Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Bruno Spes era al volante della sua station wagon a metano. Era perso nel traffico e, per ammazzare il tempo e i brutti pensieri, si guardava nello specchietto retrovisore, ripetendosi che il suo nome era Bruno Spes e che da tempo lavorava per una società di recupero crediti. Cercava di convincersi che tutto il tempo che negli ultimi anni aveva passato in palestra fosse servito a qualcosa e non fosse stato solo uno sforzo che non valeva nulla.
Era intrappolato all’ingresso della tangenziale est quando il cellulare, buttato sul sedile del passeggero, aveva cominciato a squillare. Sul display lampeggiava il nome di Vera, la moglie. Tito, il figlio più piccolo, non era ancora tornato a casa. Bruno non riusciva proprio a vedere dove fosse il problema ma Vera aveva appena saputo da Lollo, il suo compagno di banco e inseparabile compare, che Tito quel giorno non era andato a scuola.
Era una giornata fredda e senza vento, il cielo terso, il sole splendente, eppure nell’abitacolo, così come aldilà del parabrezza, scendeva una pioggia sottile ed insistente che pareva fatta di granelli di terra che andavano a posarsi sulle cose per subito svanire, senza lasciare traccia o attecchire. Quella pioggia non scendeva solamente dall’alto in basso, ma procedeva in tutte le direzioni, spesso organizzandosi in molteplici vortici. Il dottore gli aveva detto che non aveva nulla di cui preoccuparsi, che era un disturbo dovuto a stress, affaticamento e cose del genere. Il fenomeno, così come si era presentato era destinato a scomparire.
“Tranquilla. Non dirgli nulla, stasera ci penso io.”
Aveva spento il cellulare e alzato il volume della radio. Lo speaker faceva il conto alla rovescia. Meno cinque a Natale.
Sapeva perfettamente che quella che aveva tirato su non era una famiglia felice; sapeva che lui, Vera, Mizar e Tito erano persi nell’impotente desiderio d‘altro, di vivere in un’altra casa, con altre persone, altre vite. Sapeva tutto questo da tempo, ma alla fine quella era la sua vita. Doveva farne qualcosa.
Il serpentone di macchine era stato attraversato da un brivido, spostandosi in avanti di qualche metro. Qualcuno alle sue spalle aveva picchiato sul clacson. Con gli occhi feroci puntati sullo specchietto retrovisore, Bruno faceva pulsare le vene sul collo e sulla fronte, mentre un calore infernale saliva su dalle palle fino al volto tremante. Un filo di bava colava sul suo mento perfettamente rasato.
* * *
Quando quella sera era tornato a casa, tutte le luci erano accese. Mizar, il suo sprezzante primogenito, era fuori in giardino a passeggiare mentre con una mano premeva il cellulare contro l’orecchio e con l’altra portava alle labbra una sigaretta accesa. Guardava il figlio attraverso la pioggerella continua, visibile anche al buio. Era Mizar o quella perturbazione continua ad essere irreale? Appena i loro sguardi s’erano incrociati Mizar s’era voltato e aveva attraversato il giardino fino ad andare a rintanarsi nel prefabbricato di legno di dodici metri quadrati stile baita che quell’estate aveva fatto montare lì in giardino, sul retro della casa. La casetta era chiusa da un chiavistello con un enorme e costoso lucchetto antiscasso. Tutte le spese se le era sobbarcate Mizar e in questo senso ne era il proprietario assoluto ed indiscusso e così lui, Bruno Spes, non aveva mai avuto il permesso di entrarci. Vera e Tito probabilmente c’erano entrati, ma lui no.
Era appena riuscito a mettere il naso in casa che Vera, rigida e scattosa, gli era andata incontro. Aveva gli occhi gonfi di lacrime, il naso rosso.
“È tutto il giorno che ti cerco. Tito è scomparso, l’ho cercato ovunque.”
Aveva dato uno sguardo all’orologio e poi lasciato la borsa a terra, accanto alla porta. Vera era andata a denunciare la scomparsa del figlio alla polizia, ma quelli l’avevano bloccata, assicurandole che il ragazzo sarebbe tornato molto presto. La stragrande maggioranza dei ragazzi che cerca di scappare di casa in realtà dopo poche ore si rende conto di avere troppa paura, di non voler veramente fuggire, di aver messo i genitori in una situazione insostenibile.
“Scusa se non ti ho aspettato ma insomma, dovevo farlo.”
“Vera, sono appena le otto di sera.”
La pioggia cadeva insistente sulla testa e sulle spalle della moglie, sui divani di tela del soggiorno, sulla cucina a vista, sul televisore spento. Cadeva senza lasciare traccia, attraversava le cose e svaniva, senza soluzione di continuità. Su quello schermo sgranato e fluido poteva rivedere la scena di qualche giorno prima. Tito che goffamente emergeva da un secchione dell’immondizia mentre alcuni suoi coetanei si allontanavano ridendo. Lo rivedeva mentre franava sull’asfalto macchiato, perso nel suo nuovo giaccone rosso, fresco di saldi al CEM, lo zaino squarciato dalla lamiera del secchione, i libri e i quaderni a terra, vomitati dalla tela lacera. Magro e alto, i capelli già sottili e radi a dispetto dei suoi quindici anni, il viso allungato e tranquillo, di chi è abituato a raccogliere le proprie cose fra i rifiuti, quasi fosse normale amministrazione emergere dal pattume, lottare per farsi strada fra buste piene di scarti di cibo, merda di neonati, avanzi sputati o vomitati da vecchi schifosi pieni di malattie d’ogni tipo. Il volto del ragazzo s’era indurito e distorto solo quando aveva visto il padre, fuori dalla macchina parcheggiata dall’altro lato della strada. Il volto di Tito si era letteralmente scomposto in mille parti perdendo unità, infrangendosi nel suo sguardo, nel suo volto tremante, nei suoi occhi sgranati, nelle vene che palpitavano sul collo taurino e sulla fronte.
Aveva lasciato la moglie in lacrime sul divano per uscire nuovamente di casa e andare sul retro a parlare con Mizar. Aveva picchiato contro la porta di legno che ancora spandeva un buon odore di mordente. Dopo qualche secondo Mizar era uscito fuori, chiudendosi la porta alle spalle, serio, portando con sé un odore che Bruno Spes conosceva benissimo, che gli provocava dolore sotto le orecchie. Le vene del collo avevano iniziato a pulsare, mentre la pioggia aveva ripreso a scendere insistente, graffiando lo spazio che lo divideva da quel ventiduenne che aveva esattamente la metà dei suoi anni e nessuna fede in lui.
“Dov’è tuo fratello?”
Mizar aveva fatto cenno di no con la testa, anche se non sembrava particolarmente preoccupato.
“Tua madre è molto preoccupata.”
“Lo so.”
“Ha sporto denuncia.”
“Non ancora, ci hanno rimandato a casa. Ero con lei. Tu eri irraggiungibile.”
Aveva ringhiato qualcosa ed era tornato indietro.
scrittore in Milano, Mondo
«Oὕτως ἀταλαίπωρος τοῖς πολλοῖς ἡ ζήτησις τῆς ἀληθείας, καὶ ἐπὶ τὰ ἑτοῖμα μᾶλλον τρέπονται.» «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità, e a tal punto i più si volgono di preferenza verso ciò che è più a portata di mano». (Tucidide, Storie, I 20, 3)
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di letture e scritture a cura di giulio mozzi
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