Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Perché una storia riesca realmente a catturare l’attenzione del bambino, deve divertirlo e suscitare la sua curiosità. Ma per poter arricchirne la vita, deve stimolare la sua immaginazione, aiutarlo a sviluppare il suo intelletto e chiarire le sue emozioni, armonizzarsi con le sue ansie e aspirazioni, riconoscere appieno le sue difficoltà, e nel contempo suggerire soluzioni ai problemi che lo turbano. In breve, essa deve toccare contemporaneamente tutti gli aspetti della sua personalità, e questo senza mai sminuire la gravità delle difficoltà che affliggono il bambino, anzi prendendone pienamente atto, e nel contempo deve promuovere la sua fiducia in se stesso e nel suo futuro.
Ben sintetizzano, le righe appena citate, la tesi di fondo che emerge dal densissimo saggio scritto dal celebre psicologo infantile Bruno Bettelheim che ne Il mondo incantato, mostra come il contenuto delle fiabe classiche abbia una tale presa sui bambini (ma anche sugli adulti) non solo e semplicemente per l’alternarsi di vicende avvincenti e spettacolari, oltre che stupefacenti, ma anche e sopratutto perché queste fiabe restituiscono una visione del mondo e della vita con tutte le sue difficoltà, così come un’idea dei percorsi necessari per superare queste stesse difficoltà e trovare un senso per spiegare gli eventi e le avversità, per trovare una linea di condotta che capace di guidare il bambino dalle paure che circondano l’infanzia fino ad una sempre maggiore capacità di affrontare i pericoli che vengono dall’esterno, così come dall’interno.
La più grande necessità coincide con la più grande difficoltà: trovare un senso all’esistenza. Anzi, forse l’esistere stesso può ben essere definito come lo sforzo continuo di trovare un senso all’esistenza. Mentre l’acquisizione più o meno solida di questo stesso senso dovrebbe coincidere col raggiungimento della maturità psicologica. Ma da dove viene questo senso, quale è la sua fonte e sorgente primaria? Per il bambino di certo sono le persone che si prendono cura di lui, quei genitori capaci di “renderne la vita ricca di significato“, ma anche il retaggio culturale, quello che al bambino viene trasmesso. È in questa necessaria operazione di trasmissione dei saperi che emerge tutta l’importanza della letteratura quale fonte privilegiata ed insostituibile di comunicazione di informazioni, dilemmi, ostacoli e soluzioni possibili che permettono al bambino di costruirsi una mappa del mondo (dei valori), una geografia esistenziale e dell’immaginazione. Le fiabe forniscono i mezzi per trovare un senso e strutturare il caos della vita interiore, così come contribuiscono alla formazione di una solida educazione morale indicando i vantaggi dell’agire secondo i dettami della morale. Indicano soluzioni possibili per problemi e dilemmi che possono sembrare irrisolvibili. Le favole mostrano che il mondo non è tutto rose e fiori, ma che il male esiste, che è reale e permea le cose e le persone che ci sono intorno. Nelle fiabe il male emerge, sono popolate di personaggi che sono tutto fuorché buoni. Attraverso questi personaggi il bambino vede fuori di sé parte di se stesso, la sua personale zona d’ombra, il suo lato cattivo, egocentrico, egoista. Le favole insegnano al bambino che la realtà è dura e che bisogna lottare, che non bisogna lasciare il passo al timore e che, al contrario, bisogna affrontare le avversità e sperare di uscire vittoriosi da tale lotta. Per questi motivi le fiabe spesso iniziano con la morte di uno dei genitori, o di entrambi, materializzando il timore dei bambini di essere lasciati soli; oppure seguono le alterne vicende di un protagonista che deve mostrare di essere il degno erede d’un genitore ormai vecchio. E però le fiabe non parlano solo di questo, del bene e del male e della necessità di perseguire il bene, ma anche del male e del suo potere di attrarre. E non è un caso, del resto, che nelle fiabe, anche solo per un momento, il male sembra prendere il sopravvento, sembra essere più interessante, desiderabile.
Le fiabe insegnano a lottare, a costruire una vita carica di significato, costruita a partire da legami duraturi ed autentici. Perché solo questi legami alleviano la paura della morte, portano all’accettazione di questa vita, con tutti i suoi limiti e le sue mancanze…e vissero a lungo felici e contenti…non per sempre, appunto. In questa ottica la morte fa meno paura e il desiderio di vivere per sempre lascia il passo alla pienezza di una vita vissuta all’insegna di autentici legami. Le fiabe insegnano a crescere, a superare l’angoscia della separazione, a staccarsi dalla madre sapendo che non è lì, ma altrove, che va ricercata la felicità – proprio come Hansel e Gretel, costretti ad affrontare numerose peripezie (compreso il rischio della morte) prima di poter abbandonare la condizione dell’infanzia e poter finalmente crescere. L’eroe della fiaba, così come il bambino, deve lasciare le certezze della casa e della famiglia ed uscire nel mondo: solo così potrà trovare se stesso, ma anche (in prospettiva) un’altra persona con cui potrà felicemente vivere la sua vita, rinunciando definitivamente al sogno allucinato – e funesto – d’una vita vissuta all’insegna dell’angoscia della separazione (dai genitori) e della paura (del mondo e delle sue asperità). Abbandonare i “desideri infantili di dipendenza” e costruire una vita veramente piena ed appagante all’insegna dell’autonomia.
L’importanza delle fiabe (e della letteratura in generale) per la vita dei bambini (e degli adulti). L’angoscia della separazione, il timore di essere abbandonati, la paura di non farcela, di non trovare da mangiare: non sono forse tutti questi dei timori che investono, e spesso travolgono, anche l’adulto? Non è forse costretto, l’adulto, nella morsa della paura e dell’incertezza? Non è in balia del timore della separazione, e cioè della difficoltà di affrontare sempre maggiori prove? Non si scontra ogni giorno con la necessità di abbandonare stati precedenti dell’esistenza, situazioni familiari e rassicuranti per andare incontro a ciò che è nuovo e che espone alla possibilità dell’insuccesso? Ma non sta proprio qui, al termine di queste prove, la promessa di un ulteriore sviluppo della personalità verso una maggiore autonomia? E se è vero che la fantasia (le fiabe, la letteratura) aiuta a superare l’infanzia, qualcosa di molto simile può esser detto per l’adulto…basta sostituire qualche parola, pensare qualche nuovo esempio, e il gioco è fatto.
…la capacità di estendere fantasie oltre il presente è il nuovo progresso che rende possibili tutti gli altri: infatti essa rende tollerabili le frustrazioni sperimentate nella realtà. Se soltanto potessimo rammentarci di come ci sentivamo quand’eravamo piccoli, o potessimo immaginare fino a che punto un bambino si senta sconfitto quando i suoi compagni di gioco o dei fratelli maggiori lo respingono…Soltanto esagerate speranze e fantasie di successi futuri possono ristabilire l’equilibrio e consentire al bambino di continuare a vivere e a impegnarsi.
Insomma, far proprie tali fantasie attraverso le fiabe significa darsi la possibilità di affrontare le grandi invidie e rivalità che scuotono ognuno di noi, di superare il timore del rifiuto quando non ci si sente i migliori, il sentimento di inferiorità che produce la consapevolezza dei limiti del proprio corpo. Queste fantasie, queste fiabe, permettono di costruire un fondo di fiducia, la speranza che nel futuro gli sforzi e le sofferenze del bambino (dell’adulto) verranno ripagate, che un mondo nuovo e migliore potrà schiudersi, che verso questo mondo si potrà andare nel rispetto di sé e dei propri mezzi.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Non sarà un caso, dunque, che nella mia esperienza di insegnamento gli autori più “persistenti”- e più amati, se si può dire- siano Ovidio (le Metamorfosi) e Apuleio (Amore e Psiche, la madre di tutte le fiabe occidentali).
Non sarà un caso neppure che Alan Turing, il dotatissimo e fragile matematico inglese accusato di immoralità,- come sempre curiosamente accade agli intellettuali scomodi-, si sia tolto la vita con una mela avvelenata al cianuro, come nella fiaba di Biancaneve, incarnazione dell’innocenza perseguitata.
No, non credo sia un caso. Sembrerebbe proprio che un certo tipo di storie, un certo tipo di narrazione, esercitino un fascino irresistibile. Non solo, viene da pensare che siano in grado di anticipare schemi di comportamento – e non solo dei bambini, ma anche (loro malgrado) degli adulti.
Mi accorgo di non aver più letto Bettelheim, temo, dalla sua morte, nel ’90, dall’urto del dover fare i conti con la depressione e la disperaizone di una persona che mi aveva sempre regalato serenità. Un autore importante, che mantiene molto da dire ed è bene non dimenticare. Quanto alle fiabe, la cosa molto difficile, e non riesco a capire il perché, è farne riprendere la lettura agli adulti, che non sanno più di amarle e di potervi trovare molto. Senza questo, difficilmente leggeranno per i loro bambini, o lo faranno male, trasmettendo squalifica; o delegheranno ai film di animazione, che non sono la stessa cosa (pur belli), di una voce che racconta per te o per il piccolo gruppo.
Sono talmente d’accordo che io questo libro (letto per la prima volta qualche anno fa) lo riprendo e lo sfoglio di continuo. È un esercizio necessario per l’adulto in quanto adulto, così come per l’adulto in quanto genitore. Di certo uno dei testi di Bettelheim che preferisco.