Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Van’ka Zukov, un ragazzetto di nove anni che da tre mesi stava a bottega dal calzolaio Aljachin per imparare il mestiere, la notte di Natale non andò a dormire.
È la notte di Natale e Van’ka decide di non andare a dormire, aspetta che tutti siano in chiesa, e appena rimasto solo, timoroso e con la paura di essere scoperto, si inginocchia davanti ad un panchetto, spiega un fogliaccio di carta e scrive al nonno una lettera che è un potente lamento.
“Caro nonnino, Konstantin Makaryc” scrisse, “Ti scrivo questa lettera. Ti faccio tanti auguri per Natale e ti auguro ogni bene dal Signore Iddio. Non ho più né il padre né la mammina mi sei rimasto solo tu”.
Van’ka si perde nelle sue fantasie infantili. Nel riflesso di una finestra il nonno gli appare come fosse lì con lui. Sessantacinque anni, magrolino e piccolo, ma pieno di vita e di bontà, sempre sorridente, Van’ka lo vede camminare con al seguito la vecchia Kastanka e il giovane V’jun, i due cani che l’accompagnano nel suo lavoro di guardiano notturno presso i Zivarev. Van’ka scrive al nonno dei soprusi che subisce nella bottega dove lavora, delle botte, dello sfruttamento, dell’insopportabile solitudine, della privazione di sonno e cibo. Infine il lamento sfocia nella preghiera più pura: “Te lo chiedo in ginocchio e pregherò eternamente Iddio per te, ma portami via di qui, altrimenti ne morirò…“. Il nonno potrà chiedergli qualsiasi cosa, potrà persino batterlo, lui non si lamenterà. Van’ka non tollera la vita di città, Mosca è troppo complessa e lui è solo e vuole tornare in campagna, quando la madre era ancora viva e lui era felice, poi tutto era franato. Pregandolo ancora di andare a prenderlo, chiude la busta e così la indirizza: “Al nonno, al villaggio, a Konstantin Makaryc“. Van’ka corre fino alla casella postale e la imbuca.
Cullato da dolci speranze, un’ora dopo egli dormiva profondamente…Sognava una stufa. Su di essa stava seduto il nonno, con i piedi scalzi a penzoloni, e leggeva la lettera alle cuoche…Accanto alla stufa girava V’jun, dimenando la coda…
Che Natale è quello di Cechov? A differenza di altre storie, qui non cambia nulla dall’inizio alla fine del racconto. Qui il Natale è collocato all’interno di una cornice di disperazione: l’orfano abbandonato (caduto) in un mondo di adulti senza scrupoli che lo battono e lo umiliano, imprigionato in una città dove tutto è solitudine, dove prevale l’egoismo. Questo Natale non risolve la speranza in un presente o in un futuro effettivamente migliore. Anzi, la possibilità di un futuro migliore, in realtà, non viene nemmeno suggerita, ma abbandonata a livello di mera speranza. Van’ka vive nel terrore, ha addirittura paura di scrivere una lettera.
Questo Natale non cancella il male del mondo, ma, al contrario, lo esalta e lo eleva all’ennesima potenza, fino alla disperazione dell’orfano che vede ormai nella morte l’unico possibile sollievo ad una vita invivibile. L’orizzonte è così cupo che la speranza viene come chiusa in se stessa, ridotta a speranza di poter ancora sperare. La vita di Van’ka non cambierà, è straziante il momento in cui indirizza la lettera: Al nonno, al villaggio. Quella lettera non arriverà mai! La speranza non porterà a nulla, la condizione dell’uomo è immutabile. La lettera non arriverà mai, questo è vero, ma Van’ka può adesso sperare che qualcuno lo aiuti: il nonno non andrà a prenderlo, ma una lettera è stata imbucata, e quindi qualcuno potrebbe arrivare (nella infantile visione del mondo), dunque la Realtà per Van’ka è mutata. La lettera serve a non perdere la speranza, non ad ottenere qualcosa di tangibile. Per questo Van’ka non si è ancora dato la morte, perché ancora spera e, in più, si è dato la speranza di poter continuare a sperare con quella lettera che, in fondo, spedisce a se stesso, alla propria volontà di continuare a vivere. In uno dei classici, edificanti, racconti di Natale, il nonno avrebbe alla fine fatto irruzione nella scena, illudendo il lettore che tutto, alla fine, si aggiusta. Così non è, per Cechov. A Van’ka, così come al lettore, è lasciata la sola possibilità di una cosciente illusione. Contraddizione in termini: come ci si può veramente illudere e al tempo stesso essere consapevoli dell’illusione stessa? Facile, è lasciarsi andare nella natura più propria della speranza.
Si può così tornare all’inizio della storia e rileggerla a partire da quanto detto: s’era messo in ginocchio davanti al panchetto, per scrivere. È l’atto stesso dello scrivere, qui, che modifica la vita, che le dà un senso: scrivere è una forma di preghiera che ha in sé (nel suo atto) il suo essere esaudita. Scrivere non serve solo a dichiarare la propria speranza in un futuro migliore, ma è di per sé un migliorare la nostra condizione, un viverla in un altro modo (e in un altro mondo, quello della letteratura). Scrivere (al/del/per/sul nonno) è per Van’ka come aver già ottenuto quello che si desidera. Il nonno è lì, in quella orrenda stanza, e con lui ci sono i cani, la campagna, il bosco. La scrittura che non è fuga dal mondo, ma un modo per modificare il mondo stesso. Ecco che il Natale di Cechov prende corpo. È certamente un Natale esangue, dove solo una debole luce è ancora visibile, e infatti non ci sono baci, luci, amore, doni, allegre risate, eppure tutto questo è stato in qualche modo evocato attraverso la scrittura e, dunque, a tutto questo sono state date forma e sostanza. Nessuno può legittimamente negare di fronte a Van’ka che quelle cose siano inesistenti!
Che cosa esiste veramente? Se tutto quello che è (esiste), per definizione, provoca degli effetti, allora ciò che il ragazzo ha scritto esiste. La lettera scritta e spedita ha effettivamente modificato Van’ka, gli ha dato speranza, sollievo e felicità. Il ragazzo può finalmente trovare pace, è realmente felice, come se il nonno l’avesse già portato via, la preghiera è stata esaudita già da sempre (nella scrittura): “cullato da dolci speranze…dormiva profondamente”. Quel che è scritto è Reale. Il Natale esiste come spazio dello spirito dove, a dispetto di tutto, si può ancora non semplicemente sperare, ma sperare che la speranza non ci abbandoni mai. Il Natale diventa qui un fenomeno più grande della ricorrenza religiosa, diventa una categoria dello spirito, qualcosa di inerente all’umanità in quanto tale: motore che spinge alla vita anche nei momenti più disperati, aspirazione al Bene che palpita in ognuno di noi, aspirazione che assume un numero incredibile di forme, persino quella della scrittura...
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Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
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