Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Philip K. Dick, La svastica sul sole

Quello che non comprendono è l’impotenza dell’uomo. Io sono debole, piccolo, senza la minima importanza per l’universo. L’universo non si accorge di me, e io vivo senza essere visto. Ma perché questo deve essere un male? Non è meglio così? Gli dei distruggono coloro di cui si accorgono. Se sei piccolo potrai scampare alla gelosia di chi è grande.

Pubblicato nel 1962 con il titolo The Man in the High Castle, La svastica sul sole viene accolto dalla critica con l’attribuzione del Premio Hugo, che consegna a Dick quel primo vero riconoscimento di cui era da tempo alla ricerca. Chiunque abbia letto le opere di Dick è consapevole della capacità che questo autore ha di creare storie sconcertanti, assolutamente originali, perturbanti. Ho già tentato di renderne conto già con Tempo fuor di sesto (qui) e con Le tre stimmate di Palmer Eldrich (qui), ma ne La svastica sul sole l’esperimento è assai più interessante. Questo romanzo viene scritto all’inizio degli anni Sessanta, nel pieno dell’epopea americana e sullo sfondo dell’era Kennedy, un periodo , fra le altre cose, caratterizzato dello scontro con l’Unione Sovietica. Scontro, o Guerra Fredda, che mostrava i suoi effetti più sconcertanti sulla scena europea e in particolare in Germania dove, mattone su mattone, veniva costruito il muro di Berlino…Dick si fa però una domanda: e se le cose fossero andate diversamente? E se la Seconda guerra mondiale si fosse chiusa con una vittoria delle forze dell’Asse? E se il mondo, invece che “a trazione” americana, fosse stato nelle mani dei Nazisti e dei Giapponesi e gli U.S.A. ridotti a colonia, sottomessa politicamente, economicamente, militarmente, culturalmente? Questa la scommessa di Dick. Riscrivere la storia nel suo prendere un altro corso, una piega inimmaginabile per noi, oggi, ma altrettanto e forse più impensabile per chi viveva proprio in quegli anni, quando il sentimento del trionfo sui totalitarismi era ancora vivo e palpitante, quando l’America non aveva alcun dubbio sul suo ruolo di guida per il mondo occidentale; quando la prospettiva di una vittoria definitiva della democrazia era al tempo stesso fonte di esultanza e – qui sta il nodo – di una strisciante inquietudine che si fondava sulla potenza economica, militare, tecnologica dell’Unione Sovietica – ma anche e soprattutto sul fascino indiscutibile che quella promessa esercitava nella parte “buona”, nella parte “giusta”, nella parte “libera” del mondo. Buona, giusta, libera? Che cosa significano queste parole? Tutti accettavano il racconto dominante, la Storia per come era stata scritta e raccontata dai vincitori, quelli che stavano dalla parte giusta della strada. Dick no.

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È un mondo psicotico, quello in cui viviamo. I pazzi sono al potere. Da quanto tempo lo sappiamo? Da quanto tempo affrontiamo questa realtà? E…quanti di noi lo sanno? Forse se uno sa di essere pazzo, allora non è pazzo. Oppure può dire di essere guarito, finalmente. Si risveglia. Credo che solo poche persone si rendano conto di tutto questo. Persone isolate, qua e là. Ma le masse…che cosa pensano? Tutte le centinaia di migliaia di abitanti di questa città. Sono convinte di vivere in un mondo sano di mente? Oppure intravedono, intuiscono in qualche modo la verità?

Nel mondo che Dick immagina in questo grande romanzo gli Stati Uniti hanno perso la Seconda guerra mondiale e sono stati ridotti a colonia di Giappone e Germania, gli Imperi usciti vincitori dal conflitto. In questa ucronia l’America diventa un luogo esotico in cui gli alti rappresentanti delle ben più raffinate culture giapponesi e tedesche si recano per collezionare oggetti d’arte; I Ching, il libro cinese degli oracoli, anticipa e prefigura il futuro ed il senso delle azioni, guida le scelte delle persone, si fa, nella sua onnipresenza, testo “sacro” di riferimento; i tedeschi sono all’avanguardia nella ricerca tecnologica e i loro razzi sono in grado di raggiungere nuovi mondi. Come in altri romanzi di Dick, anche in questo sembra che il centro, il cuore significante/pulsante dell’intera vicenda, sia da rinvenire nel problema della libertà, problema da cui tutti gli altri nascono e dipendono come i raggi dal centro d’una ruota in perenne movimento. E attorno alla questione della libertà, della possibilità di scegliere in modo consapevole ed autentico si sviluppano non solo le vicende dei diversi personaggi che popolano questo romanzo, ma anche tutti i quesiti di natura estetica, politica e filosofica che rendono quest’opera tanto avvincente: il problema dell’arte e della sua riproducibilità/autenticità/falsificabilità; la dialettica fra un mondo dominato dalla tecnologia e dalla spersonalizzazione e l’esigenza di una spiritualità nuova rappresentata dall’onnipresenza del libro de I Ching; la Storia come prodotto dell’azione dei grandi personaggi che si muove parallelamente al brulichio incessante degli innumerevoli destini che inseguono la propria individualità cercando di sottrarsi all’ineffabile destino che li vuole ridotti ad inutili rotelle nel Grande Ingranaggio, nel Sistema.

In questa dialettica di libertà/necessità, singolare/universale si muovono alti funzionari giapponesi, cospiratori tedeschi, artigiani americani, artisti che scrivono una Storia alternativa (esattamente come Dick), semplici uomini e donne che tentano di uscire dall’incubo della sottomissione politica, culturale, morale.

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E questo è fatale alla vita. Perché alla fine non ci sarà più vita; una volta c’erano soltanto particelle di polvere nello spazio, gli ardenti gas di idrogeno, e niente più, e così tornerà ad essere. Questo è un intervallo, ein Augenblic. Il processo cosmico procede a grandi passi, frantumando la vita e riducendola di nuovo a granito e metano; la ruota gira sempre, per tutta la vita. È tutto temporaneo. E loro – questi pazzi – rispondono al granito, alla polvere, al desiderio dell’inanimato; essi vogliono aiutare la Natur. E io, penso, so perché. Vogliono essere gli agenti, non le vittime, della storia.

Ed ecco riproposta la dicotomia fra un’accettazione (molto orientale e poco consona allo spirito occidentale pervaso dalla volontà di potenza) dell’essere e la volontà di porsi come interpreti, come fautori, creatori e padroni della Storia. Nella schiera di questi ultimi trovano il loro posto d’onore i nazisti, vincitori della guerra e pertanto sovrani della terra, fieri rappresentanti di una hybris, di una tracotanza intollerabile…come uscire, quindi, da una dicotomia che sembra non lasciare scampo? Che obbliga a scegliere fra un’accettazione della vita che ha tutti i caratteri della saggezza, ma che rischia di tracimare in una passiva accettazione della realtà per come si presenta, e una volontà di farsi artefici e registi della Storia e del proprio destino, ma col rischio di smarrire il senso del limite e scoprirsi, infine, mossi da un puro (e spregiudicato) desiderio/esercizio di potenza? Fra i molti personaggi che popolano questo densissimo romanzo ci sono uno scrittore e il suo libro, l’altro libro che incontriamo oltre all’onnipresente I Ching, ed è il libro La cavalletta non si alzerà più di Abendsen, che ha scritto un libro stravolgente ed inaccettabile per le autorità costituite (ovviamente i nazisti), libro che lo ha obbligato a barricarsi nella sua casa, nel suo castello (di qui il senso del titolo originale, il cui senso si perde purtroppo nella traduzione italiana, The Man in the High Castle). Ma cosa ha scritto questo Abendsen di tanto rivoluzionario e sconvolgente? Un’ucronia (speculare a quella di Dick) in cui gli Alleati hanno vinto la Seconda guerra mondiale, un romanzo in cui i nazisti sono usciti sconfitti dalla guerra, mentre l’America, vittoriosa, assurge a simbolo di un mondo in cui la democrazia, il capitalismo e la libertà si diffondono come legge e costumi planetari.

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Ecco che la libertà (e la saggezza) si presenta non come mera accettazione della Storia e tanto meno come muscolare prova con la storia stessa (nel tentativo di cambiarla), ma come (ri-)scrittura della Storia. Operazione dissacrante in cui ci si può permettere, forse, di trovare un nuovo equilibrio esistenziale all’insegna di una (per rifarsi – con qualche forzatura – al filosofo Spinoza) “libera necessità”: un’accettazione della Storia (del suo essere al di là della portata della libertà e della volontà umane) con cui si può in qualche modo “giocare” dissacrandola a partire da una vera conoscenza della storia stessa che, in questo modo, perde almeno una parte del suo peso, del suo fardello, della sua natura di soffocante catenaccio per prestarsi alla riscrittura, al ripensamento…

…è un ex militare. Ha combattuto nella Marina degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, è stato ferito in Inghilterra da un carro armato Tigre dei nazisti. Aveva il grado di sergente. Pare che abiti e scriva i suoi libri in una vera e propria fortezza, difesa da ogni genere di armi…c’è filo spinato elettrificato tutt’intorno alla sua residenza, che si trova in mezzo alle montagne. È difficile arrivare fino a lui…Quel posto si chiama…Il castello. Così lo chiama lui.

L’artista fa dunque un passo indietro, cerca di proteggersi dalla forza travolgente del mondo (Storia-Essere-etc, etc), ma non solo per evitare di farsene schiacciare, ma anche e soprattutto per osservarlo dall’alto. Asserragliato: obbligato a difendersi da un mondo che non vuole sentirsi dire la verità, da un mondo pronto a uccidere chiunque voglia metterne in discussione i discorsi dominanti, comunemente accettati (e cioè accettati in modo acefalo). È da questa prospettiva che si può forse guardare a questo testo che procede su diversi piani storici contrapposti: c’è un autore, Dick, che scrive un libro, La svastica, e in questo libro c’è un autore, Abendsen, che a sua volta scrive un libro, La cavalletta, che contiene in sé proprio (o quasi) il mondo di Dick (e il nostro) che a sua volta, da dentro quel libro (La cavalletta), potrebbe scrivere un libro con all’interno un altro Abendsen, un Abendsen elevato alla seconda che a sua volta potrebbe scrivere un altro libro ancora e così via…ad libitum…Tale prospettiva è capace di far venire le vertigini ed aprire ad ogni sorta di domanda, spostando sempre più avanti il limite fra logica e bizzarrie del pensiero: quale fra i due autori viene prima? Quale libro viene prima? Quale storia è storicamente data, quale frutto di immaginazione? Ecco che la portata liberatoria dell’arte fa la sua prima, dirompemte e dinamitarda comparsa. Non sarebbe difficile andare avanti proponendo ben altri giochi di specchi, ma potrebbe essere sufficiente segnalare tutta la portata critica (a livello storico-politico) che questa struttura narrativa permette a Dick di portare avanti. E infatti ne La cavalletta sembra depositarsi e trovare realizzazione (simbolicamente) il sogno tradito di un mondo effettivamente libero, mentre ne La svastica il mondo dominato dalle forze dell’Asse (sembra) non (essere) è altro che la realizzazione dell’incubo che si cela, strisciante, dietro la facciata di libertà e democrazia che offriva al mondo intero l’America uscita vincitrice dalla Seconda guerra mondiale: una società che sotto il vessillo della libertà, della democrazia, del benessere, portava invece avanti un progetto volto unicamente alla massificazione, al controllo delle opinioni, al consumismo sfrenato e che aveva come specifiche controindicazioni la solitudine, l’ingiustizia sociale, la sfrenata competizione…

Un artista (Dick) scrive una contro-storia (vittoria dell’Asse) in cui un altro artista (Abendsen) scrive una contro-storia (vittoria degli Alleati). Il primo (distruttore di illusioni) svela il negativo della nostra storia reale (non la democrazia, ma la tirannia è la vera matrice della storia del Novecento); il secondo (costruttore di ideali) consapevole della vera natura della nostra storia, immagina quello che avrebbe dovuto e potuto essere l’Occidente alla fine del secondo conflitto mondiale, un mondo dove gli ideali avrebbero trovato piena realizzazione, senza essere traditi…

Adesso noi faremo una piccola marcia, meno importante, che non finirà sui libri di storia. D’accordo?

 

12 commenti su “Philip K. Dick, La svastica sul sole

  1. Guido Sperandio
    dicembre 7, 2015

    Mi piace l’idea-chiave del libro nel libro… molto creativa, chiaramente su quella poi si erige tutta la costruzione. Certo, l’abilità poi occorre del costruttore di non perdersi svolgendo, ma di riuscire ad essere sempre all’altezza.
    Nota a parte: il titolo (La svastica nel sole) non sarà così pertinente, ma io di primo acchito, digiuno della tua recensione, l’avevo trovato cool (o si dice smart?).
    Sai, la mia è la deformazione dell’ex-copywriter che vendeva detersivi e molto altro alla famosa “massaia di Voghera” 🙂

    • tommasoaramaico
      dicembre 7, 2015

      A Dick non mancano né l’immaginazione, né l’abilità del “costruttore”, di chi è capace di tenere su una storia complessa. Il titolo italiano è decisamente azzeccato, rende l’idea del libro (in questo senso è accattivante e spinge a comprare), ma lascia cadere proprio quello che notavi: l’idea del libro (o autore) nel libro. Certo, niente di grave…la massaia se ne tornerebbe comunque a casa di buon umore, certa di aver fatto un affare…

  2. robertacava
    dicembre 7, 2015

    Che sorpresa! Anche io lo sto leggendo, sono quasi alla fine. Credo che ne scriverò una recensione tra poco, ho davvero bisogno di mettere per iscritto quello che penso perchè si tratta di un testo davvero denso di contenuti (:

    • tommasoaramaico
      dicembre 7, 2015

      Vero, ci sono libri di cui si deve scrivere per poterli fare veramente propri. La Svastica sul sole è uno di questi. Non mancherò di leggere il tuo post.

  3. dragoval
    dicembre 10, 2015

    Certamente saprai che nel 2011 è stata prodotta da Amazon (eh, lo so) una serie televisiva tratta dal romanzo:
    https://it.wikipedia.org/wiki/The_Man_in_the_High_Castle_(serie_televisiva)

    Io non conoscevo il titolo originale de La svastica sul sole , ma grazie al tuo post ho “ri-connesso” immediatamente (mi ero imbattuta nella serie poco tempo fa, cercando tutt’altro).
    Quanto al romanzo: programmo di leggerlo da una vita, ma poi ho finora battuto e seguito sentieri diversi. Spero però di inciamparci contro al più presto.

    • dragoval
      dicembre 10, 2015

      Ohibo’ ! Errata corrige: ho scritto 2011, volevo dire 2015 🙂

    • tommasoaramaico
      dicembre 10, 2015

      E invece non lo sapevo e ti ringrazio per avermi dato questa preziosa informazione. Andrò subito a cercare di capire di cosa si tratta…Amazon a parte! Per quanto concerne il romanzo, secondo me è assolutamente da leggere, se poi si ha qualche interesse per la storia (e magari la si insegna) allora diventa un vero e proprio strumento di comprensione della realtà.

  4. elisabetta19MR
    dicembre 11, 2015

    Punto di vista (quello dello scrittore) molto interessante, quasi profetico…

    • tommasoaramaico
      dicembre 11, 2015

      Vero, molto interessante ed in più ha il carattere del monito, oltre alla capacità di percorrere i tempi…

  5. dragoval
    Maggio 28, 2016

    Nella remota ipotesi in cui non avessi già preso nota della pubblicazione di questo volume, che ho presunto – è il caso di dire- potesse essere di tuo interesse:

    http://www.adelphi.it/libro/9788845930874

    • tommasoaramaico
      Maggio 28, 2016

      E hai pensato bene. Sapevo dell’esistenza di questo volume, solo che non l’ho ancora acquistato – non conoscendone il reale valore. Dick è uno di quegli autori la cui stessa esistenza è qualcosa di molto simile ad un romanzo – e se tu lo consigli, beh, sarà sicuramente all’altezza delle aspettative. Grazie per il consiglio.

  6. Pingback: Philip K. Dick – Labirinto di morte | Tommaso Aramaico

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Questa voce è stata pubblicata il dicembre 7, 2015 da con tag , , , .

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