Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera.
È bello iniziare questa piccola maratona di storie natalizie (che, tempo permettendo, dovrebbe proseguire fino all’epifania con Tolstoj, Cechov, Andersen e Pirandello) con l’idea del Natale per come si impone nelle pagine di questa magnifica fiaba di Collodi.
La Contessa Maria era una vedova con tre figli: Luigino, Alberto e Ada. Questi tre bambini “erano fragilissimi e di una salute molto delicata” e per questo vivevano per mesi chiusi in una grande e bella Villa, dove studiavano, giocavano e avevano molte cose. Ma più di tutto, questi bambini avevano i loro adorati giocattoli: Luigino un magnifico cavallino di legno, Ada una graziosa bambola grande quanto lei, Alberto una marionetta di Pulcinella che riusciva a fare mille cose, tranne una: parlare. Il Natale si avvicina e i bambini, come ogni anno di questo periodo, potranno rompere i salvadanai dove la Contessa ha lasciato cadere dei soldini per premiare la loro buona condotta. Di quei soldini potranno fare quello che vorranno e chi fra i tre li spenderà nel miglior modo avrà un regalo speciale: un bacio della madre. Ognuno dei tre è convinto che avrà per sé questo speciale dono.
“Il bacio tocca a me di certo!”, disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo.
“Il bacio tocca a me di certo!”, disse dentro di sé l’Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola.
“Il bacio tocca a me di certo!”, disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella.
Ma a questi bambini, che per la salute cagionevole vivono, studiano e giocano in casa, accadeva pure di uscire e passeggiare nei pressi della Villa. Durante una di queste esplorazioni si imbatterono in una baracca tutta scalcinata dove, sulla porta, sedeva un bambino mezzo nudo che per il freddo tremava come una foglia, e che sembrava capace di pronunciare una sola frase: “Zio Bernardo, ho fame”. Solo che era tanto debole e triste che lo diceva con un filo di voce. Dentro alla baracca, accovacciato sul pavimento, stava un omaccione con una brutta barbaccia rossa. Lo zio, per tutta risposta, piglia un pesante zoccolo e glielo tira contro, centrandolo in testa. I tre bambini frugano nelle tasche e ne tirano fuori degli avanzi di pane trovati lì per caso e li offrono al povero orfanello che, però, non accetta: “Grazie…ora non ho più fame”.
Il turbamento di questa scena che infrange l’ingenua visione (conoscenza) del mondo dei ragazzi dura in realtà poco, pochissimo: “…di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non parlarne più“.
Alberto è l’unico a non dimenticare. A lui si presenta l’immagine di quel bambino perso nel freddo. Qualche giorno appresso Rosa, l’ortolana, porta uova fresca alla Villa. Parlando col giovane Alberto esce fuori che Rosa ha preso l’orfanello con sé, come fosse figlio suo, solo che, lamenta la buona donna, non ha un soldo per poter comprare dei vestiti per proteggere dal freddo quel povero sfortunato. Alberto le chiede di tornare il giorno dopo a Villa. Deve parlarle.
Intanto è finalmente arrivato il momento di aprire i salvadanai e ne viene fuori che fra i tre, quello di Alberto è quello che contiene meno ricchezze. Perché? È la Contessa a spiegarcelo: “Il tuo salvadanaio è stato il più povero degli altri due: e sai perché? Perché in quest’anno tu hai avuto poca voglia di studiare“. Benché pochi, quei soldini sono comunque sufficienti per comperare un vestito nuovo per il suo Pulcinella, nella speranza che così, tutta contenta, la marionetta possa parlare. Solo che Alberto non fa in tempo a pensare tutto questo che Rosa l’ortolana si presenta alla Villa, per ascoltare cosa ha da dirle. Gli otto giorni passano, è finalmente Natale e i tre bambini sono chiamati a mostrare come hanno impiegato i loro danari. A chi andrà il bacio della Contessa? Il cavallino di Luigino è magnificamente ornato di gualdrappa e finimenti, ma c’è un difetto, per la Contessa: “Sono troppo belli per un povero cavallino di legno“; stessa sorte tocca alla bambola di Ada, che calza sì delle magnifiche scarpette, ma: “Peccato però che debbano calzare i piedi d’una bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà mai ballare“. Quando finalmente tocca ad Alberto, nulla c’è che possa essere mostrato, così come non si capisce dove siano finiti i suoi soldini. Alberto balbetta ed entra in confusione, fino a che la verità non viene a galla quando Rosa si presenta accompagnata dal povero bambino, adesso dignitosamente vestito. La Contessa si informa e mano a mano che Rosa racconta, Alberto – che risulta essere il benefattore – entra sempre più nel panico e la vergogna che lo assale lo fa scagliare contro l’ortolana (“Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontare nulla a nessuno” prima, ed esasperato poi: “Chiacchierona! Chiacchierona! Chiacchierona!“). Alla fine Alberto fugge via e va a nascondersi nel guardaroba e lì la madre lo trova per abbracciarlo, e non uno, ma almeno mille baci dà al figlio.
Questo è il Natale secondo Collodi, un Natale nel segno del dono, ma si badi bene: qui non ci viene data nessuna visione rassicurante, edificante o buonista del dono, non c’è nessun sentimentalismo, perché qui il dono è legato alla rabbia, all’ingiustizia del mondo, alla vergogna dell’atto stesso del donare. Alberto sembra quasi non capire il senso del suo stesso gesto, ne è sopraffatto: il dono che è, per sua stessa essenza, uno spogliarsi (un privarsi) di qualcosa che letteralmente “veste” l’altro, per sottrarlo al freddo e alla fame. Il dono che si può toccare è la necessaria controparte materiale di un atto originariamente spirituale che, però, per essere reale, deve tradursi in qualcosa di concreto. Esattamente quello che non avviene per i fratelli, che agiscono rimanendo chiusi nell’orizzonte del loro Io, di quanto già hanno e conoscono: il cavallino è, in fondo, solo un ciocco di legno, così come la bambola non è altro che un coccio, cose né buone né cattive, bensi indifferenti ed indifferenziate, così come i due bambini, in cui l’infelice sorte del povero non produce alcun effeto reale e che per questo rimangono chiusi in loro stessi; dove le loro azioni ritornano su di loro, essendo i loro giocattoli niente altro che oggetti-specchio. Diversamente vanno le cose con Alberto, alla cui immaginazione l’orfanello si presenta la sera, impedendogli di prendere sonno. Alberto fatica a scacciarlo via: anche lui, così come i fratelli, vorrebbe tenerlo fuori dalla coscienza ed evitare di farsene carico. Ma questo pare impossibile perché il fantasma del bambino continua a tornare con tutta la potenza della sua richiesta, che è tanto radicale, fondamentale, materiale, da imporla in tutta la sua superiore necessità: ho fame, ho freddo! Sembra quasi ridotto ad automa o ad animale, meno-che-uomo perchè gli è stata (scandalosamente) sottratta l’umanità di cui, invece, non può fare a meno. Tale richiesta scuote Alberto fin nelle fondamenta, lo strappa dal suo egoismo ed egocentrismo, impedendogli di donare solo a partire da un tornaconto. Tale tipo di falso dono (di dono superficiale) è ben rappresentato dai suoi due fratelli, che, come accennato, donano ai loro giocattoli e quindi, in fondo, a loro stessi. Alberto, invece, viene spinto a donare, ma, come già detto, pare non essere all’altezza del suo stesso gesto: non ne comprende la forza e la portata, gli pare qualcosa che non trova giustificazine e questo fa montare in lui una spaventosa vergogna che lo porta a nascondersi. E del resto è nell’etimologia di questa parola che si può rinvenire il senso più profondo di questa splendida fiaba. Si vergogna, che riporta al latino verecundia e quindi a vereri, che hanno significato di “riverire” e “aver rispetto”! Vergogna come controparte (o negativo vissuto) del ben più profondo aver rispetto dell’altro, del riverirlo e, quindi, dell’inchinarsi di fronte a lui. Questa vergogna, questo rispetto, portano Alberto a scappare, a nascondersi, perché quell’atto del donare ha messo lui a nudo e in questo consiste la spiritualità del suo gesto, nel portarlo all’estremo, nel mischiarsi col povero che è diventato più ricco e più autorevole, mentre lui è diventato più povero, nonchè servo, come colui che si inchina e riverisce. Ma non più povero in astratto è Alberto, bensì materialmente più povero, dopo che anche spiritualmentete ha dovuto rinunciare a qualcosa, e precisamente alla sua infanzia (al suo infantilismo) e a tutti i limiti di questo stato dello spirito. Alberto entra in una nuova dimensione dello spirito, quando l’altro inizia ad esiste ed è degno di rispetto. È per questo che il povero bambino non vuole l’elemosina, che non vuole il pane “trovato per caso” nelle tasche. Il ragazzo, il povero, ordina letteralmente di togliersi il cibo dalla bocca (il cibo che fa la differenza, quello che mi lascierà con lo stomaco vuoto, con I crampi). Per questo non ha alcun senso offrirgli qualche briciola, anzi, sarebbe una vera e propria offesa perchè sarebbe un’offerta che non cambia nulla, né nella condizione del povero (che non sarà veramente sazio), né in quella di chi povero non è (che non patire la giusta fame di chi troppo ha avuto). Perché dono vi sarà solo attraverso e per mezzo di una reale, traumatica privazione.
Il povero trova il cibo, una madre, dei vestiti. Il ricco perde dei vestiti, (quelli che vuole dare a Pulcinella), rinuncia all’idea di vestire la marionetta per farla parlare, all’idea di sentir parlare un simulacro d’uomo, un pupazzo, e accede, invece, alla parola di un essere vero, in carne ed ossa, anzi (riprendendo Pinocchio), si potrebbe dire che Alberto, col suo dono, umanizza il povero, lo rende reale, non si sottrae alla sua domanda: cibo e vestiti. Alberto risponde, qui dove il rispondere è sempre un respondere e cioè un essere-responsabile-di, un dare-una-risposta-all’altro.
Eccolo il Natale di Collodi. La miracolosa inversione dove colui che ha di più si trova ad essere più ricco pur avendo di meno: niente regalo per sé, niente soldi, niente più sogni tranquilli, ma la veglia inquieta di chi è privato della pace perché arricchito (e traumatizzato) dalla presenza in-quietante dell’altro. È spazzata via la quiete della casa (della Villa), è perduta la madre che dà un solo bacio, adesso deve ritrovarla nei mille baci della consolazione necessaria al bambino che sta diventando qualcosa di più e di diverso: Alberto ritrova la madre nella solitudine (guardaroba) di un amore di un più alto grado. Ecco il Natale di Collodi: miracolosa inversione del debole che si impone in tutta la sua forza a partire dalla debolezza, che comanda l’altro a partire dalla propria sofferenza. L’altro si impone alla coscienza in molte forme e modi e volti. La chiamata dell’orfano risuona, torna come una eco, coglie il ragazzo prima di dormire, sotto forma dell’ortolana, poi alla rottura dei salvadanai, durante la festa e lo scambio di doni. L’orfano, il povero, il malato, il vecchio, in infiniti modi si presenta a noi colui che ha bisogno di tutto. Non c’è nulla di scintillante nel Natale di Collodi, sono spazzati via i doni, le porte chiuse. Il Natale è dono e trauma, nel senso di perdita e ferita (o esser trafitti). Insomma, chi, a Natale (metafora dell’esistenza in quanto tale) non sente su di sè il dolore di una ferita, il senso della perdita e della vergogna, chi non troverà sul proprio corpo una traccia di sangue, allora non avrà passato un buon Natale, ma si sarà limitato, forse sì, a qualche buon proposito, ma alla fine non si sarà mosso dalla sua sedia piazzata davanti ad uno specchio, tutto contento di sé, incapace di guardare di lato, verso altro…
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Bellissima storia, ma ancora più belle e profonde sono le tue riflessioni. Per fortuna che ogni tanto capita di non riuscire a tenere fuori dalla coscienza certe cose, altrimenti bisognerebbe proprio considerarsi “poveri”, nel significato più ampio del termine. Non vedo l’ora di leggere la prossima…
Grazie. Si dice che questa sia una festa per bambini, ma è proprio tornando alle fiabe per bambini che si scopre quanto poco di bambinesco c’è nel natale, e quanto poco, al contrario, ne capiscano gli adulti. Spero di riuscire ad essere fedele al buon proposito.
Mi piace questa iniziativa natalizia! 🙂
È un modo (spero non troppo indigesto) per augurare buon Natale a chi passa da queste parti.
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