Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Eravamo immersi in queste prelibatezze, quando fu portato a tavola Trimalchione in persona a suon di musica: venne adagiato in mezzo ad un mare di guanciali impottiti da scoppiare e questo spettacolo ci strappò delle risate inconsulte. Da un mantello scarlatto sbucava infatti la sua testa pelata e intorno al collo, infagottato dal vestito, aveva rincalzato un bavaglio con larga balza purpurea dal quale pendevano qua e là delle frange. Al dito mignolo della mano sinistra portava anche un grande anello, placcato d’oro, mentre all’ultima falange del medio un anello più piccolo, d’oro massiccio, per quel che potevo giudicare, ma tutto intarsiato con pezzetti di ferro saldato, a mo’ di stelline. E, per non limitarsi ad ostentare solo questo gioielli, si scoprì il braccio destro, ornato di un bracciale d’oro e di un cerchio d’avorio intrecciato con una lamina luccicante.
Amato ed ammirato da Nerone per la sua raffinatezza ed eleganza e per questo accolto a corte nella cerchia dei suoi frequentatori più intimi, Petronio era un uomo che (si dice) amava dormire di giorno e vivere di notte concedendosi svaghi e divertimenti d’ogni genere. Fu proconsole in Bitinia e la sua carriera, la sua intelligenza, la sua vicinanza all’imperatore, provocarono molte ire ed invidie. Per questo iniziarono a circolare voci sulla presunta partecipazione di Petronio ad una congiura contro lo stesso Nerone. Per tentare di parlare con l’imperatore e difendersi da quelle accuse, Petronio si mise in viaggio, da Roma, per andare a conferire con lo stesso Nerone, in quel momento in Campania, ma a metà strada fu fermato e gli fu intimato di non proseguire oltre. In questo modo gli veniva implicitamente chiesto di togliersi la vita. Dedito ai piaceri, Petronio, tuttavia, non tentò di sottrarsi alla dura condanna. Nel metterla in atto, però, volle in qualche modo trovare una sintesi fra l’edonismo che aveva contraddistinto la sua esistenza e il rigido sistema di leggi (anche non scritte) che doveva sostenere un uomo che aveva preso parte alla vita dell’impero. Si tagliò le vene, le fasciò, tolse le fasce e poi le applicò nuovamente. Riuscì così a rendere più lungo il tempo dell’agonia e passò il poco tempo che gli rimaneva a pranzare con degli amici. Durante il banchetto fece leggere poesie d’amore, quindi si addormentò e morì.
Questa, in poche battute, la vita di un uomo incredibile che scrisse un’opera incredibile, il Satyricon, di cui, però, è a noi giunto solo un consistente frammento, La cena di Trimalchione. Niente a che vedere, qui, con le atmosfere e i simposi platonici. Qui non si parla di immortalità dell’anima, dell’amore, della bellezza come mezzo per giungere alla verità ed alla virtù. Al contrario, i tre protagonisti (Encolpio, Ascilto, Gitone) che si ritrovano catapultati in questo banchetto sono travolti da una carnalità portata all’eccesso, fino al disgusto, alla nausea. La tavola qui imbandita è presto trasformata in un palcoscenico in cui fanno la loro comparsa personaggi di dubbio gusto, uomini bersagliati della sferzante critica (o satira) di Petronio. Grande regista di questa messinscena è Trimalchione, di cui vengono esaltate in più modi le (dubbie) virtù: uomo venuto su dal nulla, uomo che dopo aver ottenuto la libertà dal suo padrone, è riuscito, grazie alla fortuna e alla spregiudicatezza negli affari, a diventare ricchissimo e potente. Grasso e sfiancato dai piaceri, sposato a Fortunata (probabilmente una ex prostituta), Trimalchione offre ai suoi ospiti portate che hanno dell’incredibile, bevande raffinatissime, schiavetti di cui abusare, battute, volgarità e racconti d’ogni sorta.
E tuttavia, mano a mano che si va avanti nella lettura, si perde progressivamente la capacità di ridere e sorridere dell’incredibile numero di citazioni, trovate linguistiche e grastronimiche e questo perchè quello che si percepisce confusamente fin dal principio di questo banchetto-circo, di questa cena-spettacolo, progressivamente si manifesta in tutta la sua evidenza: quella di Trimalchione è la maschera che pagina dopo pagina scivola via per lasciarci faccia a faccia col teschio, la morte. Di portata in portata (che poi è un di trovata in trovata), tutta la desolazione e la disperazione di questo banchetto può addirittura spingere alla fuga, innescare un meccanisco di rifiuto che porta ad abbandonare il libro. Petronio cercava tutto questo? O non è forse più giusto pensare a quanto era più grande, in quell’epoca, la capacità degli uomini di intrattenersi in modo diretto (niente televisione, giornali, libri) con gli aspetti più spaventosi (e disgustosi) dell’esistenza? Scritto in un periodo di decadenza, il Satyricon di Petronio è tutto incentrato sulle due forze che guidano ogni epoca di crisi: sfrenato esercizio del potere e del piacere. Rimane da chiedersi perché Petronio per far questo metta proprio il cibo (il rapporto indissolubile cibo-morte) al centro della sua opera. E ancora, perché quest’opera risulta così indigesta? Indigesta oggi?
Siamo noi in grado di pensare la morte in modo immediato, così come ne era capace Petronio? Se è la prospettiva del cibo quella che ci deve guidare, allora no di certo. Basti pensare a tutti i programmi dedicati al cibo, alla buona cucina, così come tutti gli spot pubblicitari dedicati al mangiar bene, al mangiar sano, al viver-sano, dove tutto viene presentato nel legame cibo-vita-sana che cerca a tutti i costi di mascherare il ferreo legame che lega, al contrario, cibo e morte (di chi è divorato), che lega la vita di chi si nutre e la morte certa che ne farà a sua volta cibo per altri esseri. Nel Satyricon il cibo non è vita, ma godimento da godere (non è un gioco di parole) ora e subito, perchè la morte è dietro l’angolo, anzi, perché la morte è insita in questo stesso godimento. Una morte che parla per mezzo di vesciche gonfie, intestini da svuotare all’istante mentre si è ancora tavola, mentre si mangia, fra gli altri; è morte che aleggia fra servi sodomizzati, vezzeggiati, frustati; che muove l’estro di cuochi che servono enormi maiali sventrati che partoriscono nausenti sanguinacci e salsicce fumanti. E così le cascate di vino, i cibi d’ogni genere, i rutti e i peti e tutto il resto, altro non sono se non un glorioso benvenuto alla morte.
E non è del resto per Abinna, il marmista che dovrà costruire la monumetale tomba di Trimalchione, ad avere il posto d’onore a tavola? E non è forse proprio nel bel mezzo di questo banchetto che Trimalchione, patetico e ridicolo, si lascia andare ad una tragicomica recita del suo stesso testamento e alla morbosa richiesta di cura per la sua sepoltura? È la lancinante consapevolezza della morte (e del fatto che nulla, dopo, esiste) che lo spinge a pregare Abinna di seguire meticolosamente le sue istruzioni. Di scolpire ai suoi piedi una cagnetta, di farvi crescere fiori, frutta e viti in abbondanza. Che lì dove “si è costretti a vivere più a lungo” voglia “dei liberti a guardia del mio sepolcro, perchè la gente non corra a cacare sulla mia tomba”.
Viene voglia di abbandonarlo, un libro del genere, solo che questo abbandono ha il carattere della fuga. Anche i protagonisti si alzano per andarse. Ma loro, come il lettore, non possono pensare di cavarsela così facilmente. Andarsene come se nulla fosse veramente accaduto.
Quindi, poiché infreddoliti e fradici avevano chiesto al portiere di farci uscire dal portone, quello ribattè: “Sbagli, se pensi di poter uscire di qui, da dove sei entrato. Nessun commensale mai è stato fatto uscire dalla stessa porta da cui è entrato; da una parte di entra, dall’altra si esce”.
Diversa è la porta da cui usciranno, perché diversi sono loro (così come noi), dopo quello che si è visto. Ma visto cosa, e fino a che punto? Trimalchione celebra le proprie fortune, la sua scalata verso la ricchezza ed il potere. E infine tutti scoppiano in un pianto generale, perché la fine della cena coincide con la piena consapevolezza della fugacitò delle cose e così, fatalmente, il banchetto stesso si trasforma in un funerale.
Il vino, poi, lo fece versare nel recipiente apposito e disse: “Fate conto di essere stati invitati al banchetto per il mio funerale”.
La situazione stava diventado disgustosa al massimo, quando Trimalchione, inebetito dall’indecentissima sbronza, ordinò di far entrare nel triclinio nuovi elementi per un altro concerto, i suonatori di corno, e, sostenuto da un cumulo di cuscini, si distese nel fondo del letto e disse: “Fingete che io sia morto. Suonate qualcosa di carino”. I suonatori di corno, tutti insieme, attaccarono una strepitante marcia funebre.
Eccolo il senso della cena di Trimalchione: onorare il morto che vive, il vivo che muore, ma onorarlo in un modo tutto particolare, svelando il fondo oscuro che soggiace ai discorsi puri e consolatori sull’immortalità dell’anima, sulla vita dopo la morte. E del resto, non ha lo stesso Petronio offerto un saggio della sua visione della vita e quindi anche della morte, scegliendo per sé una fine tanto dissacrante?
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Interessante la tua analisi, mi piace come hai posto l’accento sul legame cibo-morte, che fin dai primordi condiziona (anche psicologicamente) l’essere umano. Non credo che leggerò il libro, ma le tue considerazioni le ho gradite.
Grazie. Il Satyricon è un libro del tutto eccentrico rispetto al nostro modo di intendere un romanzo. E tuttavia ha un fascino particolare. Parla da un’altra dimensione. È fuor di dubbio che per leggerlo bisogna accettare di assumere (tipo stupefacente) certa dose di degrado, sia fisico, che morale.