Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Noi diciamo pure di amare i nostri genitori, e in realtà li odiamo, perché non possiamo amare i nostri procreatori non essendo noi persone felici, la nostra infelicità non è immaginaria come lo è invece la nostra felicità, di cui ogni giorno cerchiamo di convincerci per trovare il coraggio di alzarci e lavarci, vestirci, bere il primo sorso, mandar giù il primo boccone.
Per Thomas Bernhard nulla, nessun argomento, nessuna relazione umana, nessuna aspirazione, nessun obiettivo, per quanto alto, può reggere alla prova della morte. Qualsiasi problema perde immediatamente importanza, viene privato di senso, se messo in relazione alla fine necessaria che attende ogni esistenza. Niente e nessuno può reggere l’urto della morte. È da questa posizione che si può provare a prendere le mosse per tentare un approccio adeguato a Goethe muore, ma anche, per estensione, all’intera produzione di questo grande, rabbioso e ferocemente ironico scrittore austriaco in perenne lotta con la cultura, la letteratura e la politica del suo tempo.
Goethe muore è una raccolta di quattro racconti tutti pubblicati negli anni Ottanta e tutti, in qualche modo, attraversati (e tenuti insieme) da coppie di opposti presi in una lotta incessante: passato-presente; genitori-figli; filosofia-letteratura. Sarebbe troppo lungo, e forse inutile, stare qui a descrivere nel dettaglio le trame dei diversi racconti, e non sarebbe nemmeno un problema svelarle (queste trame) al lettore che voglia misurarsi con questo libricino, dato che qui, come per tutta la grande letteratura, non c’è nulla da anticipare: qui non si tratta di trama o colpi di scena, qui si tratta solo ed unicamente di uno stile e di un fraseggiare che non possono esser traditi (e cioè anticipati e prefigurati) da parole altrui: non esiste discorso che possa correre parallelamente a quello dello stesso Bernhard (figurarsi poi il mio!). Potrebbe darsi solo un timido richiamo, un dire sbiadito, un discorso ridotto a pallido e confuso balbettio che nulla avrebbe a che fare con l’irruenza del discorso (e cioè dello stile) di Bernhard, dove le pagine sembrano tutte scritte ad alta voce, perentorie, dure, piene di spigoli e dirupi, mai piane, tutte dettate dall’inquietudine e dall’urgenza, dal tempo che non può esser perso: in tutte le pagine di questi racconti balza agli occhi, all’orecchio, la preoccupazione di portare a termine un ragionamento prima che la catastrofe – sempre vagheggiata e sottilmente evocata – travolga tutto, riducendo la parola ad urlo, deformandola e riportandola ad uno stadio primitivo, prima del silenzio definitivo. Discorso, sia chiaro, che non è mai rivolto a nessuno, ma che pare sempre svolgersi da se stesso, per se stesso, in se stesso, incurante del lettore che, in realtà, viene preso e risucchiato nella pagina, sbatacchiato e maltrattato, ridotto a materia da plasmare, medium del discorso e non suo destinatario.
Al centro del racconto che apre e dà il titolo alla silloge c’è il vecchio Goethe che sta per morire e che, ormai convinto dell’inutilità della letteratura, vuole conoscere il filosofo Wittgenstein, di cui è grande ammiratore e di cui si crede, in qualche modo, il vero padre spirituale. Un uomo incapace di liberarsi dal legame di odio e dipendenza nei confronti dei genitori e che si rinchiude nella biblioteca di famiglia è al centro di Montaigne, rappresentante di quella schiera di filosofi che soli, con le loro opere, possono aiutare a salvarsi, a non impazzire definitivamente. Ancora sulla famiglia come teatro di soprusi, angherie ed umiliazioni, tanto morali che fisiche, si snoda Incontro. La raccolta si chiude con Andata a fuoco, un vero e proprio atto d’accusa dell’autore contro la “sua” Austria cattolica e nazionalsocialista che assurge a simbolo di ogni ipocrisia, idiozia, violenza.
Goethe e Wittgenstein (e solo nella finzione del racconto si poteva avanzare l’ipotesi di un loro incontro – in ogni caso impossibile) sono, per Bernhard, i rappresentanti di due mondi lontanissimi, separati da uno iato incolmabile. Uno, quello di Goethe, un mondo morente, ancora forte d’un passato memorabile, cresciuto e fattosi grande nutrendosi di progresso ed ottimismo (che hanno trainato Settecento ed Ottocento), dall’altro uno dei più grandi testimoni dell’inquietudine che ha caratterizzato il Novecento, la ferma volontà di rompere col passato e con le sue illusioni e teorie consolatrici (progresso, civiltà, razionalità). In questo senso la grandezza di Goethe, e dell’epoca che rappresenta, manifesta tutta la propria debolezza non solo nel suo essere destinata a tra-passare, ma anche nella sua non accettazione di questa condizione, della sua necessaria scomparsa e nel fatto che quel futuro (di cui non riesce a capire e concepire tutta la portata distruttiva) non vuole padri e non intende ereditare nulla; che quel futuro si ritiene e si pensa senza radici, sradicato. Goethe è proprio questa volontà di discutere, di incontrare per dare la propria benedizione a quello che sta per sopraggiungere. Il problema è che questo futuro non sopraggiunge (con tutto il suo carico di paura, ideologia e misconoscimento della sua stessa natura) per prendere il testimone o dare il cambio, ma per distruggere e spazzar via quel che è stato. È per non vedere tutto questo che Goethe si illude di poter guardare a Wittgenstein come al suo figlio filosofico. La volontà di lasciare qualcosa in eredità, del resto, è un modo per non morire per davvero, per coltivare questa pia illusione.
Vecchio/nuovo, passato/presente, tradizione/innovazione, queste le coppie fondamentali. Si è parlato di chi non riconosce padri (non volendo riconoscersi figlio di nessuno, tipico di ogni rivoluzione, sia politica, che esistenziale, che filosofica) e di chi vuole a tutti i costi imporre la condizione di figlio (ed imporsi come padre, tipo Goethe). Tutto questo ha portata universale, ma Bernhard (anche sulla scorta della sua esperienza personale) la cala nel particolare, nella carne viva dei rapporti famigliari, in quel teatro della crudeltà che è la casa, così come in quel rapporto figli-genitori mediato dal concetto (ambiguo, pieno di insidie e di lasciapassare per la violenza) di educazione. Qui il furore logico di Bernhard raggiunge il suo apice. Figli che covano risentimento verso genitori che hanno dato loro la vita e, con questa, l’esposizione alla morte, alla sofferenza, al fallimento, a quello stesso male che proprio i genitori – per mezzo dell’educazione, appunto – per primi iniziano ad infliggere ai figli, privandoli della libertà, dell’affetto. Un odio che all’apparenza separa, ma che lega profondamente, non essendo altro che il rovescio di un amore mancato.
…in quarantadue anni non sono riuscito ad affrancarmi da loro, benché per tutti i quarantadue anni della mia vita non abbia avuto in mente nient’altro che affrancarmi; sottrarmi a loro non mi è mai stato possibile, nemmeno per un tempo brevissimo, poiché, se mi sottraevo, il mio era solo un presunto sottrarmi […]. Dal preciso momento in cui non sono stato più capace di uscire da questa mia dipendenza da loro, dal momento in cui essa è divenuta la mia condizione naturale…
Il filo rosso che lega le poche, ma dense pagine di questo splendido libro (alcune impressioni e riflessioni di cui è stato responsabile sono QUI) porta, almeno per come sono riuscito a seguirlo, ad una riflessione sulla libertà. La via per questa libertà passa per il disprezzo ed un’autonomia senza odio (collante universale che incatena e avvince) rispetto a tutte quelle istanze (famiglia, cultura, società, Stato) che instancabilmente lavorano per soffocare l’individuo, per imbrigliarlo nelle strette maglie del conformismo. Odiare non basta, è necessario tirarsi fuori dalla contrapposizione fra vittima e carnefice, dalle colpe sputate in faccia ai padri, così come dal senso di colpa che i padri giorno dopo giorno instillano nell’animo dei figli per mezzo di continue ingiurie. Liberarsi dall’odio, ma anche, quindi, dal concepire la propria spinta verso l’autonomia e la libertà all’ombra del giudizio dei genitori, rappresentanti del senso comune e della massa.
Sei sceso a patti con i tuoi carcerieri. Loro ti hanno inculcato come bisogna leggere i libri e guardare i quadri, come bisogna ascoltare la musica. Ti hanno inculcato come bisogna gridare nel bosco per ottenerne l’eco, e tu non hai opposto resistenza.
Bisogna liberarsi dal senso di colpa che i genitori impongono ai figli, uno dei molti modi che hanno di ucciderli, per attentare alla loro vita, imputando loro, ai figli, la colpa di tutto, sia che siano come i loro stessi genitori, sia che abbiano scelto diversi sentieri del pensiero. Svincolarsi significa abbandonare la via sicura, la terra battuta della cultura dominante per confrontarsi, in solitudine, con la Natura. Farsi guidare, a dispetto di tutto, della tragicità dell’esistenza, dalla “voglia di continuare a vivere, e non solo di prolungare l'[la mia]esistenza“. Significa seguire il nord, la natura nordica, farlo in solitudine, in segreto, in un modo che farà epoca anche se solo l’individuo nella sua unicità sarà consapevole della portata epocale della sua solitaria ricerca dell’autenticità. La bontà di tale progetto si misura ritornando ossessivamente sul limite assoluto, la morte. Solo chi sa che la partita è persa in partenza può tentare la via della libertà e dell’autenticità. Le ultime parole pronunciate da Goethe devono riecheggiare nelle orecchie e sulle sue labbra di chiunque tenti questa impresa. Mehr nicht! e cioè Più niente!
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Un altro autore di cui ho sentito più volte parlare ma che non ho ancora affrontato. Dovrò quindi essere disposta a farmi maltrattare e sbatacchiare, prima di iniziarlo. Ma se alla fine di tutto c’è alla base una riflessione sulla libertà, sui sensi di colpa imposti a cui è giusto cercare di affrancarsi, allora forse ne vale la pena. Anche il discorso sulla morte mi pare che meriti un approfondimento. La tua recensione è una vera perla, perché sei riuscito a comunicare l’essenza di questi racconti senza svelare alcunché della trama.
Grazie. Bernahrd è stato un autore decisamente controverso. Ed è proprio su queste contraddizioni che sono levate tanto dure critiche, quanto entusiastici apprezzamenti. Personalmente sono qui a rileggerlo per la seconda volta, con qualche anno in più e rimane un grande autore. Da leggere.
Adoro Bernhard. Ho letto molto, di suo, ma per fortuna ho ancora tanto da leggere, di suo. Questo Goethe lo pregusto da parecchio, e pregusto anche come mettere insieme il Goethe di Bernhard con il kunderiano Goethe de “L’immortalità ” che nell’aldilà se ne va a spasso conversando amabilmente con Hemingway e il Goethe della “Carlotta a Weimar” di Thomas Mann…
Come scrivevo più sopra, ho ripreso a leggere le opere di Bernhard dopo qualche anno di distanza. I suoi racconti e romanzi mi paiono sempre più belli e pregnanti. Da rileggere ogni lustro. Quel Kundera mi manca e, a dire il vero, è anche lui uno di quegli autori che forse ho letto troppo presto. Amori ridicoli è di certo quello che più mi ha colpito.
I primi romanzi di Kundera sono tutti bellissimi, anche se il Kundera che io veramente amo è il saggista e musicologo. Bernhard è straordinario (il mio preferito è “Estinzione”, in cui c’è veramente la summa) ma appunto perchè autore densissimo bisogna prenderlo a piccole dosi, per non rischiare l’overdose (pessimo gioco di parole, ma tant’è 😉
E… molti lo trovano deprimente, Bernhard. A me non fa quest’effetto, al contrario.
Non conosco il Kundera saggista, ma solo quello dei romanzi. E quanto a Bernahrd la penso esattamente come te, tutto fuorché deprimente, direi più un fiume in piena, esaltante.
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