Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Mi conoscono tutti, io sono GIUSEPPE DETTO GIUSEPPE, faccio il commerciante di mestiere, compro piombo zinco rame ottone, pago le tasse, il mio nome sta anche sull’elenco del telefono di Albano. Compro anche bottiglie usate stracci e carta straccia. Si dice carta straccia tanto per dire, spesso la carta straccia sono libri e giornali.
Salto mortale (1968) è, insieme a Il serpente (1966), uno dei frutti più saporiti di un intenso lavoro che inizia con la pubblicazione de La scoperta dell’alfabeto (1963) e la collaborazione di Malerba ai lavori del celebre Gruppo ’63. Lavoro che procede, di innovazione in innovazione, fino ad opere come Itaca per sempre o Fuoco greco. Siamo, dunque, negli anni Sessanta, quando il linguaggio del romanzo neorealista è ormai logoro e frusto e con sempre maggiore urgenza si impone un radicale rinnovamento della forma romanzo. Quindi, avanguardia. Di Malerba si può dire, usando delle etichette, che è un antirealista e un narratore sperimentale, uno scrittore che assegna al comico una funzione centrale per portare a compimento il suo progetto di rinnovamento, sia dal punto di vista letterario, che sul versante della critica sociale e politica.
Ma di cosa parla, se di qualcosa veramente parla, questo romanzo? In poche parole. Il protagonista, “Giuseppe detto Giuseppe” sta camminando per un prato – Pavona per la precisione, anche se il nome di questa località non dirà molto a chi non è di Roma – e camminando si imbatte nel cadavere di un uomo. Questa è l’unica cosa certa in un romanzo che procede a ritmo serrato attraverso i pensieri (confusi) di un protagonista che cerca di spostare i sospetti da sé ad altri, ma che, pagina dopo pagina, è sempre più in balia del terrore di essere il vero assassino, anche se sotto le mentite spoglie di colui che indaga. Perché camminava per quel prato? Testimoni parlano di un uomo in bicicletta, di una bicicletta in tutto e per tutto simile alla sua, quella di Giuseppe. Certo, certo, lui non è l’unico ad avere una bicicletta e nemmeno l’unico ad aggirarsi per quei luoghi anche se lì non ha propriamente nulla da fare, ma, e questo è un fatto, lui è nella lista dei sospettati. La polizia indaga, interroga, pedina. Quella di Giuseppe è la cronaca appassionata di un’angoscia di cui non si comprendono bene i contorni ed i confini, anche perché non si capisce se Giuseppe sia lucido e se la sua memoria lo tradisca o meno; non si capisce se Giuseppe dice la verità o se si nasconde anche dal lettore, nel delirante tentativo di ricostruire a suo piacimento la vicenda e, con questa, la realtà stessa.
Il romanzo procede secondo la forma-labirinto, per così dire. Le parole si arrestano, si ripetono, vengono ripetute, come se il senso stesso dell’intera vicenda fosse quello di un uomo preso in un labirinto (di parole) fatto di tentativi, vicoli ciechi, mentre la realtà si sottrae ad ogni presa. Di questo procedere che è parola senza pausa e rimuginio senza sosta o costrutto, tale da togliere il fiato, è lampante l’esempio che ci viene consegnato fin dalle primissime pagine, segnate da un vago rimando al Processo del ben più noto scrittore praghese: “Se uno corre è segno che scappa e io non voglio scappare. NON HO FATTO NIENTE. Questo non è possibile qualcosa avrai fatto di sicuro“.
Un romanzo ha uno stile in senso proprio solo quando risulta pressoché impossibile raccontarlo, perché raccontarlo significherebbe perdere quel senso che può trasparire solo ed unicamente per mezzo delle parole scelte dallo stesso autore. Questo è il caso di Salto mortale, dove la lingua perde l’unità (fittizia) che reggeva il romanzo realista di vecchio stampo, per lasciare il lettore in balia di un dire che è in sé un dis-dire, un aver da ri-dire e, lasciandosi prendere la mano, un aver da ri-dere. Ed è questa l’impressione che potentemente Malerba riesce a restituire: l’idea di una prosa dove, al tempo stesso, ogni parola è al suo posto eppure fuori posto, come scivolata dalla sua collocazione originaria o violentemente scagliata via. Parole spezzate, scavate da abissali incertezze. Viene da chiedersi: chi parla veramente? E da dove? E a chi? E verrebbe da rispondere: sono le parole a parlare e queste parole parlano di altre parole ad altre parole. Una domanda rimane senza risposta: da dove parlano? Qui il discorso si fa vertiginoso, assorbe se stesso. Come Dio è causa sui, così il linguaggio si manifesta con le sue divine caratteristiche: creatore di se stesso; infinito nelle proprie infinite possibilità di dire e disdire; creatore di tutte le cose che, per essere veramente, devono esser dette e pensate, che poi sono la stessa cosa, in qualche modo.
Ecco ho trovato l’ombra di un albero ma l’albero non c’è, dov’è andato? L’ombra sembra quella di un pino romano. Giuseppe, caro amico, che sia un leccio o un pino romano è la stessa cosa. Accontentati dell’ombra, che cosa ti importa dell’albero? Stanno ancora parlando di me, le parole si intrecciano, formano geometrie trasparenti nell’aria trasparente. Devo muovermi, parlare con qualcuno, ma non so con chi. C’È QUALCUNO CHE VUOLE PARLARE CON ME? Posso parlare anche da solo, volendo, però se trovo qualcuno è meglio.
Al lettore, per concludere, viene consegnato un testo che il lettore stesso deve completare tappando buchi, disponendo idealmente virgole, punti e riferimenti. Pare un testo licenziato prima del tempo, prematuro, dato troppo presto alle stampe, un testo di cui forse ci si voleva liberare, un testo, forse, intrinsecamente destinato a rimanere incompiuto, refrattario alla parola fine. Insomma, Salto mortale è un romanzo in cui il linguaggio è fatto di tic e ripetizioni che assurgono a “gesti maniacali” in cui rimane intrappolato non solo il protagonista, ma anche il lettore (e forse l’autore). Il linguaggio non veicola, non rimanda ad altro, ma è esso stesso una forma di agire, così come un tentativo volto a plasmare una realtà che è, però, a sua volta linguaggio e, quindi, ostacolo e trampolino al tempo stesso per l’autore/protagonista/lettore, per questo mostro a tre teste che procede non camminando con passo convenzionale, ma per acrobazie, per salti mortali e per sforzi immani che, capovolgendo il mondo e il senso comune, fatalmente ricade su se stesso, nella posizione di partenza, rischiando tutto per non ottenere, forse, nulla in cambio.
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Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Grandioso! Qui Malerba riesce a creare davvero qualcosa di sorprendente, una lingua che è solo sua, intrappolata in un giro infinito di frasi e idee che ritornano ossessivamente, con quelle maiuscole deflagranti che suscitano un’irresistibile ilarità mentre allo stesso tempo sottolineano il distacco dal pensiero razionale della voce narrante. Dopo averlo letto, non ho più potuto sentir dire per piacere senza un sorriso. Un libro meraviglioso.
…per piacere…Già un libro splendido. Del resto come tutti (o quasi) quelli scritti da Malerba.
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