconto, e che dunque le scienze mediche, in generale (e la psichiatria in particolare) sono, prima di tutto, antropologie e solo dopo comportano l’utilizzo di tecniche, e dispositivi, di intervento. Eventualmente. Persino, per paradosso, non necessariamente.
    E farlo attraverso le storie, con la capacità del grande narratore, fa sì che, godendo la lettura, riformuliamo noi stessi, ci diamo una possibilità di non farci travolgere dalla tecnica che ha invaso le nostre giornate divenendo un sostituto dei nostri rapporti.
    Sarebbe un peccato, davvero, se, con la sua morte, la sua opera venisse lasciata cadere nella dimenticanza.

    • tommasoaramaico
      dicembre 20, 2015

      Non posso che ringraziarti per il tuo commento. Con poche, precise parole sei riuscita a dire quello che a me (forse più confusamente) è costato un numero ben maggiore di battute.

  3. Alessandra
    dicembre 20, 2015

    Leggendo le motivazioni che stanno alla base della ricerca di Sacks, è impossibile non farsi un’idea positiva di questo neurologo-scrittore (che peraltro non conosco, non avendo mai letto i suoi libri). Mi ha colpita il fatto che per lui i vari casi non fossero solo fenomeni da studiare e basta, ma anche da comprendere in termini soggettivi, in senso più umano, tenendo conto delle reazioni individuali di ogni soggetto esaminato. Interessante poi ciò che può scattare nelle persone nel tentativo di aggirare la malattia per sopravviverle, così com’è interessante la storia aggiunta di Ennio, che ha avuto l’effetto di turbarmi non poco…

    • tommasoaramaico
      dicembre 20, 2015

      Sacks si colloca al confine tra diversi generi senza mai perdere il suo “nord”, e cioè il rigore scientifico. Direi che dai suoi scritti emerge un semplice insegnamento: vita e malattia si compenetrano (in alcuni casi) invece di escludersi. Certo, la malattia può portare – anzi porta – alla morte, ma questo non significa nulla e non priva la vita della sua “vitalità” (non sono riuscito ad evitare il gioco di parole) primordiale. P.s. Questa mattina ho incontrato Ennio e non mi ha riconosciuto. Ha capito che ero io solo dopo un po’, quando mi ha visto tirare fuori la chiave per aprire il portone, allora mi ha invitato a sedermi sulla panchina del cortile interno e mi ha raccontato per l’ennesima volta la storia degli alberelli che negli anni ha piantato e di cui ancora si prende cura…

      • Alessandra
        dicembre 20, 2015

        Tommaso, sei una persona straordinaria. Lo sai che mi è scesa una lacrima leggendo queste tue parole? Sarà che sono un po’ stressata. Ti mando un abbraccio, e scusami se puoi.

      • tommasoaramaico
        dicembre 20, 2015

        Dire qualcosa più di “grazie” mi sembra sciocco; ingiusto sarebbe, però, non spostare questa “straordinarietà”sul vero protagonista e cioè sul mio vicino di casa e al fatto che non si dà per vinto…mi tengo l’abbraccio e lascio cadere le scuse, non sono previste…

  4. dragoval
    dicembre 20, 2015

    Di Oliver Sacks ho amato molto Musicofilia , e conto, prima o poi, di leggere anche altri suoi lavori.Prima di leggere il tuo post, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello non era tra i titoli che avrei scelto. Ma quanto hai scritto qui è prezioso e illuminante, sul piano umano prima ancora che su quello intellettuale.
    Grazie.

    • tommasoaramaico
      dicembre 20, 2015

      Grazie a te. Io di Sacks ho letto alcune opere, non molte a dire il vero, e Musicofilia mi manca. Lo terrò a mente.

  5. elisabetta19MR
    dicembre 21, 2015

    Non so cosa mi abbia preso di più nella lettura di questo post, se la tua introduzione che ho percepito come una vera narrazione intorno alla condizione umana, o i passi tratti dal libro di Oliver Sacks. Ma so per certo che la dose di umanità che ho ritrovato nell’una e nell’altra narrazione, sospesa la prima in una razionale fatalità condita però da autoironia (è così?) e consapevolezza del limite, mi hanno fatto apprezzare molto la prima .

    • tommasoaramaico
      dicembre 21, 2015

      Grazie. Si, ho cercato, a partire dalle illuminanti pagine di Sacks, di restituire il vissuto di una delle tante persone che ci circondano e di cui spesso a malapena percepiamo i problemi (anche se molto seri ed assolutamente evidenti). Del resto lo stesso Sacks parla di una neurologia “naturalistica”, esercitata fuori da istituti, laboratori e strutture impersonali, invitando gli addetti ai lavori ad uscire, camminare per le strade ed osservare la vita reale, studiare le patologie per come si manifestano nella quotidianità. Io non sono un addetto ai lavori e non ne capisco nulla, però ho cercato di “raccontare” (non senza una dose di ironia) un caso che, forse, potrebbe trovare cittadinanza in un libro simile a L’uomo che scambiò…

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Questa voce è stata pubblicata il dicembre 19, 2015 da con tag , , .

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