Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Ora quando vado all’Inferno è fatto così: sono di nuovo a casa con Peter e Maureen. Vivo di nuovo con loro. Ma non posso parlare né toccarli. Sono uno zombie. Comincia che sono seduto davanti alla televisione a cambiare i canali, e poi mi metto a girare per l’appartamento, passo accanto a Maureen ma non riesco mai a parlarle, non riesco mai a prenderle la mano o ad abbracciarla o a portarla in camera da letto. Dopo un po’ vado a mettermi sulla soglia della stanza di Peter. Lui si volta e mi guarda, ma io distolgo gli occhi, ho paura di incrociare i suoi. Faccio finta di guardare dall’altra parte e lui torna al suo computer. E questo è quanto. Passo il resto del tempo fermo sulla soglia, guardando da sopra le sue spalle lo schermo del computer. Lo guardo giocare al mio Inferno.
Parlare di generi letterari a proposito di Jonathan Lethem è praticamente impossibile, meglio, lo è se il tentativo è volto a definire in modo univoco (ed inequivoco) una sua opera. Poliziesco, noir, fantascienza, fiaba per bambini, cronaca sportiva, Lethem pesca a piene mani e sapientemente mescola il tutto per dar vita ad un composto di difficile definizione, ma di indubbia efficacia. Tutto questo vale anche per i racconti de L’inferno incomincia nel giardino (The Wall of the Sky, the Wall of the Eye, 1996).
Lethem ci consegna delle storie mai banali, così lontane dal racconto tradizionale, che è arduo persino tirarne fuori un sunto credibile. Ci sono uomini come Tom, padri di famiglia che fanno la spola fra il mondo dei vivi a quello dei morti (o Inferno), uomini deceduti costretti a vivere esperienze autenticamente surreali, gettati in paesaggi spettrali, consegnati a streghe tanto belle quanto inafferrabili, o ad uomini dall’identità incerta che si trasformano in carnefici. E poi, come in Vanilla Dunk, il lettore è travolto dalla supremazia della tecnologia e dello spettacolo, da una smania di successo che permette a giocatori di basket dalle dubbie qualità atletiche di diventare dei campioni semplicemente indossando delle speciali tute che permettono loro di riprodurre le movenze dei grandi miti del basket, il tutto fino all’oltraggio di un bianco che osa indossare la tuta del grande Micheal Jordan. Ci sono strani alieni che sono anche degli angeli custodi che seguono spacciatori e tossici testimoniando, in qualche modo, che anche queste vite apparentemente indegne, sono degne d’esser vissute e protette. E poi software complessi che spediscono uomini e donne in realtà virtuali dove possono assumere nuove identità. La sessualità come potenza distruttiva e creativa, capace di spazzare via il mondo facendo emergere il fondo indifferenziato e brutale delle grandi forze primordiali che muovono la natura. Prigioni innalzate con i corpi dei detenuti, pareti spesse fatte di braccia, occhi e bocche che parlano di esperienze passate. E poi ancora, uomini che cadono addormentati e che vengono trasportati di casa in casa, quasi fossero degli agenti in missione.
I racconti di Lethem non sono però un mero gioco dell’immaginazione lasciata a briglia sciolta, non sono un saggio di autocompiacimento e bravura. Qui la pagina non cede mai ad scrittura fine a se stessa. Questi racconti sono prima di tutto dei nuovi percosi, delle nuove mappe del senso e della fantasia tracciate per tentare di fuggire dal conformismo e a dire/pensare/denunciare in modo nuovo tutti gli orrori che l’uomo subisce e di cui spesso si nutre. Lethem racconta storie di depressione, racconta la violenza subita, l’incapacità di difendere se stessi e i propri figli dal male che ovunque imperversa. Lethem mostra come quell’Inferno che spesso andiamo a cercare lontano, inizia, al contrario, vicino a noi, nel Giardino che assurge a metafora del proprio, della casa, della famiglia, degli affetti.
Un’ora prima mi stavo ancora immaginando Don in California. Adesso vederlo in un letto d’ospedale era un sogno, sembrava più di quanto si potesse sperare.
“Che cazzata questa dei poliziotto, Paul”. Aveva la voce rauca, e più andava avanti a parlare più gli diventava aspra e fioca. “Me ne frego dei poliziotti”. L’altra volta che mi hanno arrestato al tipo gli ho detto: “Grazie, mi hai salvato la vita”. Perchè ero uno scheletro, pesavo quaranta chili, e sapevo che in prigione mi sarei disintossicato e rimesso in forma. La galera è solo questo, Paul: la gente mangia gratis, si rimette in forma, fa le flessioni, così poi quando esce rifà tutto da capo. Cazzo, se mi avessero messo dentro invece di darmi la libertà vigilata a quest’ora magari non mi facevo più”…
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Lethem mostra come quell’Inferno che spesso andiamo a cercare lontano, inizia, al contrario vicino a noi, nel Giardino che assurge a metafora del proprio, della casa, della famiglia, negli affetti.
In realtà Lethem riesce a fare anche molto altro. Questo, però, mi pare il succo, quello che vi è di più autentico in questi racconti.
Però con tutte queste citazioni ci stava bene indicare il nome del traduttore, che è la sempre ottima Martina Testa. 😉
Vero. Di solito non cito il traduttore. Posso dire, a mia discolpa, che nello specifico è quasi superfluo citare Martina Testa? Nel senso che per un lettore affezionato a determinati autori è semplicemente impossibile non conoscerne esistenza ed opera?