Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
La persona depressa viveva un terribile e incessante dolore emotivo, e l’impossibilità di esternare o tradurre in parole quel dolore era già una componente del dolore e un fattore che contribuiva al suo orrore di fondo. Disperando, dunque, di descrivere il dolore emotivo o di esprimerne l’assolutezza a chi la circondava, la persona depressa descriveva invece circostanze, passate e attuali, legate in qualche modo al dolore, alla sua eziologia e causa, sperando se non altro di riuscire a esprimere agli altri qualcosa del contesto di quel dolore, la sua – per così dire – forma e struttura.
Ero, come ogni mattino presto, sul trenino per Ostia, diretto a lavoro. Un tipo sulla quarantina, alto e ben vestito, un poco sovrappeso, occupa il sedile accanto al mio. L’uomo è di quelli che, quando si muovono, fanno un mucchio di rumore, uno di quelli che, in qualche modo, hanno bisogno di annunciare al mondo (o quantomeno a quelli che li circondano) le loro intenzioni, cose del tipo, Sto prendendo il libro, il tablet, il cellulare e, al limite, non sto facendo nulla; uno di quelli che si guardano molto intorno e che vogliono che si guardi loro che si guardano intorno, il tutto in uno specchiamento da capogiro, in uno sguardo fra soggetti bendati; uno di quelli che paiono essere interessati a tutto o, almeno, di quelli che vogliono dare l’idea di essere persone aperte, cioè ricettive, e cioè fermamente convinte del fatto che in tutto, in qualsiasi luogo e momento, si possa trovare qualcosa di buono e stimolante. Sedeva a gambe larghe, incurante del contatto fra le nostre cosce. Ronfava un poco per l’affanno dopo lo slancio per infilarsi nel trenino prima che si chiudessero le porte. Dopo aver passato un minuto buono a contorcersi per tirare il cellulare fuori dalla tasca dei jeans con conseguente struscio coscia coscia e spalla spalla col sottoscritto, gli viene voglia di indirizzare a me la sua (a quanto pare innata ed irrefrenabile) curiosità, quindi riprende a contorcersi, questa volta, però, nel tentativo di leggere il titolo del libro che lui stesso mi stava impedendo di leggere. Raggiunto il suo obiettivo, sbotta: “Lei è uno di quelli che legge Wallace!”. Dopo una pausa di un attimo gli rispondo senza sapere, prima di ascoltarlo io stesso, quel che andavo dicendo: “Lei, invece, è uno di quelli che si rivolge ad uno sconosciuto di cui non sa nulla esordendo con frasi del tipo: “Lei è uno di quelli che legge Wallace?”? O sbaglio?”. Beh, la cosa più fastidiosa di questa storia è che il tipo, dopo la mia risposta, sia rimasto senza parole, che non avesse risposta più o meno pronta e più o meno intelligente e, in ogni caso, una risposta che mandasse avanti il piccolo diverbio, e non solo perché quella mattina mi ero svegliato di cattivo umore, ma anche perché non mi piacciono le persone che non si fanno i fatti loro e, in particolare, quelli che vogliono farsi i fatti miei (sono pienamente consapevole che queste righe contraddicono palesemente una delle posizioni che mi hanno strutturato fin dall’adolescenza: una certa idea, quasi maniacale, di riservatezza, un pudore che adesso, spudoratamente, vado tradendo – anche se, a mia discolpa, questo non può essere considerato un tradimento n tutto e per tutto, il racconto non è fine a se stesso, non è un semplice raccontare una strana situazione in cui sono incappato, ma solo un mezzo – forse inadatto – per tentare una via d’accesso a Brevi interviste…). Insomma, decisamente contrariato, sono ripartito alla carica, sempre rispettosamente. Cito a memoria: “Quindi lei è una di quelle persone che rivolge a dei perfetti estranei frasi del genere: “Lei è uno di quelli che legge Wallace”, perché è convinto, pur non sapendo nulla di chi ha di fronte, che io (o l’estraneo di turno che si trova di fronte) sia “uno di quelli”, mentre lei è, chissà perché, l’unico (o uno dei pochi) che può permettersi di leggere David Foster Wallace senza essere “uno di quelli” che leggono David Foster Wallace”. Insomma, mentre gli dicevo queste cose mi rendevo conto di non essere in nessun modo cortese e che, in qualche modo, stavo clamorosamente andando contro la mia natura. Il tipo, per fortuna, doveva scendere a Tor di Valle. Il che, per i non esperti, deve significare quasi subito. Questo piccolo episodio mi ha lasciato una brutta impressione, nonché una certa inquietudine. E se succedesse qualcosa del genere dopo averci scritto un post, su questo incredibile libro di Wallace? Un tempo andava di moda leggere Wallace, poi è andato di moda leggerlo senza farlo sapere in giro, poi di ritornare ad ammetterlo, ma senza dimenticare di aggiungere che questo genio aveva un limite e che questo limite era il suo stesso genio che non gli permetteva di autocomprendersi in quanto semplice mortale, ma lo inchiodava alla categoria “scrittore geniale”, appartenenza che, a quel punto, diventava un limite piuttosto che un punto di forza. Insomma, come scrivere su D.F.W. senza correre il rischio, speculare, a quello occorso sul trenino per Ostia? Come evitare il rischio di ritrovarsi impallinato da qualcuno che scrive (fosse anche privatamente e non fra i commenti), “Allora anche tu sei uno di quelli che leggono e scrivono di D.F.W.?”. Certo, adesso ammettere di aver letto e, però, dichiarare di non voler scrivere di D.F.W. rischia di far franare tutto e farmi entrare a pieno titolo nella categoria di coloro che leggono e però non scrivono, il che starebbe a significare che si vuol dar l’idea di non appartenere alla categoria di quelli che leggono e per giunta ne scrivono, e nemmeno a quella di “quelli che leggono D.F.W.”, ma a quella di coloro che leggono senza essere “uno di quelli” che leggono D.F.W. Il che comporterebbe tutta un’altra serie di clamorose contraddizioni ed aporie. Quindi, dato che questo preambolo, scritto per evitare obiezioni, in realtà ha l’effetto di suggerirne un gran numero, e visto che si presta a tutta una serie di obiezioni più o meno potenzialmente capaci di dare il via ad una serie infinita di altre obiezioni, allora è meglio lasciarsi andare direttamente alle pagine di D.F.W., ai crampi del pensiero cui conducono i suoi periodi, il cattivo infinito che spira dalle sue parole, l’allungarsi dell’ombra del dubbio che si fa iperbolico e che si trasforma in un dubbio che dubita di se stesso, in una volontà di verità che si svela come volontà di menzogna che, smascherata, riattiva il circuito di un dubbio che è, in fondo, cattiva coscienza, qualcosa come un “male radicale”, una sorta di malizia che inficia l’esperienza del mondo e mina alla radice la possibilità di un vero incontro con l’altro. La verità non è qui.
Di tale devastante verità questo libro è una sorta di campionario. Il dilatarsi all’infinito dell’esperienza di un tredicenne che non riesce a tuffarsi da un trampolino; la (falsa) differenza fra uomini che godono nel dare piacere e uomini chiusi nella ricerca del proprio soddisfacimento; uomini che abbandonano donne, facendole soffrire, mossi dalla paura di poterle far soffrire lasciandole in futuro; giovani depresse che svelano il contenuto della depressione come assoluta incapacità di uscire fuori da un guscio di dolore per paura di soffrire ed una sofferenza che è parte integrante di questa stessa incapacità di uscire da questo guscio di dolore. La giustamente celebre intervista a quell’uomo schifoso che usa il suo braccio deforme per farsi compatire e così portarsi letto una donna dopo l’altra.
È il braccio. A te non sembrerà questa gran dote, vero. Ma è il braccio. Lo vuoi vedere? Non è che ti fa schifo? Be’ eccolo qui. Ecco il braccio. Per questo mi chiamano Johnny Moncherino. È opera mia, sono un cinico che manco te l’immagini, io. Vedo che cerchi educatamente di non fissarlo. Avanti, guardalo. Non mi dà fastidio.
La carrellata di personaggi, storie, confessioni e situazioni è lunghissima e si dispiega davanti al lettore come un prezioso ventaglio di emozioni grazie all’incredibile capacità mimetica di D.F.W., funambolo della parola, capace di misurargli con ogni registro, di parlare il linguaggio del cinico, del disonesto, di colui che cerca disperatamente amore, approvazione o un ponte per superare l’opprimente senso di solitudine da cui è attanagliato. Il lettore non deve farsi ingannare nemmeno dalle tante anime belle che via via si susseguono. Pagina dopo pagina viene inesorabilmente portato alla luce il circolo vizioso in cui sono imprigionati uomini e donne che credono di essere finalmente sul punto di dare una svolta alla propria esistenza, superando una coazione a ripetere sempre lo stesso errore, ma che, in realtà, stanno, anche se mascherati sotto altre e nuove sembianze, perpetrando il medesimo meccanismo raggiungendo, in questo modo, un duplice risultato: riproporre antichi tic dell’anima e salvare le apparenze convincendosi di essersi infine sbarazzati delle brutture che dentro si portavano, sentirsi meno schifosi.
Ma in cosa consiste lo “schifo” di questi schifosi? Il loro essere odiosi (hideous)? Forse è quella vigliaccheria verso se stessi, quell’attaccamento alla parte peggiore di sé che porta inesorabilmente a sfruttare l’altro. Sincerità, autenticità, onestà, tutte queste opzioni che si danno al singolo vengono travolte da una volontà maniacale, quella di Wallace, frutto di un puritanesimo portato alle estreme conseguenze, di un esame impietoso di se stessi, dei propri pensieri ed azioni che vengono sezionati per accedere ai veri pensieri ed alle vere azioni e così accedere ai veri fini che si perseguono. Solo che (ed è qui che si cela il carattere vertiginoso e non consolatorio della tesi di D.F.W.) quando si giunge a riconoscere la propria disonestà non si è finalmente onesti, perché in questo riconoscimento, in questa “umiltà”, si nasconde e trapela una più subdola malizia, quella di un’autocritica compiaciuta che mira alla soddisfazione di quella ineludibile vanità che si cela in ognuno di noi, di quella volontà di sentirsi migliori, più puri e dotati di altri. Insomma, limitandoci qui a riproporre uno dei titoli di uno degli splendidi racconti raccolti in Brevi interviste il tutto si potrebbe così sintetizzare: “Il diavolo è un tipo impegnato”. Così impegnato da non far nemmeno percepire il suo infinito sforzo per realizzare il male, che è, qui, tutt’uno col chiudersi in se stessi in una chiusura che non potrà mai darsi se non a spese degli altri, perché la vera malvagità si dà quando non si coglie la malvagità delle proprie azioni. Il diavolo, per Wallace, fa pentole e coperchi.
Perciò, dimostrai un’abilità inconscia e, a quanto pare, naturale, automatica, nell’ingannare sia me stesso sia gli altri, che, a “un livello motivazionale”, non solo privava la cosa generosa che avevo cercato di fare di qualsiasi autentico valore, facendomi fallire, ancora una volta, nei miei tentativi di essere sinceramente quello che qualcuno avrebbe classificato come una persona autenticamente “buona” o “brava”, ma mi metteva, pericolosamente, in una luce tale da poter essere classificato come “tenebroso”, “malvagio”, o “senza alcuna speranza di diventare sinceramente buono”.
Mi domando quanto pesante sia la ricaduta di tutto questo discorso sull’occasione che ha fatto da spunto a queste considerazioni, a quanto il diavolo fosse all’opera e a quanto di vero, e dunque insostenibile, era nelle parole di quel tizio sul trenino per Ostia…
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Questo “Brevi interviste….” lo lessi anni fa, poco dopo la sua uscita.
Ci trovai la struttura interessante, ma poi ho cercato di raccapezzarmi in quei meandri di parole. Preferisco “Una cosa divertente che non farò mai più”. Molto più concreto e chiaro. Corrosivo-mirato a evidenziare aspetti comprensibilmente e giustamente degni di ironia.
Si, una cosa divertente è decisamente più spassoso e di immediato accesso. Però Brevi interviste è un libro a mio avviso superiore, forse non perfetto, questo si, ma solo perché più ambizioso. Per quanto concerne lo stile, sembra riflettere le spirali e i vicoli ciechi della psiche: insomma, impossibile una prosa che miri al nocciolo della questione dato che la questione è di per sé sfuggente o, addirittura, irrisolvibile. E poi qui si respira a pieni polmoni tutto il richiamo di Wallace all’apertura di sé all’altro, al tentativo di accogliere.
Da tempo sto aspettando il momento in cui mi sentirò disposta a leggere Infinite Jest. E’ questo.
Beh, in bocca al lupo. Grande libro, in tutti i sensi.
Estremamente godibile il tuo lungo preambolo, mi ha fatto più volte sorridere. D. F. W. devo ancora affrontarlo, prima o poi mi tocca. Per quanto riguarda la voglia, devo ammettere che mi hai dato una bella spinta.
Grazie. Di Wallace si può dire tutto ed il contrario di tutto,l’unica cosa certa è che va letto.
Quando ho letto la prima volta Brevi interviste rimasi un po’ sconvolta, non capivo dove voleva arrivare. Poi riletto dopo un anno embé? Wallace è il mio scrittore! E’ lui che da le parole al mio sentirmi sola e a chi lo odia oppure non lo capisce io dico sempre “Ognuno ha i suoi scrittori”. Una volta in bus un tizio mi chiese, mentre leggevo Infinite Jest, “Ma questo libro è scomodo, questo scrittore deve essere un pazzo” e io sorridendo dissi “Ma possono essere fatti miei di che morte devo morire??” ahahahaha che stronza che fui
Chiedo scusa per l’intrusione, ma è per condividere: Sì, mi riferisco all’ultima frase del commento di Anifares 🙂
A mia difesa, però lo dissi sorridendo e lui mi rispose sorridendo…
Beh, allora… non c’è due senza tre: aggiungo il mio… di sorriso 🙂
Bene all’inizio avevo creduto di aver offeso qualcuno!!! 🙂
Arrivo decisamente in ritardo su questo scambio di battute. L’avevo detto che bisogna fare attenzione quando si legge, si parla o si scrive di Wallace…
Ciao Tommaso, buongiorno! Leggo sempre con piacere le tue recensioni e mi fai proprio venire voglia di leggere i libri che recensisci. Un consiglio: non ho mai letto niente di Wallace, con cosa parto? Brevi interviste con uomini schifosi? Grazie e buona giornata!
Innanzitutto grazie per quello che scrivi. Poi, per quanto riguarda DFW, più che darti un consiglio, ti dirò come è andata per me. Qualche anno fa ho comprato in una sola volta (e letti uno dopo l’altro in una sorta di trance, nel seguente ordine): La ragazza dai capelli strani (silloge racconti), Una cosa divertente che non farò mai più (reportage di una crociera) e La scopa del sistema (romanzo di esordio). Non so se può esserti utile iniziare con La ragazza…ma una cosa è certa: cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Spero di esserti stato utile. Un caro saluto.
Sono fuori dal mondo! Non sapevo di essere uno di quelli. Non sapevo che ero di moda quando ero di moda, che dovevo nascondermi quando dovevo nascondermi, e nemmmeno la storia del genio troppo genio sapevo, anzi non l’avrei mai immaginata una critica così accorta e sottile. Io ho solo comprato questo librone conoscendo pochissimo del suo autore, ho impiegato un’infinità di tempo a finirlo e ho ammirato ogni singola parola che ho letto. Fuori dal mondo, no?
Assolutamente fuori dal mondo, proprio come lo ero io prima di venire a conoscenza del fattaccio, incredibile ed inaspettato: ero uno di quelli che etc . etc. Sorprendente.
Splendido post in ogni caso.