Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Eppure, l’Inspiegabile si è inaugurato per opera mia. Per lo meno, gli eventi hanno coinciso (all’inizio) con un evento strettamente privato e mio; coincidenza, oso pensarlo, non casuale. La notte favolosa fra il I e il 2 giugno. Quella notte, era deciso, io mi sarei ammazzato. Perché. Per il prevalere del negativo sul positivo. Nel mio bilancio. Una prevalenza del 70 percento. Motivazione banale, comune? Non ne sono certo.
Non è che ci sia molto da dire della trama di questo romanzo, che è, al tempo stesso, una storia semplice da raccontare, ma estremamente difficile da pensare a causa del numero di riferimenti e suggestioni che offre. Il protagonista di Dissipatio H.G., dopo un’attenta analisi dei pro e dei contro della sua esistenza, giunge alla conclusione che la cosa migliore da farsi sia togliersi la vita. Per farlo sceglie di lasciarsi affogare dentro un laghetto in una misteriosa caverna di montagna. Solo che all’ultimo momento cambia idea e torna indietro, al mondo, per accorgersi, però, che l’intera umanità è svanita nel nulla.
Di qui in poi il romanzo si svolge essenzialmente nella forma di un monologo che è una lunga riflessione filosofica sulla natura delle cose e il destino dell’umanità. Questo romanzo si presenta come un esperimento mentale che ha, più o meno, questa forma: cosa accadrebbe se un uomo tendenzialmente votato alla solitudine, insofferente all’altro, “fobantropo”, rimanesse veramente solo? Così Morselli mette fra parentesi l’umanità operando, appunto, una dissipatio humani generis, muovendo così un passo indietro rispetto alla vita (lì dove pensare e morire pericolosamente si avvicinano, fino a sfiorarsi) per poterla meglio pensare. Per comprendere quella vita che, se vissuta, è detestata e disprezzata.
Così il protagonista si aggira per la sua città, l’odiata Crisopoli (che richiama Zurigo) fra il brusio di macchine che continuano a funzionare, fra i segni di vite che d’un tratto si sono dileguate. Diverse sono le fasi che il nostro fobantropo attraversa. Da un primo momento di stupore e di arrogante contentezza, quando si accorge che il suo desiderio di solitudine si realizza nel modo più completo ed inaspettato: non con la sua morte (solitudine per autodistruzione), ma con la dissipatio del genere umano, lasciando a lui la possibilità di pensare questa ascensione di massa che è toccata alla sua specie.
Presto, prestissimo, però, quel senso di onnipotenza che inizialmente lo portava a far coincidere la sua specie, il genere umano, col suo stesso Io, lascia spazio ai primi dubbi. Fin da subito questo uomo che vuol rimanere solo, farsi monade, si mette alla ricerca dell’altro. Forse per aver conferma della sua nuova condizione, forse (e questo pare più probabile) perché il suo senso della solitudine può prendere spessore solo a partire dalla garanzia della presenza di un altro rispetto a cui fare un passo indietro; perché, al contrario, l’assoluta assenza dell’altro farebbe dell’io qualcosa di assoluto, ma nel senso di un ab-soluto, qualcosa di sciolto da tutto o disciolto, rendendolo molto più simile al Nulla, piuttosto che al Tutto cui il protagonista mira.
La solitudine, certo, non è qui solo qualcosa di negativo. La solitudine apre al pensiero, così come, almeno implicitamente, alla creazione artistica. Eppure da queste pagine sembra emergere qualcosa di ulteriore e di diverso. La solitudine non può essere il fine, ma solo un mezzo. Nel senso che (pure se il protagonista sembra battersi contro questa tesi) pensiero e creazione presuppongono sempre e comunque l’altro, anche per il semplice fatto che ogni codice, per essere tale, per poter tenersi insieme senza venire giù come un castello di carte, ha bisogno di essere condiviso almeno da due persone. Diventa necessario, quindi, il passaggio dall’Uno al Due.
Questa dissipatio prende una forma e delle valenze non solo filosofiche ed esistenziali, ma addirittura religiose. Viene qualificata come Evento o ascensione dell’umanità stessa, facendo del protagonista, unico superstite, una sorta di naufrago alla Robinson Crusoe: naufrago in un mondo in cui ha però sempre vissuto, un mondo che però diventa estraneo (altro) perché mancano gli altri (unico garante del senso delle cose). Potrebbe essere un modo per leggere anche il Robinson Crusoe di Defoe. La condizione di naufrago di Robinson Crusoe non deve essere ascritta solo ed unicamente al suo ritrovarsi su di un’isola deserta, ma anche al suo rimaner-solo (del resto un nuovo inizio si dà proprio quando incontra Venerdì, un altro essere umano, quello che gli permette il passaggio dall’Uno al Due, unico modo per entrare veramente nella civiltà).
Mi pare che se penso, osservo, ecc., lo faccio, e sono ben contento di farlo, soltanto per me. Io sono il destinatario, non il provvisorio consegnatario. Ancora un assioma che si smentisce: “Pensiamo soltanto in funzione degli altri” […]. Storie. Dovrei cessare di fare concetti per la semplice ragione che “gli altri” non stanno più qui a goderseli? Io sono, dunque penso.
Il protagonista può argomentare fin che vuole a favore del suo essere, e permanere, chiuso in se stesso, pretendendo di essere una monade perfettamente autonoma, ma il discorso, ad un esame più approfondito, risulta contraddittorio in sé. E lo è almeno per una ragione. Se questo Io isolato, assoluto, fosse realmente autonomo, certo del proprio status e della propria sovranità, non si darebbe pena alcuna di avanzare tutti questi ragionamenti, non risponderebbe a nessuna obiezione, non perderebbe tempo a fondare razionalmente la sua assoluta autonomia. Tutta la lunga catena di pensieri e deduzioni in cui si dibatte sta a confermare, piuttosto, il contrario. Non solo che il pensiero è sempre compreso in una rete di pensieri, in un sistema di pensieri condivisi, ma sta a dimostrare, in aggiunta, che è l’individuo in quanto tale ad essere scisso o duale: è lo stesso pensiero ad avere in sé un andamento dialogico. Basti prestare un poco di attenzione a quello che ci passa per la testa in ogni momento della giornata e a proposito di qualsiasi cosa. Il pensiero non è mai un monologo, ma gli è propria una sorta di polifonia. In noi parlano più voci e l’una prende consistenza solo a partire dalle altre, che hanno bocca e orecchie.
E del resto questo uomo si muove in continuazione fra le macerie, i resti, le tracce della vita degli altri: oggetti personali, lettere, diari, fotografie. Pare un archeologo che muove in un enorme scavo pieno di inestimabili reperti che, però, non parlano di altre specie o di epoche remote, ma di lui stesso. Non passa molto tempo, del resto, prima che l’iniziale arroganza e la megalomane pretesa di autonomia lasciano il posto a qualcosa di diverso, di più sfumato e doloroso. Il suo senso di onnipotenza è un sentimento che gira a vuoto, qualcosa cui manca il terreno per muoversi, per esercitarsi. Hegel, che pure il protagonista più volte cita, ha impartito, in questo senso, la lezione fondamentale: la coscienza di sé dipende dal riconoscimento dell’altro. E infatti il protagonista viene sopraffatto da un senso di vuoto e di inutilità: Per vivere poeticamente la natura, mi occorreva qualcuno a cui contenderla, qualcuno da tenere lontano? E ancora: Mi sto domandando: per goderla c’era bisogno dei cartelli: “Vietato l’ingresso?”. Questa sorta di analisi delle pretese e dello scacco del solipsismo giunge infine a compimento – che poi è un capovolgimento della tesi di partenza – con la semplice e brutale ammissione che senza l’altro anche le cose più semplici ed immediate perdono la loro evidenza: Mi pare di respirare, di mangiare. È un’illusione. Insomma, l’altro è la prova del nove per la nostra stessa esistenza.
Dissipatio H.G. è l’ultima opera scritta da Morselli prima della sua tragica fine, prima che si togliesse la vita. Può esser letta in molti e diversi modi. Un saluto estremo, un’estrema confidenza, un ultimo dono o, più semplicemente, una grande metafora delle capacità divoranti proprie di ogni disagio psichico, della solitudine spaventosa in cui possono gettare le malattie dell’anima. L’idea stessa dell’Evento, la figura della caverna come luogo in cui scendere per morire per poi uscirne fuori e trovare il mondo del tutto diverso, è una trovata che permette di leggere questo straordinario romanzo in molti modi e a molti livelli, seguendo le più diverse linee tematiche. Come riflessione filosofica sul rapporto dell’io con gli altri, come feroce critica sociale (non mi sono soffermato, qui, sui molteplici riferimenti al mondo dell’editoria, della produzione, della finanza, etc…), ma anche, lo ripeto, come inquietante affresco di un’anima malata. Pare, a tratti, una sorta di spiegazione per i suoi (troppo pochi) lettori, prima dell’addio. Pare dare conto di quella prevalenza dei contro sui pro, la resa di chi non ce l’ha fatta, di chi decide di togliersi la vita non perché non riesce ad essere solo, ma perché sente il peso della solitudine e del non riconoscimento dell’altro (di un’editoria che non comprendeva le sue opere e le rifiutava senza pietà). Di tutto questo rimane l’eloquenza e la spietata (forse accecante) lucidità che lo guidava, così come si evince delle pagine dei suoi Diari.
Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pregato non ho ottenuto nulla. Ho bestemmiato, non ho ottenuto nulla. Tutto è ugualmente inutile.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Un libro da scoprire, per chi come me (lo ammetto con rammarico) non l’ha ancora letto. Morselli e Delfini sono autori che ho in cima alla lista da anni e che per motivi vari non riesco a leggere. Grazie a questa tua splendida analisi magari mi deciderò una buona volta. E speriamo anche molti altri!
Grazie. Nemmeno io ho ancora letto nulla di Delfini, ma su Morselli non ho dubbi. È un grande scrittore. Dal primo romanzo che ho letto (Roma senza papa) sono rimasto folgorato dalla lucidità, dallo stile, dal rigore con cui affronta tematiche fondamentali.