Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Ho letto un libro. Un’opera breve, asciutta, in cui tutto era significativo, dove ogni parola se ne stava al suo posto di diritto. Un’opera, sia chiaro, nata non per una brevità studiata a tavolino per andare incontro alle esigenze del lettore pigro. Al contrario. E questo almeno per due motivi. Per prima cosa perché al lettore pigro in realtà piacciono i libri voluminosi (basti vedere quelli che stabilmente occupano le classifiche dei più venduti), libri che danno l’impressione di poter pescare a piene mani, lì dove la quantità è un valore, dove non c’è traccia del travaglio che comporta la ricerca della parola piena, ma solo una festosa e spettrale ingordigia. In secondo luogo perché quello che ho letto è un libro che procede per attrito, un libro che non fila liscio come l’olio, che ad ogni pagina obbliga alla rilettura, un libro che, in fondo, si dilatava per mezzo della qualità e non della quantità. Un libro dove il meno (di inchiostro e carta) era capace di accogliere, ospitare il più (del senso). Un libro austero, ma non nel senso di serio o duro, ma semplicemente un libro rigoroso, con una voce, una tonalità emotiva, un libro esasperante per il lettore alla ricerca di qualcosa di variopinto, coloratissimo, abituato a quei libri che, a leggerli, danno l’impressione di essere in balia di un gruppo di ragazzini che, a carnevale, ti tirano in faccia manciate e manciate di coriandoli, dove è tutto un turbinio di forme, colori, traiettorie, ma, di conseguenza, dove non c’è nulla su cui soffermarsi, nulla su cui tornare, nulla da pensare. Niente a che fare con quei libri in cui vige la regola dello stordimento, del divorare senza il ruminare, della goduria di chi vuole ancora e ancora del lettore-lonza (me la si passi, questa) che si perde in clamorose abbuffate, lieto di divorare cibi privi d’ogni capacità di dare vero nutrimento.
Ho letto un libro. Un’opera breve, asciutta, in cui tutto era significativo. Un’opera compatta, quasi monotona, caparbiamente orientata verso un preciso obiettivo. Niente a che fare con quei libri-fiume e (apparentemente) complessi; libri di cinquanta, cento, ottocento, mille pagine, tutti ugualmente lunghissimi perché tutti privi di necessità. Libri che non hanno nulla a che fare con quello che ho letto. Libro di cinquanta, cento, ottocento, mille pagine, libro compatto, libro-lampo, asciutto. Libro di una densità e compattezza sconcertanti.
Ho letto un libro che non ha nulla a che fare con certe opere obbligate alla moltiplicazione (proliferazione non necessaria) di pagine e parole, opere che non hanno nulla da dire e che quindi (come certi luoghi del web persi nell’inferno di un incessante e fatale aggiornamento, o la televisione, obbligata a trasmettere senza soluzione di continuità) non possono smettere di parlare. Semplicemente, non possono permetterselo: l’ipertrofia della parola non è qui creatività o comunicazione, ma conato inarrestabile di parola vuota. È anche per questo motivo che l’opera che ho letto, dove ogni parola era misurata e strettamente necessaria, significativa, non ha nulla a che spartire col proliferare della parola vuota in cui siamo immersi, ma si presenta come avamposto, luogo/spazio di opposizione e lotta. Opera che è un saper-dire che si lega necessariamente ad un saper-tacere, ad un saper-finire, opera in cui si assiste al saper-far-silenzio di un autore che chiede al lettore uno sforzo per “convivere col” e “condividere il” silenzio che spira da quelle pagine. Perché se è vero che la parola vuota non la può proprio smettere di blaterare, è anche vero, d’altro canto, che c’è sempre qualcuno che non può permettersi di non ascoltare proprio quelle parole vuote che, in fondo, non sono altro che uno schermo, un velo che vanamente tenta di nascondere il fantasma del silenzio del reale, quel silenzio che tutto avvolge e che tanto (e non a torto) spaventa, quello stesso silenzio di cui, in fondo, parlava il libro che ho letto: un’opera breve, asciutta, in cui tutto…
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Caro Tommaso, dimmi se ho capitato bene: hai letto un libro, è così?
Hai capito bene, Guido, era un’opera breve, asciutta, in cui tutto…
Io non so se hai letto un libro (un’opera breve, asciutta, in cui tutto), ma quella del lettore-lonza è una riflessione veramente superlativa. E tutto quello che hai scritto sui libri è tremendamente vero.
Grazie. Un paio di cose che rispondono a quei criteri le ho lette veramente. Una di un centinaio di pagine, l’altra decisamente più corposa, entrambe essenziali. Per scriverne, però, ce ne vorrà. Con i pochi mezzi che ho a disposizione (un cellulare e la connessione del campeggio) di più proprio non posso fare.
Meglio staccare, ogni tanto, così poi si riparte più carichi di prima.
Devo dire che ho davvero apprezzato, dopo una seconda, interessantissima lettura. E una terza. Mi si aprono domande.
Grazie. Mi lusinga il fatto che tu abbia dedicato a questo post un tempo ulteriore, concedendogli il beneficio della rilettura. L’ho buttato giù per riassumere (forse in modo confuso ed avventato) alcune impressioni che mi hanno suscitato un paio di libri in cui mi sono imbattuto e trarne (per quanto posso) un discorso più generale…
Pingback: Thomas Bernhard, Goethe muore | Tommaso Aramaico
Pingback: Del vecchio e del nuovo | Tommaso Aramaico
Pingback: Chi sei tu? Una certa idea di Letteratura | Tommaso Aramaico