Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Calvino, Palomar

Che sollievo se riuscisse ad annullare il suo io parziale e dubbioso nella certezza d’un principio da cui tutto deriva! Un principio unico e assoluto da cui prendono origine gli atti e le forme? Oppure un certo numero di principi distinti, linee di forza che s’intersecano dando una forma al mondo quale appare, unico, istante per istante?

La vicenda di Palomar ha tutte le caratteristiche di un grido o di un tentativo di proteggersi da un mondo che si presenta sempre più come qualcosa in rapida trasformazione, come un magma che sfugge e rifugge qualsiasi interpretazione complessiva e, ancor peggio, che si voglia definitiva. È per questo che Palomar si presenta al lettore come una sorta di narrazione-confessione: dietro Palomar è possibile scorgere le inquietudini dello stesso Calvino. Persino l’uso della terza persona non è un’obiezione a quanto detto, anzi, paradossalmente ne è una conferma: la materia del libro è così personale, così scottante, così decisiva per l’autore, che la si può trattare solo cercando di metterla in qualche modo ad una certa distanza, benché solo grammaticale. Inutile ricordare che solo l’immagine allo specchio (e dunque uno scollamento da noi stessi) ci consegna una visione di quanto abbiamo di più proprio, il nostro corpo.

E non deve quindi trarre in inganno neppure l’andamento quasi saggistico di questo libello così denso di problematiche. Anche la forma del saggio è decisamente problematica. E lo è essenzialmente per due motivi. Prima di tutto perchè solitamente un saggio raccoglie esperienze già fatte, mentre qui seguiamo non ciò che è stato pensato, ma il pensare stesso di Palomar; e poi, in secondo luogo, qui abbiamo un saggio o una dimostrazione non delle potenzialità cognitive di Palomar, ma, al contrario, saggiamo la sua incapacità di portar a termine delle riflessioni coerenti. È un po’ come in quei saggi di danza dove bambine imbranate, ma molto determinate, non ne azzeccano una, dove sbagliano i passi, scivolano, vanno fuori tempo, si mettono a piagnucolare. Fanno tenerezza, questo si, ma ciò non toglie che quello che fanno sia tutto sbagliato, e che solo l’amore genitoriale (o dei nonni) può tirarne fuori qualcosa di buono. Stessa cosa avviene quando seguiamo le vicende di Palomar. Il suo pensiero non riesce a tenere il tempo forsennato o anarchico delle cose (di un mondo che si manifesta nelle onde del mare, in storni d’uccelli, nella caccia del geco, nel seno nudo di una donna sulla spiaggia)…dunque, quello che saggiamo è l’inadeguatezza di Palomar, e più in generale della ragione umana nel suo ambizioso, quanto infruttuoso tentativo di acciuffare la realtà. Assistiamo allo scacco di una ragione che, per definizione, vuole aver-ragione (nel senso di sottomettere) tutto quello che prende di mira.

palomar

Forse l’errore di Palomar sta proprio nel voler incontrare il mondo trasformandosi in un occhio neutro, in una sorta di telecamera, rinunciando così all’idea che il mondo non è prima di tutto conosciuto, ma, al contrario, “vissuto” e che solo a partire da tale vissuto che può essere pensato. Questa scissione (che poi è il cuore e il limite del razionalismo, che non accetta il semplice fatto che vivere sia di per sé un modo di pensare e di conoscere il mondo), ci mette di fronte ad un uomo decisamente imbranato ed involontariamente comico, così come attesta la drammatica ed esilarante passeggiata di Palomar sulla spiaggia, tutto preso in un “corpo a corpo” tutto intellettuale con un seno nudo.

Però, – pensa andando avanti e,non appena l’orizzonte è sgombro, riprendendo il libero movimento del bulbo oculare – io, così facendo, ostento un rifiuto a vedere, cioè anch’io finisco per rafforzare la convenzione che ritiene illecita la vista del seno, ossia istituisco una specie di reggipetto mentale sospeso tra i miei occhi e quel petto che, dal barbaglio che me ne è giunto sui confini del mio campo visivo, m’è parso fresco e piacevole alla vista. Insomma, il mio non guardare presuppone che io sto pensando a quella nudità, me ne preoccupo, e questo è in fondo ancora un atteggiamento indiscreto e retrivo.

Palomar porterà avanti questa sua personale riflessione continuado a passare davanti alla giovane donna fino a farla scappare via dalla spiaggia. Ma attenzione, Palomar non è un problema solo per la giovane donna costretta a fuggire. Palomar è compagno sgradito anche per il lettore, e questo perchè impedisce un sereno, naturale (e quindi ingenuo e cioè non-interrogante) contatto con ciò che lo circonda. È snervante seguire Palomar il cui atteggiamento è il prodotto di un uomo snervato a sua volta.

Italo-Calvino-2

Quello che seguiamo è un percorso che Palomar segna/traccia nella sua ricerca di una prospettiva sul mondo. Solo che la sua volontà classificatoria, che mira ad incasellare e a raccogliere la verità del mondo nel concetto, si risolve costantemente nel suo opposto, facendo sì che qualsiasi fenomeno finito e limitato si dilati sotto la lente dell’analisi facendosi potenzialmente infinito. Il mondo di cui Palomar vuole trovare la formula si fa luogo delle infinite combinazioni. L’andamento di Palomar segue passo passo tutti i fallimenti del protagonista, tutte le sue esperienze di ordine e disordine, anzi, del disordine che necessariamente produce la ricerca dell’ordine. Così Palomar fallisce nel lentativo di descrivere un’onda, di conoscerla in sé e per sé. Palomar fallisce perchè cerca di conoscere la singola onda illudendosi che quell’oggetto del pensiero possa esistere indipendentemente dal resto, misconoscendo il fatto che la parte non può esistere senza il tutto e che il tutto viene prima della parte, che viene collocata al rango di singola, accidentale manifestazione di qualcosa di più generale (di qui il debito allo Strutturalismo francese, e non solo). Il fallimento della conoscenza della singola onda porta Palomar ad individuare il vero oggetto del sapere: Solo se egli riesce a tenerne presenti tutti gli aspetti insieme, può iniziare la seconda fase dell’operazione: estendere questa conoscenza all’intero universo. Così questo passaggio dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande solleva un numero incredibile di questioni: il mondo esiste in sé o solo in relazione al pensiero? La realtà ha una consistenza sua propria, è autonoma, o è un prodotto del mio pensiero? Quale rapporto c’è fra pensiero e mondo? Può l’uomo conoscere la natura dell’amore che lega due tartarughe? Oppure è condattanto ad assistere a quell’accoppiamento (a prima vista tanto bizzarro) a partire dalla sua incapacità di uscire dai propri schemi di pensiero? È, quindi, l’uomo fatalmente recluso nelle sue coordinate conoscitive e morali? Quale senso dare al fischio del merlo? Palomar è preso in una spirale, in una vera e propria vertigine del pensiero. Una volta abbandonato il “senso comune”, una volta che si sceglie di pensare veramente ciò che ci circonda, allora anche quello che vi è di più semplice, vicino, letteralmente abitabile e confortevole, apre allo spaesamento (stranieri al luogo che si abita). Così accade quando Palomar cerca di definire il suo giardino di casa. Cosa è? Quale vegetazione lo abita? E in quali quantità? Ecco che improvvisamente, sotto il suo occhio clinico, lo spazio teoricamente finito e rassicurante del giardino di casa si allarga e si distorce facendo saltare ogni confine, diventando potenzialmente infinito. Ma come può ciò che è finito contenere l’infinito? Come può il più piccolo contenere il più grande? È il pensiero ad aprire tale prospettiva. Il prato (in questo senso così simile al campo da tennis pensato da D. F. Wallace) ha in sé un numero infinito, o indefinito, di fenomeni e combinazioni (così come sul campo da tennis – per definizione delimitato – si possono giocare un numero infinito di partite tutte diverse).

calvino_palomar

Palomar porta lo sguardo al cielo, lì dove siamo tradizionalmente portati a pensare all’armonia dei pianeti, alla bellezza delle stelle; presto torna al mondo, anzi, al mondo della cultura, siede davanti alla televisione, va a fare la spesa, osserva gli animali allo zoo. E, infine, attraversando la religione, le civiltà antiche, arriva al silenzio. Palomar sente incombere il fallimento e così corre a rifuggiarsi nella conoscenza di sé e della natura umana, dato che nulla del mondo esterno è conoscibile o che nel mondo esterno è conoscibile solo quello che già abbiamo conosciuto in noi.

In Calvino pessimismo gnoseologico e politico vanno ormai di pari passo. Se non può esservi più uno sguardo scientifico sul mondo, allora non avremo più alcun fondamento stabile per giustificare delle teorie politiche che permettano di organizzare una società giusta o, almeno, per aspirare ad un modello di giustizia sociale condivisibile. Fine dei modelli per cogliere il reale, fine delle ideologie che (siamo ormai alla fine del 1983) hanno mostrato il loro lato oscuro, il volto feroce della lotta per il potere, di una lotta che si trasforma in terrore, totalitarismo, eliminazione del Diverso che viene trasformato in Avversario-Nemico-Pericolo. Per farla breve, è il definitivo saluto di Calvino ad ogni idea di Struttura/Fondamento/Ragione. A tutto questo si contrappone, infine, l’idea della fluidità delle cose e del sapere. È per questo, forse, che Palomar, incapace di adeguarsi veramente a questa fluidità, non può che morire, esaurirsi così come esaurito è un compito, un’aspirazione, un’idea, un modello legato al Progetto che aveva sorretto la Modernità.

Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, – pensa Palomar, – e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine”. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore.

2 commenti su “Calvino, Palomar

  1. Alessandra
    ottobre 11, 2014

    Ottima recensione, veramente impeccabile. Mi hai fatto addirittura venire la voglia di rileggerlo. Hai ragione, Palomar è un compagno sgradito anche e soprattutto per il lettore, proprio perché costringe ad entrare in un rapporto non-naturale con le cose del mondo, con tutto ciò che ci circonda, ma nonostante questo non puoi fare a meno di seguirlo, di rimanerne avviluppato sempre di più, di penare con lui fino al termine di ogni vicenda, o meglio fino alla conclusione (che poi non c’è) di ogni esasperante elucubrazione. Anch’io tenderei a definirlo una sorta di romanzo-saggio, visto che solleva una miriade di questioni filosofiche su cui, volendo, si potrebbe anche meditarci per anni.

  2. tommasoaramaico
    ottobre 11, 2014

    Doppiamente grazie. Per l’apprezzamento (ovviamente), e, soprattutto, per il fatto che in qualche modo ti “dovevo” questa recensione. La promessa (che è debito) mi ha “obbligato” a leggere un libro così denso che, come dici, è da ri-leggere ed approfondire e meditare, un po’ come Palomar, no? Il classico esempio di un personaggio che vive diventando parte del lettore.

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Questa voce è stata pubblicata il ottobre 11, 2014 da con tag , , , .

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