Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tempo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti, anzi in un certo senso potrebbe perfino costituire una appropriata dimostrazione della validità perlomeno razionale di tali schemi o teorie…
Alla sua uscita, nel 1964, Il male oscuro vale a Giuseppe Berto sia il Premio Viareggio, che il Campiello. Il male oscuro è la storia di una nevrosi, è il racconto di una lunga e dolorosissima lotta col padre, è il tentativo di rileggere un’intera vita seguendo il filo di una malattia che è al tempo stesso dell’anima e del corpo. Antagonismo ed amore, volontà di ribellione e disperati tentativi di identificazione scandiscono la vita di un protagonista che, significativamente, non ha e forse non può avere un nome. Da una parte perché la privazione del nome serve a rendere la sua vicenda esemplare; dall’altra, perché serve a confessare al lettore la natura autobiografica dell’opera: il protagonista non ha bisogno di un nome e di un cognome dato che questi stanno scritti sulla copertina, sono quelli dello stesso autore.
La materia di questo incredibile romanzo è così scottante che la scrittura stessa ne è profondamente segnata, come turbata. Ovunque, in questa confessione o lunga seduta d’analisi, cadono i punti e le virgole e via via che ci si addentra nella psiche del protagonista i periodi si fanno sempre più lunghi e contorti, tanto da togliere il fiato (a volerli leggere ad alta voce) e confondere le idee. Periodi che sono dei veri e propri grumi di pensiero, puntualizzazioni che presto si rivelano complicazioni e infine vere e proprie contraddizioni, il tutto specchio di un’anima che punta la luce verso di sé per autocomprendersi e dirsi: nel senso di raccontarsi a se stessa, così come a noi. Solo che tale tentativo – che scaturisce dall’ansia del protagonista di puntare questa luce su di sé – finisce per accecare e produrre l’effetto opposto: lasciare in balia del dubbio e dell’impotenza. Quest’uomo è senza nome perchè forse, fra le altre cose, non è più nemmeno un uomo, bensì un caso clinico, così come questo romanzo diventa la cronaca della sua vita: l’infanzia sotto il fascismo, la guerra in Abissinia, la fuga verso Roma, le difficoltà nello studio, le mille avventure sentimentali, l’incapacità di mantenere una relazione stabile, e poi il matrimonio ed una paternità di cui non riesce a sostenere il peso. Passiamo in rassegna tutto l’inventario di dolore, cinismo, sensi di colpa, retaggi religiosi, desideri, sentimenti lordi e puri al tempo stesso verso la madre e, su tutto, il timore verso il Padre-rivale. Ma anche la dolorosa (ed insopportabile per chi, per una vita intera è stato abituato a vederlo come personificazione di un dio potentissimo) decandenza di questo padre, la sua morte e l’incapacità del figlio di gestire questo evento così grande. Da qui l’inevitabile caduta in una malattia che esplode in tutta la sua potenza, un disagio psichico tanto grande da schiantarsi sul corpo con tutto il suo carico di distruttività.
…ricordavo soprattutto quella mattina che era caduto lungo disteso coi bidoni dell’acqua e s’era messo a piangere come un bambino perché era vecchio, e piangendo s’era fatto finalmente carne questo simbolo di padre che m’era capitato, lui tutto dovere e rigidezza e carabiniere reale ecco che si rivelava uomo nella sua debolezza benché un po’ ridicolo…
Fino a che punto può allargarsi il confine di ciò che è precluso? Per il nostro protagonista la paura (e alle volte la speranza) che questo ventaglio di impossibilità vada ad allargarsi fino a coincidere col grande insieme che la contiene, e cioè la vita, rendendola – infine o finalmente – una vita impossibile, cancellata. Perchè se la vita diviene tutt’uno con la colpa di vivere, allora bisognerà espiare e cioè morire.
…e sono già parecchie le cose che non riesco più a fare come andare in treno o in aereo o per nave, e andare in montagna come a Siusi si capisce, o alle partite di calcio o ai piani alti dei palazzi o anche in chiesa o ai concerti se per caso c’è molta gente, e a teatro e al cinema molto spesso…
La nevrosi, che in molti scrittori è tragedia (si pensi a Volponi e, soprattutto, a Gadda), in Berto si trasforma in commedia, se non in farsa. Il male oscuro, fra i più grandi successi degli anni Sessanta, dissacra quel “male oscuro” che per molto tempo era stato trattato come qualcosa d’innominabile, qualcosa di pauroso, qualcosa di ardente (quasi sacro) che doveva ustionare il lettore, così come aveva fatto con l’autore. Berto fa del suo male qualcosa di comune, quasi di prosaico, giunto ormai alla consapevolezza che il conflitto col padre – che ha segnato la sua vita – altro non è se non un caso fra gli altri. Berto non banalizza, dissacra. Chi soffre non deve sentirsi solo, perchè in realtà è in buona compagnia. Così la trafila di minuziose descrizioni delle sue dolorose disavventure viene a manifestarsi perlopiù in situazioni ridicole: assurde diagnosi, pratiche magiche, timori immaginari, catene di pensieri e deduzioni che corrono parallele alla realtà. Certo, Berto non dimentica di presentare la nevrosi anche come male-per-gli-altri, come dolore che addolora la vita di coloro che sono intorno al nevrotico, come male per quelli che devono convivere col vuoto, i limiti e le mancanze del nevrotico che, in ultima analisi, può esser pensato come essere che vive alla luce dell’egoismo e del narcisismo del dolore, come colui che si chiude nei confronti dell’altro perchè è a se stesso che deve pensare.
E però al centro di tutto rimane la comicità: la comicità esorcizza il terrore e il dolore della nevrosi, tanto che il male oscuro non è più così oscuro. Emerge così il dirompente potere terapeutico della letteratura, del racconto. Grazie a Berto la psicoanalisi non fagocita e non ri(-con)duce la letteratura all’interno di un discorso scientifico, non fa della letteratura un mero sintomo, una semplice sublimazione…ma, al contrario, qui è il discorso scientifico ad essere assorbito, ricollocato e trasformato, fino a diventare (la narrazione della psicoanalisi) uno dei molti modi in cui si può fare letteratura, grande letteratura.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Lo lessi tanti anni fa. Complimenti per l’articolo. 🙂
Grazie. Colpevolmente sottovalutato (da me), era qui in casa da tempo, dopo che l’avevo preso ad una bancarella. Due euro spesi bene.
Bellissima analisi.
Grazie mille.
Bellissimo post, non conoscevo questo libro, cerco di recuperarlo.
Grazie. Berto non va di moda, ma fortunatamente i suoi libri si trovano facilmente.
Ce l’ho in casa ma non l’ho mai letto, l’estetica della vecchia edizione mi ha sempre fermato… che sia una mia forma di nevrosi? 😉
Eh, chissà! Stessa cosa è successa a me, non mi ispirava assolutamente. . Mi sono deciso a leggerlo dopo una chiacchierata con un amico e non me ne sono pentito.
Bella recensione, che mi ha anche fatto molto piacere per il recupero, diciamo così, di un libro e di una autore molto ingiustamente trascurati.
Grazie. Si, la penso come te: libro (purtroppo, anche da me per troppo tempo) ingiustamente trascurato.
Analisi puntuale e approfondita di un libro che andrebbe letto e riletto
Grazie. Concordo. Da leggere e ri-leggere. Altri libri di Berto metiterebbero – a mio avviso – altrettanta attenzione, ad esempio La Gloria, un romanzo incredibile.
Sicuramente. Ma sembra che sia calato l’oblio su tantissima parte della letteratura italiana del dopoguerra, dal quale pare che emergano solo pochi nomi, Calvino e Levi in primis. Peccato. Anche del Male oscuro resta quasi solo il nome.
Sfondi una porta aperta. Mostri sacri della letteratura italiana, scrittori innovativi della caratura di Gadda, Manganelli, Morselli, giusto per fare i nomi di quelli che fra tutti mi sono più cari…ecco, sono semplicemente assenti. Probabilmente anche a causa di cho, me compreso, continua a leggerli senza però parlarne. In questo senso i post su Berto o Malerba sono un primo (timido, nonché isolato e pressoché invisibile) tentativo di mettere una toppa a questa colpevole manchevolezza.
Secondo me ne vale la pena, soprattutto se lo si fa con la competenza e la cura che hai mostrato in questo post.
Pingback: Berto, La gloria | Tommaso Aramaico
Pingback: Giuseppe Berto, Le opere di Dio | Tommaso Aramaico