Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Queste righe avrebbero dovuto venire prima, mentre quello che doveva venire dopo è stato anticipato (qui). Le cose sono andate diversamente. In ogni caso queste righe dovevano giungere (anche se per un ragionamento necessario solo ed unicamente per me). Eccole, queste righe. Matilde Colvera è il vero nome di Matilde Colvera così come il mio vero nome è Tommaso Aramaico. Tutto quello che segue risponde a verità, ma è bene sottolineare che le cose non sono andate così come sono di seguito descritte. Nulla di quanto segue è falso, eppure si può dirlo vero. Basta partire da una posizione che porge il fianco ad innumerevoli critiche ed obiezioni: quello che segue è veramente successo anche se è frutto dell’immaginazione; raccontare non è dire la verità ma svelare qualcosa seguendo percorsi più o meno tortuosi; raccontare non è ri-presentare ma falsificare a partire da un interesse più o meno nobile.
Matilde è più di un’amica, è quasi una sorella. La nostra conoscienza affonda le radici nell’adolescenza, fra i banchi di scuola. Gomito a gomito abbiamo attraversato il triennio fino alla maturità. Lei con risultati lusinghieri, io meno. Lei scriveva orribili poesie che mi faceva leggere, tutta trepidante; io tremende prose che lei immancabilmente stroncava. All’università abbiamo frequentato facoltà diverse, ma nello stesso edificio. Lei sa quasi tutto di me, io suppongo di sapere quasi tutto di lei. O forse no? Ma insomma. Matilde, dopo numerose relazioni (fra le quali io pateticamente non figuro), terminati brillantemente gli studi e trovato un lavoro mal pagato ma appagante, ha conosciuto un uomo, Diego, (tanto diverso da me da farmi sentire offeso) e sono andati a vivere insieme. Fra le tante conseguenze di questa relazione c’è stata una gravidanza. E così si arriva finalmente al centro della questione. Dopo una veloce visita all’ospedale, a disagio fra parenti urlanti e piangenti (in entrambi i casi per la gioia), io e Matilde ci siamo dati appuntamento a casa sua. Dopo una decina di giorni dal lieto evento, esauritosi il furore dei parenti, mi sono presentato a casa sua. Diego era a lavoro. Diego ha provato in tutti i modi a separarci, era del tutto incapace di tollerare la nostra antica conoscenza, il fatto che io la conoscessi (e che ancora oggi la conosco) meglio di lui. La sua rabbia (legittima), che al principio era silenzioso astio, alla fine era esplosa in una vera e propria rissa con tanto di spintoni, minacce e botte. Da quella tremenda vicenda Diego ne è uscito due volte sconfitto. La prima con me, perché ero stato obbligato a spaccargli il labbro e a togliergli il fiato con un calcio allo stomaco; la seconda per mano (o bocca) di Matilde, che s’era rifiutata di troncare la nostra amicizia e l’aveva pesantemente offeso. Insomma, quel giorno Diego era fuori per lavoro. Matilde mi aveva preceduto per il lungo e stretto corridoio reso buio, polveroso e soffocante da due enormi librerie che salivano dal pavimento al soffitto. E mi aveva fatto accomodare in soggiorno, che poi costituiva buona parte del bilocale in cui viveva da anni e che avrebbe dovuto essere ristrutturato da cima a fondo. Un classico appartamento di quella parte della città, zona semiperiferica, non molto lontano, del resto, da dove abito io.
Matilde diceva che Diego le sembrava ogni giorno più stanco e depresso. Aveva perso peso. Mi diceva queste cose mentre io bevevo birra e mangiavo patatine e lei sorseggiava una tisana per l’allattamento e divorava un biscottino dietro l’altro riempiendo di briciole la vecchia poltrona tutta lisa su cui stava seduta. Indossava pantaloni della tuta, una maglia larga, bianca, tutta slabbrata. I capelli lunghi erano tenuti fermi dietro la nuca con una bacchetta di legno. Era a piedi nudi. Sembrava la stessa Matilde di sempre, ma poi il discorso ha preso una direzione inaspettata. O meglio, una direzione del tutto prevedibile, ma seguendo un percorso che non mi sarei mai aspettato. Matilde ha iniziato a raccontarmi il suo parto. Le contrazioni che iniziavano e poi sparivano. Il viaggio in ospedale, le ventose sulla pancia, la visita ginecologica, il tracciato che la rispediva a casa, la stanchezza, la paura, la rabbia verso Diego, così sciocco nel suo voler essere efficiente a tutti i costi. Tutte cose note, quelle che diceva, solo che lei ne parlava come fossero uniche. Come sempre i suoi occhiali li aveva dimenticati chissà dove e doveva vedermi un poco sfocato pure nell’esigua distanza che ci separava. I suoi occhi erano, come sempre, enormi e piatti. Chi cerca la profondità dello sguardo deve evitare gli occhi di Matilde. Con lei ci si scontra con una pura superficie. Due macchie scure su sfondo d’albume, capaci di vedere.
Ho vuotato un pacco formato famiglia di patatine e ingurgitato la serie da sei birre da 33cl che lei aveva preparato appositamente per me, conoscendo alla perfezione i gusti (dozzinali, lo ammetto) del sottoscritto. Buttavo dentro, seguivo ogni linea del suo corpo, il seno gonfio, le cosce, i fianchi, cozzavo contro i suoi occhi, ma niente, Matilde si ostinava ad imporsi come voce, come amica-sorella che voleva parlare e che pretendeva di essere ascoltata, punto e basta. Parlava del suo parto, non di quanto era durato il travaglio, non dell’epidurale o cose del genere, no. Parlava del suo parto. Diceva che aveva urlato e che Diego era lì, accanto a lei, assolutamente impotente, e che era tanto ridicolo che lei gli aveva chiesto di andarsene perché le era solo di intralcio; mi diceva che aveva mandato affanculo un’infermiera e pure l’anestesia e che il marito l’aveva accarezzata, per portarla alla ragione, e lei l’aveva morso alla mano con tutta la forza che aveva. Mi ha detto che mentre faceva la matta, fra le proprie cosce aveva visto, tipo in visione, qualcosa come un fiore devastato e grondante sangue e che da quel momento le avevano detto che doveva iniziare a spingere. E così aveva capito che l’unica cosa vera che le avevano detto del parto era proprio quella: che a un certo punto si veniva presi da una voglia incontrollabile di defecare. Solo allora aveva smesso di urlare. Il bambino picchiava contro le cosce e il sedere come un forsennato cercando di sventrarla, il dolore le strappava via le orecchie, le faceva schizzare gli occhi fuori dalle orbite. Matilde sorseggiava il suo intruglio, i biscotti li aveva mangiati tutti. Parlava a bassa voce, senza guardarmi, specchiandosi sulla superficie fumante della tisana. Diceva che lui, il figlio, l’aveva lacerata, che loro, i medici, credevano di averle praticato un’incisione, ma erano degli sciocchi: era lui, il figlio cui faceva riferimento senza chiamarlo mai per nome…era stato lui e nessun altro a lacerarla, in modo impressionante. Matilde beveva e la sua testa era leggermente inclinata sulla sua destra, un’asimmetria quasi impercettibile, ma che la metteva fuori asse con se stessa. Lui l’aveva lacerata, lo ripeteva ossessivamente. Era stato un attimo, tre spinte, e proprio mentre era lì a pregare per morire sul posto, se l’era ritrovato sul petto, sporco, urlante, che puzzava di sangue, del suo sangue, da dare il voltastomaco. E Diego era lì, stupidamente commosso e felice perché lei aveva portato a termine la sua missione. Le ripeteva che era stata brava, lo sciocco, e non sapeva, non poteva immaginare quello che si agitava in lei, che fino pochi istanti prima si sentiva sfinita e sul punto di svenire e morire. No, non poteva nemmeno immaginare che s’era sentita improvvisamente enorme, potente, euforica. Era cosi euforica che l’avrebbe sbattuto a terra, quel bambino, sbattuto a terra e poi smembrato, tanto era grande la consapevolezza di quanto quell’essere fosse suo. Ed era stato un bene che glielo avevano subito tolto dalle braccia per affidarlo a chi, a differenza di lei, non gli avrebbe mai fatto del male, a chi l’avrebbe lavato e pesato e sottoposto ad un primo esame per stabilirne le condizioni. Era senza occhiali e nella sala parto il figlio era ridotto a macchia in movimento, eppure ne sentiva l’odore e quell’odore lo riportava in lei, ne sentiva il pianto disperato e quel pianto le faceva capire che da lei non sarebbe mai potuto veramente uscire, perché Matilde, ormai, sapeva che dal suo corpo non c’era via di scampo, che il suo corpo coincideva col mondo stesso, e che per quanto avrebbe in futuro cercato di allontanarsi, era sempre nel mondo, e quindi in lei, che il figlio avrebbe errato. Lo guardava, non lo perdeva di vista mentre le tiravano fuori la placenta e la analizzavano; lo guardava, gli occhi fissi sulla macchia urlante, mentre la ricucivano lì dove era stata dilaniata, lì dove era stato scavato un abisso per cui non c’erano punti, né toppe, né chirurgo e tanto meno un ingegnere dell’anima abbastanza capace da porvi rimedio. Come poteva fare qualcosa quello stronzetto sbarbatello che si era seduto davanti alle sue cosce divaricate ancora tremanti per lo sforzo e madide di sudore? Se ne stava lì con ago e filo, e lei sempre meno tollerava la presenza di Diego, così patetico mentre faceva il bagnetto al figlio o poneva sciocche domande o si voltava verso di lei. Come era patetico mentre il figlio urlava fra le braccia del neonatologo che gli infilava nelle narici un lungo filo per liberarne le vie respiratorie. E che pena per lo stronzetto che si impegnava con l’ago lì dove lei non riusciva e non voleva vedere, lì sul luogo del disastro, lì dove non sarebbero bastati tutti i punti del mondo perché mancava, all’origine, la materia su cui lavorare.
Matilde aveva smesso di parlare subito dopo l’ultimo sorso della tisana. Poi il bambino s’era lamentato nel sonno e Matilde, lesta, l’aveva preso dalla culla dove era stato fino a quel momento, lì vicino a noi, e l’aveva attaccato al seno gonfio di latte. Il bambino aveva aperto gli occhi, la fissava con occhi scuri ancora umidi d’eternità, persi in uno sguardo cui lei, questa amica che era sorella, non prestava attenzione. Non ho potuto trattenermi dal dirle che il bimbo la stava guardando, sperando che lei ricambiasse quello sguardo adorante. Ma lei non mi ha nemmeno risposto. Così avevo iniziato a provare paura e pena per quella creatura. O, più semplicemente, non capivo.
Poi Diego è tornato a casa, mi ha fatto un cenno del capo, per saluto. Aveva una mano fasciata fra pollice ed indice. Non l’avevo notato, all’ospedale. Mi è parso di leggere, sul suo volto, che non era giusto che io sapessi, del bambino e della madre, cose che lui non sapeva. Per la prima volta gli davo ragione. Dopo quasi venti anni, per la prima volta pensavo che nel rapporto che mi legava a Matilde ci fosse qualcosa che non andava. Non erano cose che dovevo sapere, quelle di cui mi aveva parlato. La sua voglia di ammazzare il bambino, il sangue che sgorgava, gli occhi fuori dalle orbite e tutto il resto. Avevo subito una violenza e per la prima volta non dovevo salutare la mia amica e sorella perchè era venuto il momento di andare. Volevo andarmene. Forse il latte che succhiava quel bambino sapeva di minaccia di morte e forse quel pericolo (trasformandosi in angoscia e malattie psicosomatiche e neurosi varie) l’avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni. Quanto può amare una madre? Quanti pericoli si nascondono in questo amore? Quali fantasmi? Questo era quello che doveva venire prima.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Ma non so se questo post doveva venire prima. La mia impressione è che mentre il primo post è in generale e mediato peraltro da un libro, questa è una case-history, è in un certo senso applicazione, riprova, testimonial del primo post. Però in quanto tale (un caso) ne consegue che l’emotività e i ragionamenti del lettore vanno su quei due protagonisti, quei due-due lì, che quindi ripeto, potrebbero rappresentare un caso particolare, cioè quel caso. (Una rondine non fa primavera)
Con questo, la validità del post, in quanto caso Matilde, è indubbia: c’è sempre e comunque il messaggio di quale coacervo di sentimenti può risiedere nell’animo umano (di una madre): momenti intrecciati anche opposti, amore-crudeltà e viceversa, ed eccetera-eccetera.
È un bel casino 🙂
Dici bene. È un post proprio su quella particolare figura di madre, ma di lì, da quel grumo contraddittorio, si potrebbe prendere le mosse per indivuduarne delle altre (di figure), anche molto diverse. È probabile che tutti quegli aspetti siano già in Matilde, solo che sono nascosti, magari solo momentaneamente, da quella ferocia che ha preso da subito il sopravvento, ma che potrebbe presto essere scalzata da ben altri sentimenti.
Essendo madre (nonna – e si aprirebbe un altro discorso sui figli che diventano madri e padri) ho letto ripensando alle mie, molto diverse, esperienze, alle tante verità e (confesso) alla difficoltà che provo, pur dichiarando sempre il contrario, al pensare che una donna possa mai desiderare il compagno in sala parto, a violare un mondo femminile, a entrare, con sacrilegio, nell’area sacra del femminile. La violazione, gravissima, di un tabù. E ho sentito giusta la tua reazione: “non erano cose che dovevo sapere”. Si apre un discorso immenso e si aprono tanti discorsi quante sono le madri che hanno messo al mondo figli e i padri che sono stati coinvolti nel fattaccio. Che poi ognuno porta con sé e in sé. Si apre il tema, anche qui immenso, dei riti e dei miti che sostengono l’esperienza, che le culture hanno creato e trasmesso, di cui oggi la nostra società sembra depauperata, privando le donne di un supporto (le altre donne intorno, i ruoli di sostegno e di riconoscimento, di iniziazione) la cui mancanza viene poi pagata cara, temo.
Hai scritto un’esperienza maschile preziosa, che, tra l’altro, nel momento in cui apparentemente manca una figura femminile accando a questa neo mamma, riporta anche alla altrettanto necessaria complicità positiva, di riconoscimento, di sostegno, dei maschi tra loro. Al bisogno del patto (la donna d’altri? No, credo sia: noi maschi, noi femmine). Occorre sapere chi si è per riconoscere l’altro.
Scusa la chiacchierata, pensieri in libertà, e neanche del tutto coerenti, ma hai scritto un pezzo molto coinvolgente e importante. Complimenti
Innanzitutto grazie per il commento così lusinghiero. È tutto vero – e del resto questo post è di per sé una invasione di campo, un parlare di cose che non si possono conoscere veramente, che attesta slittamenti e ruoli sempre meno definiti. È giusto che un uomo conosca o assista a scene e riti che affondano le radici negli strati più profondi, arcaici, della cultura e della psiche? Difficile a dirsi. E tuttavia porta a confrontarsi con dei cambiamenti reali e pone diversi problemi: quali forme (e relative distorsioni) può prendere la paternità? E la maternità? E come giustamente sottolinei: quale ruolo assegnare all’esperienza di quelle madri che potrebbero accompagnare le figlie a divenire loro stesse madri? Prima di pubblicare questo post pensavo che avrebbe potuto dare fastidio (se non peggio) alle donne e madri che l’avrebbero letto, data la clamorosa invasione di campo, ma il di più che si è sentito – o visto – deve necessariamente trovare forma e senso.