Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Sopra l’ingresso principale di Falconer – l’unico per i detenuti, i visitatori e il personale – c’era uno stemma che raffigurava la Libertà, la Giustizia e, tra le due, il potere sovrano del governo. La Libertà aveva in testa una cuffia con i pizzi e in mano una picca. Il governo era la solita acquila federale con il ramo d’olivo tra gli artigli e le frecce. La Giustizia era convenzionale: occhi bendati, abiti aderenti e vagamente erotici, spada da carnefice. Il bassorilievo era di bronzo, ma era ormai diventato nero, nero come l’antracite o l’onice non levigata. Centinaia di persone vi erano passate sotto, e molte non avrebbero più visto per lungo tempo altri emblemi dello sforzo compiuto dall’uomo per interpretare in termini simbolici il mistero dell’incarnazione.
Per tutta la sua lunga carriera di scrittore Cheever rimarrà, o tenterà in tutti i modi di rimanere, fedele a se stesso e, per conseguenza, estraneo alle mode letterarie del suo paese. Fra gli anni Cinquanta e Settanta non smetterà mai gli abiti dello scrittore borghese, di quella tipologia di uomo e scrittore che più pesantemente veniva attaccata da un mondo, quello della letteratura, che faceva leva e coniugava, al contrario, critica alla morale borghese (sul piano sociale e politico) e forte sperimentalismo (sul piano della scrittura). Certo, a guardare più a fondo, questa immagine di facciata – da autentico WASP – di un borghese bianco, colto, capace di creare e mantenere una famiglia ed un matrimonio tempestoso ma duraturo; ecco, questa immagine di uomo che ha tutti i caratteri della rispettabilità, presto mostra tutte le sue crepe, lasciando trapelare la figura inquietante di un uomo costretto a misurarsi con i demoni dell’alcool e della droga, con una depressione legata alla consapevolezza di essere un figlio non desiderato ed un ragazzo vessato e disprezzato da un fratello maggiore di cui ha sempre subito la tirannia; un uomo, inoltre, alle prese con un’inconfessabile pulsione omosessuale. Ecco, tutto questo, oltre che nei suoi diari (raccolti sotto il titolo Una specie di solitudine. I Diari), traspare anche nelle sue opere.
Falconer (1977) è il punto di approdo e sintesi della produzione di Cheever. Falconer, essendo il suo ultimo romanzo, idealmente conclude una incredibile parabola artistica segnata da grandi libri, come Cronache della famiglia Wapshot e poi la lunga serie di racconti, che gli sono valsi il paragone con Cechov (uno fra tutti, Il nuotatore). In quest’ultima opera i temi della vita dello scrittore tornano prepotentemente per dar vita ad un dramma carcerario nel penitenziario di Falconer, spazio della pena in cui Cheever riversa, fra le altre, la sua esperienza di insegnante ai carcerati di Sing Sing.
Falconer si pone in modo eccentrico rispetto al resto della produzione di Cheever, tutta caratterizzata da ambientazioni borghesi. Non cambia, invece, il profilo del protagonista, Ezekiel Farragut, insegnante agiato, uomo di cultura, stretto, però, nella dipendenza da eroina, metadone e dell’alcol, finito in carcere per omicidio, per aver ucciso il fratello, Ebel. Questo il ritratto che ne fa Marcia, la moglie che tanto lo odia. Così questa donna parla al marito durante una visita al carcere.
Che cosa mi hai dato? Uno sgobbare continuo. Una vita superficiale e senza scopo. Polvere. Ragnatele. Automobili e accendini che non funzionano. Anelli di sporcizia nella vasca da bagno, gabinetti dove non avevi fatto scorrere l’acqua, una fama internazionale di depravato sessuale, alcolismo e tossicomania da clinica, braccia e gambe rotte, commozioni cerebrali e adesso anche un grave attacco cardiaco.
Uomo che per anni ha tentato in tutti i modi di mantenere un profilo di rispettabilità, Farragut crolla, e dopo una discussione uccide il fratello con un colpo di attizzatoio. Da quel momento si aprono le porte del carcere e il suo nome deve lasciare il posto ad un numero di matricola. 734-508-32. Falconer, il penitenziario di Falconer, pare essere il vero protagonista di questo romanzo che è una discesa agli inferi e in cui il rapporto con i carcerieri e gli altri condannati diventa specchio del delirio e dello spaesamento esistenziale di Farragut. Falconer è lo spazio fisico e psichico in cui si istituisce la necessità di incontro con se stessi, lì dove è impossibile la fuga, lì dove si attende la dose di metadone stabilita per legge, lì dove si ci si deve piegare a compiti imposti dall’esterno, lì dove nascono amori omosessuali la cui intensità viene elevata all’ennesima potenza e resa pura e sublime per contrasto con tutto quello che di sporco, misero e brutto può esserci in un carcere. Dall’ingresso a Falconer, passando per un grottesco ed agghiacciante massacro di gatti, la dipendenza dalla droga e il dolore dell’astinenza, si arriva progressivamente alla radice sanguinante, a tutto quello che ha contribuito a rendere Farragut quello che è diventato, alla ragione della dipendenza da sostanze, ai disordini di natura sessuale (disordini sempre e comunque da intendere a partire dalla prospettiva dello stesso Farragut, che cerca in tutti I modi di vivere entro un sistema di valori che gli è stato inculcato e a cui si aggrappa con tutte le forze, ma che non risponde e non nutre la sua natura); e poi ancora il dissesto finanziario della sua famiglia, un fratello odiato e suo grande antagonista, il suo doppio, quello capace di incarnare perfettamente quei valori e quello stile che lui non riesce ad interpretare adeguatamente (anche nel senso di un credibile recitare).
Bisogna seguire tutta la vicenda carceraria di Farragut per comprendere a pieno le ragioni, i moventi, i fini. Cosa cerca Farragut? Cosa desidera veramente? Cosa vuole e cosa fugge? Cosa ha perduto per sempre, cosa, invece, non potrà mai essergli sottratto? Si riduce, tutta la sua saggezza del mondo, ad una catena di peccati e delitti e conferme sulla natura viziosa dell’uomo? O c’è forse spazio per la trascendenza, la salvezza, il senso? Cheever ha le idee chiare e, alla fine di questo romanzo, riuscirà a farne trapelare il succo nel modo più raffinato…suggerendo senza dire, dando ad intendere senza spiegare nulla.
Teneva la testa alta e la schiena dritta e camminava benissimo. Rallegrati, pensò, rallegrati.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
È una storia al limite e come tutte le storie al limite si presta a una scrittura coinvolgente, specie se in mano a gente che ha almeno un briciolo di talento.
A parte questo, i brani riportati sono splendidi (il discorso della moglie) e mi ricordano il motivo per cui ho sempre amato il modo diretto, semplice e immediato che distingue gli scrittori americani (fino alla comparsa degli ebrei-americani).
Si, storia al limite. Ed è vero che si presta ad una “scrittura coinvolgente”, ma è anche vero che se non si ha talento (e non è in nessun modo il caso di Cheever) è facile andare a schiantarsi contro un muro di banalità. Grazie per il commento.
Sto leggendo ora i racconti, ottimi
Cheever è un grande (sottovalutato) scrittore, tanto di romanzi quanto di racconti.