Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Molto si è parlato, ultimamente, del diritto di una madre di vedere, stringere fra le braccia e allattare il proprio figlio, molto (e a sproposito) si è parlato di un ipotetico bene del bambino da ricercare indipendentemente dalla madre, come se un bambino potesse accedere al bene anche senza una madre (cosa impossibile, posto che si sia disposti a non far necessariamente coincidere la madre e la funzione della madre con la madre biologica). Dopo una serie di post dedicati alle figure del padre potrebbe essere interessante dedicare tempo, spazio ed attenzione alle figure/forme che può assumere la madre. L’idea è nata dopo aver scambiato quattro chiacchiere con una neo-mamma e carissima amica che nulla sa di questo spazio. Forse serviva un po’ di tempo ancora, così come sarebbe stato meglio prendere le mosse proprio da quella chiacchierata (che sarà, comunque, il prossimo passo), ma i fatti, le sentenze, l’acido che sfigura, le chiacchiere sulla madre mostro o (il che è lo stesso) la madre vittima, così come le prime piogge, hanno fatto precipitare gli eventi. Non so se mi riuscirà di tenere viva l’intenzione (una serie di post sulla figura della madre), ma certo un buon punto di partenza, anche se sotto la prospettiva della psicoanalisi, la offre Recalcati con il saggio Le mani della madre. Questo saggio è interessante innanzitutto perché aiuta a sgomberare il campo della discussione dall’idea, dominante ed opprimente, che vuole la madre come un essere amorevole tutto luce e carezze e seno colmo di latte; Recalcati, al contrario, cerca di lasciare emergere un altro discorso, quello che racconta la madre anche e soprattutto attraverso il desiderio che la anima. Un desiderio che attraversa e supera la madre per come era voluta ed imposta dalla società patriarcale, una madre, però, che mostra il suo rovescio spaventoso, quella parte oscura che si cela dietro l’immagine rassicurante che la vuole come unico essere capace di dare un senso alla vita che ha donato al figlio. Nel caleidoscopio che in fondo è questo saggio, la madre è colei che sottrae il figlio all’angoscia dell’esistenza, è la grande soccorritrice, è mani che accarezzano, cullano, è labbra che parlano e baciano, è presenza che con il proprio amore costruisce un fondamento che rende la vita accettabile, che mette al riparo dalla disperazione che necessariamente suscita la realtà nella sua crudezza, realtà in cui il venire al mondo è evento irripetibile ma del tutto casuale, esposto alla possibilità della malattia, della morte, dell’abbandono. La madre è figura dell’attesa: attesa lungo la gravidanza, attesa e dedizione nella cura per la crescita del figlio. La madre è colei che attende e che porta in sé, nel suo intimo, nel suo stesso corpo, un essere che lei stessa non è, un essere che non conosce, che aspetta di incontrare pur contenendolo.
Ogni madre conosce bene il mistero di un’immanenza assoluta che è indice di un’assoluta trascendenza: il figlio vive nelle mie viscere, abita il mio ventre, si nutre del mio sangue, galleggia e sprofonda nei liquidi del mio corpo, eppure mi è sconosciuto, straniero, indecifrabile.
Ma la madre è anche colei che oltre a dare la vita deve liberare il figlio da se stessa. In questo trova il suo compito più arduo, amare avendo come fine ultimo il lasciar andare ciò che ama, consegnarlo ad un mondo pieno di senso. La madre deve contrastare la parte di sé che non vorrebbe mai lasciare il figlio, che vorrebbe appropriarsene come fosse un oggetto, quell’oggetto cui ha dato la vita e su cui, per questo motivo, ritiene (nelle viscere) di avere un diritto esclusivo. La madre deve saper attendere, lasciar essere il figlio, essere capace di non fare troppe domande, evitare di anticiparne la crescita, o di bloccarla con le proprie attese, le proprie proiezioni fantasmatiche, col pensarlo destinato a grandi cose, oppure vederlo come scarto, destinato al fallimento, votandolo fatalmente all’infelicità. In quest’ottica, il volto della madre è il primo luogo (simbolico) in cui il bambino può esistere, in cui venire all’esistenza dopo essersi emancipato dall’altro luogo (reale) che era il ventre materno. Nel volto della madre per la prima volta il bambino vede se stesso. È nel sorriso, negli occhi pieni di vita e futuro, sulle labbra della madre che il bambino trae la trama del suo essere, del suo essere desiderato ed amato per come è. Questa è la suprema dipendenza del bambino dal volto della madre, da uno spazio in cui sta scritta una sentenza che è di vita o morte. E questo perché la madre non sempre sa/può/è in grado di restituire al figlio il sentimento d’un desiderio autentico. Il volto della madre può essere attraversato dal dolore, dalla delusione, dalla malinconia, dal lutto, dal rifiuto per un bambino che non corrisponde alle sue attese o per una antica (o costitutiva) incapacità di accettazione, di essere madre (capacità che, evidentemente, nulla ha a che fare con la capacità di esserlo a livello biologico). Su questo volto può essere scritta una sentenza di morte, una non accettazione che priva il bambino del fondamento, di una necessaria fiducia in sé e, quindi, nell’esistenza. Il volto pieno di nubi della madre consegnerà il bambino e futuro uomo ad un mondo necessariamente ostile, ad un mondo che sarà da sempre luogo di pericolo, esposizione, in cui il futuro uomo sarà fatalmente esposto al fallimento, reale o solo paventato.
Quando il volto della madre non restituisce una risposta capace di riconoscere la vita, quando la vita non si sente desiderata dal desiderio dell’Altro, non si sente voluta ma si vive come straniera (…), appassisce, si sente gettata via, rifiutata.
Il pericolo, un’angoscia di fondo permeano l’esistenza di chi ha incontrato il silenzio, lo sguardo perso, le labbra tirate sul volto della madre. Una madre può essere incredibilmente efficiente, pulire, nutrire, vestire il suo piccolo, tenerlo al caldo, ma non è questo che tiene in vita il bambino, non solo attraverso questo può farlo. È l’essenza di queste cure che farà la differenza, il loro essere amorevoli, sostenute dal desiderio per un bambino amato, desiderato, voluto per come è, accettato per come sarà. Questo, in fondo, il senso del terribile esperimento portato avanti, secoli fa, da Federico II per comprendere l’origine del linguaggio nell’uomo. Federico affida dei neonati alle cure di alcune balie che devono provvedere a tutto e con tutti i mezzi per rispondere ai loro (dei pargoli) bisogni, ma il tutto deve essere portato avanti ad una sola, fondamentale, condizione: quella di non rivolgere loro la parola. Il risultato? Curati e nutriti e ben vestiti, questi bambini, privati della parola, del linguaggio, del senso, morirono (si lasciarono morire) uno dopo l’altro. La madre è cura sostenuta da desiderio, è sempre cura per questo particolare bambino dotato di un nome proprio, non è mai (se non nella sua forma patologica) una cura in generale. La madre è colei che sta presso il figlio, ma anche quella figura capace di allontanarsene, obbligandolo ad un dolore positivo che lo obbliga alla ricerca di una forma di autonomia. La madre è la capacità di modulare presenza ed assenza; è dedizione, ma non sacrificio o totale abnegazione. Dietro e accanto alla madre deve sempre stagliarsi la figura della donna, di quell’essere irriducibile alle cure per il figlio, sorretta (e sottratta al figlio) da un desiderio che la spinge, senza farla però sparire, a realizzare la propria natura. È la figura che si discosta dall’immagine tradizionale (alimentata da una cultura patriarcale) della madre solo madre e non più donna, ma anche scevra dei pericoli di una nuova ed altrettanto patologica figura della madre: la donna del presente e frutto dell’ideologia dominante, incapace di dedicarsi ai figli, che percepisce il figlio come minaccia per il proprio corpo, la propria autonomia e carriera.
La madre attraverso la sua capacità di donare vita e senso, ma anche come essere capace di togliere il senso o come incapace di donarlo, la madre mortifera, la madre che sente tutta la fragilità della sua condizione, la difficoltà del compito, l’enorme carico di responsabilità, ma anche la madre cinica, sprezzante, scontenta del figlio, madre che ha generato e si sente onnipotente, capace di riprendersi quella vita, rovinarla per sempre, imprimerle il marchio indelebile dell’infelicità. Molteplici sono le forme che può prendere, così come l’acqua che si adatta agli argini che incontra o li fa esplodere con tutta la sua potenza, che è generatrice e distruttiva al tempo stesso. Bisogna trattarla bene, questa madre. Con i guanti, perché delicata. Con i guanti, perché sommamente pericolosa, capace di affondare i denti nelle carni e iniettare veleni per cui non esistono antidoti. Per concludere, al fondo di questa carrellata di madri, c’è un invito, un’esortazione: essere giusti con la madre, riconoscere i fumi inquietanti che esala la sua figura, il suo corpo; osare pensare i pensieri che si agitano in noi quando il suo fantasma ci abita, ma senza mai perdere di vista la sua funzione vivificatrice. Nulla di più difficile, però, perché i genitori, i padri e le madri, sono fatalmente esposti all’errore, alla mancanza, e perché i figli sono quella stessa spinta ad amare e giudicare severamente coloro che hanno osato generarli, esponendoli alla certezza della morte. Difficile dimenticare tutto questo, anche se non bisogna mai sottrarsi all’arduo compito di essere giusti con la madre…persino con quella che abbandona il figlio senza mai allontanarsi da lui…
Il legame arcaico con la madre non è solo una palude mortifera da cui bisogna liberarsi, ma è in primis una donazione che rende possibile non solo e non innanzitutto della vita in quanto tale, ma del sentimento della vita, del desiderio di vivere.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Post letto dalla prima all’ultima parola.
Innanzitutto, perchè privo di retorica o slanci passionali deformanti, poi per la completezza di casistiche fino a dare un quadro esaustivo a 360 °, a cui niente aggiungere o togliere.
Svolto con l’impegno dell’obiettività, si sente. Che diventa contributo, utile, a capire se stessi e gli altri. Il che non è poco.
È tanto vero che mi ha dato modo di prendere coscienza di aspetti che non avevo mai considerato e a cui forse mai sarei arrivato.
È un post che andrebbe riletto nel tempo e meditato.
Ovvi i complimenti, anzi li faccio e li ritiro.
Graditi i complimenti e, soprattutto, il pudore che li ritira. Ovviamente, e per senso di giustizia, è offerto e al tempo stesso ritirato il gradimento (da te espresso).
Hai colto.
Corretto che i piatti della bilancia siano pari 🙂
Interessante questo saggio. L’argomento, da come l’hai sviscerato e presentato, mi interessa moltissimo, e credo proprio che mi procurerò il libro. Leggerò con curiosità e piacere la serie di post dedicati alla figura della madre. Facendo una veloce indagine su internet, ho scoperto che Recalcati aveva già trattato il ruolo genitore/figlio (e in particolare la crisi della figura paterna) nel libro “Il complesso di Telemaco”, di cui probabilmente sei già a conoscenza. Quoto anche, parola per parola, quello che ti ha scritto Guido.
Grazie. Si, di Recalcati ho già letto diverse cose (compreso il saggio su Telemaco). In realtà (ma vale solo se si ha uno specifico interesse) sono decisamente interessanti i saggi su Lacan, il celebre psicoanalista francese. Per quanto concerne i post sulla figura della madre spero di riuscire a tirare su qualcosa di sensato.
Tema difficilissimo e per sua natura irrisolto. Non ho ancora letto questo lavoro di Recalcati, e la cronaca di questi giorni, confesso, me lo fa distanziare, nel dolore-irritazione per la caterva di facili e devastanti prese di posizioni che si accavallano, senza che, sembra, nessuno tenga conto del dolore che ogni soluzione, o ogni scelta, comporterà; senza che, sembra, venga colta l’unicità di ogni essere mamma e di ogni bambino e della loro storia. Ho letto con molto interesse e grande condivisione. Compllimenti.
Hai descritto alla perfezione quella che è stata anche la mia reazione. Questo post era un modo per tenere le distanze da facili prese di posizione, dalla chiacchiera scomposta che vive di semplificazioni e dalla segreta volontà di chiudere gli occhi di fronte all’enorme, irrisolvibile, questione di cosa sia la maternità. Grazie per il commento.
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“Ma la madre è anche colei che oltre a dare la vita deve liberare il figlio da se stessa. In questo trova il suo compito più arduo, amare avendo come fine ultimo il lasciar andare ciò che ama, consegnarlo ad un mondo pieno di senso.” Sarebbe più corretto dire: lasciare andare ciò che per l’appagamento del proprio ego desidera possedere. Qui sta una delle radici di morte e violenza di cui anche le donne, nonostante le negazioni sociali ed ideologiche, è portatrice. Donna che, in una sorta di eterno ritorno, diventerà suocera feroce ed invadente perchè gelosa di quello che considera suo oggetto e non persona e su cui proietta i propri desideri. Poche diventano la madre che accudisce e poi libera. La maggior parte giocano il loro ruolo animale e mortifero come i padri da loro scelti.
Giusta precisazione. Coglie il senso di quanto cercavo di dire. Grazie per il commento.
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