Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
No ma vedete, io devo spiegare tutto perché io non, noi non sappiamo quanto tempo è rimasto e io devo lavorare sul, devo finire questo mio libro e insomma mi sono portato tutta questa pila di libri appunti pagine ritagli e Dio sa cosa, devo ordinare e organizzare, per il giorno in cui questa proprietà verrà divisa…ho l’impressione che mi stiano demolendo pezzo pezzo…perché di questo si tratta, di questo parla il mio lavoro, il collasso di tutto, dei significati, del linguaggio, dei valori, dell’arte, disordine e dissesto ovunque si guardi, l’entropia che inghiotte ogni cosa visibile, intrattenimento e tecnologia e bambini di quattro anni tutti dotati di computer, ciascuno è artista di se stesso da dove è venuto tutto ciò…
L’intera produzione di William Gaddis può/deve esser letta attraverso il filtro di una tematica per lui fondamentale: il problema della contraffazione, del rapporto fra copia e originale, lo statuto dell’artista nella società contemporanea, l’opera d’arte ridotta a merce da consegnare ad una massa di fruitori ottusi ed incapaci di idee e prospettive originali sulle cose. L’opera di Gaddis ha già trovato spazio in questo spazio, anzi, proprio il confronto (ad armi impari) con un’opera di William Gaddis, il monumentale e controverso JR (QUI) ha segnato, in qualche modo, la nascita di questo spazio, è stato uno dei primi, scomposti, vagiti. L’agonia dell’Agape occupa un posto particolare nella produzione di Gaddis. È la sua ultima opera narrativa, uscita postuma nel 2002, eppure questo è un testo su cui Gaddis, passando per innumerevoli ripensamenti, ha lavorato per cinquant’anni, fin da quando, ancora giovane, lavorava per il New Yorker e gli era stato commissionato un articolo sullo sviluppo della “pianola meccanica”. Il lavoro era presto diventato per Gaddis qualcosa di più di un semplice pezzo giornalistico, ma la possibilità di portare avanti una ricerca che fosse anche una meditazione – come già accennato – sul ruolo dell’artista e dell’opera d’arte in un’epoca segnata dall’incredibile avanzata della “tecnica” e dalla possibilità di riprodurre e quindi diffondere “indiscriminatamente” opere d’arte attraverso pianole, grammofoni, incisioni su disco (e, per estensione, ogni espressione artistica in senso ampio). Il precipitato delle riflessioni di una vita viene a depositarsi in quest’opera che si presenta come un flusso di coscienza in cui il protagonista si rivolge con voce personalissima e disperata al lettore stesso, alla ricerca di qualcuno che, in un mondo che va in pezzi, sia ancora in grado di concepire l’arte nella sua grandezza, senza degradarla a intrattenimento e piacere passeggero che nulla muta nel mondo e in chi la fruisce.
L’agonia dell’Agape narra la storia di un vecchio scrittore gravemente malato e sul punto di morire che giace sul letto d’ospedale e che cerca, con le ultime forze che gli rimangono, di mettere insieme gli appunti di una vita. La sua è la lotta contro l’entropia che investe tanto il corpo (concepito – e non casuali sono i riferimenti a Platone – come “prigione dell’anima”), quanto il senso, il linguaggio, il mondo dei valori. Eppure lo sguardo di Gaddis, così come quello dello sconsolato vecchio che parla con le ultime energie che gli rimangono, è quello di chi è incapace di mettere ordine, anzi, si potrebbe dire che la stessa volontà di fare ordine fra le cose sia uno dei caotici e casuali frutti del disordine stesso: una reazione che nasce dall’orrore di fronte al disordine del Reale, proprio come (per attualizzare) è diretta emanazione dell’entropia e della morte come meta ultima di ognuno di noi quell’orrore (sempre misconosciuto) che spinge a tenersi in forma, ad essere sani, a fermare l’invecchiamento.
Tutto diventa un oggetto commerciale il mercato stabilisce il prezzo. E il prezzo diventa il criterio di ogni cosa.
Il lavor(-i)o della pubblicità, la mercificazione dell’arte, del gusto, l’arte abbassata a divertimento fra gli altri, queste sono le ossessioni che ritornano senza soluzione di continuità nel non-discorso, nello stra-parlare del vecchio malato che più che da una logica viene mosso da una s-logica che procede secondo salti e ragionamenti confusi e tortuosi, degli s-ragionamenti che hanno, però, un senso e che proprio per questo motivo si caricano via via di una sempre maggiore tragicità, di rigore morale.
Bisogna prestare attenzione. L’intrattenimento non è mai neutro e mai senza insidie e cattiva coscienza. William Gaddis, in questo senso, aveva intuito con grande anticipo i pericoli che si nascondevano dietro questa concezione dell’arte. Il mercato eleva ed esalta (ma solo per scopi commerciali) il consumatore, lo invita ad osare e lo spinge a “scoprire il proprio talento”. Talento. Non si parla d’altro, del resto. Tutti hanno un talento, basta tirarlo fuori. E per farlo l’industria dell’intrattenimento offre un’infinità di mezzi. Si balla, si canta, si legge, si scrive, si fotografa…tutto diventa una prova muscolare, solo che anche i pesi e le misure per giudicare del “talento” da scoprire e mostrare al mondo sono in mano a quella stessa industria dell’intrattenimento che invita a “scoprire il proprio talento”. La bestia si morde la coda, i soldi girano, gli affari si fanno sempre più voluminosi, e tutti si gettano nella mischia, alla scoperta del talento (chi ne è veramente immune?). Come ubriachi, a questo punto, è facile, facilissimo, confere il proprio barcollare scomposto con la libertà di movimento, con l’originalità, lo stile.
Questi ventriloqui e questi io separabili allevati allevati e clonati per essere riprodotti perché è questo il cuore di tutta la questione, là dove si perde l’individuo l’unicità è persa, là dove si perde l’autenticità non è persa semplicemente l’autenticità, ma l’intero concetto di autenticità, quell’amore per la bella creazione prima che sia creata…
Da Platone fino a Nietzsche, passando per Tolstoj, Byron, Keats, Beethoven, Bernhard, Emerson e tanti altri ancora (così tanti che qui non li si può citare), William Gaddis richiama con un grido di dolore al progressivo svuotamento dell’arte. Non solo allo svuotamento delle opere da parte di un pubblico sempre più ampio e sempre più ottuso; ma anche allo svuotamento di arte, nel senso che la società contemporanea tende sempre più a velare e a nascondere e a contraffare la verità dell’arte coltivando, al suo posto, “autori” che non sono più artisti nel senso proprio del termine e relegando in un angolo coloro che, invece, sono ancora in grado di creare qualcosa di nuovo, qualcosa che non si piega al gusto, e cioè alla mancanza di gusto, del grande pubblico.
Necessario, a questo punto, richiamarsi al titolo dell’opera. Agape è un termine biblico. Poco usato in greco, solo a partire dal Nuovo Testamento (in cui compare solo poche volte) assume un significato preciso, capace (almeno per un certo periodo) di condensare il cuore stesso del messaggio cristiano: Agape indica il puro amore di Dio, il dono d’amore di cui solo Dio è capace, amore come “grazia”, come dono senza attesa di qualcosa in cambio. Nulla aveva Agape a spartire con Eros, che è amore innervato di un desiderio che, per darsi nella sua pienezza, vuole raggiungere ed appropriarsi della cosa amata. Agape è amore senza appropriazione. Ma Agape, inoltre, designava la comunione, la comunità dei primi fedeli resa possibile dall’amore senza condizione di Dio. È alla luce di tale duplice significato che, forse, si può leggere questo ultimo romanzo di William Gaddis, questo testamento, questo grido di dolore, questa richiesta d’aiuto e insieme atto d’amore verso i lettori, i grandi scrittori, le grandi opere. Mettere in guardia contro il pericolo di una produzione d’opere non autentiche, prive d’amore incondizionato, scritte per ottenere recensioni favorevoli o il facile plauso del pubblico; ma, anche, grido per scongiurare il rischio di cadere nel silenzio e nella solitudine più assoluta, grido per scongiurare il disgregarsi di quella comunità di uomini che può ancora trovare fondamento nelle grandi opere e in quei grandi autori che hanno donato senza risparmiare nulla di loro stessi. È nelle parole che Flaubert scrive a George Sand che risuona il senso (contraddittorio, severo, rigoroso, a tratti respingente) di questo amore.
Penso che la folla, il numero, il branco sarà sempre detestabile. D’importante non c’è che un drappello di anime, sempre lo stesso, che si scambiano la fiaccola.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Bella recensione, appropriata scelta della materia da parte tua, mi ha colpito – calcolando quando l’opera è stata scritta – l’anticipo sui tempi dell’autore. Era probabilmente il tempo quando ancora l’America ci precedeva, adesso ormai appunto con la tecnologia, la sintonia è in tempo reale.
Tra l’altro, non a caso l’autore scriveva per il New Yorker.
Resta che quel signore ha visto con una terribile lucidità il caos mercificato in cui oggi tutti viviamo.
Eloquente sintesi, proprio perchè lapidaria, la frase finale di Flaubert. Chiusa perfetta. 🙂
Si, tutta la vita (e l’opera, così come la “fortuna” editoriale) di Gaddis è segnata da questa sorta di ossessione per la mercificazione dell’arte e, per lui, dell’uomo stesso. Ha subito le conseguenze di tale condizione di fatto, per anni (dopo la pubblicazione del suo primo romanzo, Le perizie) non ha scritto nulla. Meglio, ha scritto, ma non per pubblicare…e solo dopo molto tempo ha deciso di ripresentarsi con un’opera (JR). Senza dubbio uno scrittore difficile da leggere, assai controverso, ma fondamentale per comprendere un filone di pensiero, un genere letterario e, non da ultimo, riconoscere i suoi figli d’arte (che sono tanti).
Ti ringrazio peraltro perchè non conoscevo quest’autore e io amo molto la letteratura americana.
L’ho già individuato in biblioteca, nel frattempo però ho Tragedia americana e Froer in lista.
Vedo di sopravvivere… 🙂