Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Ventotto giorni fa, più o meno alle sette del pomeriggio, stavo sul marciapiedi, le mani puntate ai fianchi. Con gli occhi a metà strada fra cielo e terra osservavo il palazzo in cui da qualche anno vivo. Era con estrema attenzione che portavo avanti le mie osservazioni. Gli alberi e i lampioni puntellati lungo la strada erano i miei punti di riferimento. Cercavo prove, conferme, smentite. Muovevo qualche passo a destra, oppure a sinistra, come al museo, davanti ad un’opera celebre ma incomprensibile, sempre tenendo il naso puntato contro il palazzo. È signorile e in cortina; manca il portiere, questo sì, ma c’è un atrio decisamente ampio, luminoso. Io abito al sesto ed ultimo piano, in una mansarda di quarantacinque metri quadrati gelidi d’inverno, di fuoco in estate. Un appartamento gentilmente offertomi da mamma e papà.
Perso nel mio sforzo ermeneutico, mi ero poggiato al cofano di una macchina parcheggiata.
“Aspetti qualcuno?”
Un tipo mi si era messo di fianco, poggiandosi anche lui al cofano. Non gli avevo risposto.
“Questa è di Lucia, lo sai? – aveva bussato sulla carrozzeria, per precisare che parlava della macchina.
Poi s’era fissato sulle mie chiappe, proprio nel punto in cui entravano in contatto con la macchina, forse alla ricerca di prove scottanti. Lucia abita due piani sotto il mio, spesso la incontro in ascensore. Ha qualche anno in meno di me; è una donna adulta e vaccinata, ma vive ancora con i genitori. Stava uscendo dal portone proprio in quel momento.
“Noti niente di strano?”
Con un colpo del mento avevo indicato il palazzo. Il tipo era spaesato, così avevo nuovamente indicato l’edificio, ma questa volta con la mano. Volutamente rimanevo sul vago, senza specificare quello che mi interessava sapere. Innanzitutto perché non volevo influenzare l’eventuale risposta e poi perché mi vergognavo. Lucia era arrivata da noi ed io non ero riuscito a far sparire dal volto dello sconosciuto quell’espressione da coglione. Adesso che lo mettevo a fuoco, mi rendevo conto che non doveva essere uno particolarmente predisposto per il pensiero e, in generale, per una seria indagine. Non aveva degnato d’uno sguardo il palazzo. Era in me, nei miei occhi, sulle mie labbra che andava cercando una risposta, o un aiuto.
“Non cade, non cade, tranquillo.”
Lucia aveva preso il tizio per un braccio, promettendogli che gli avrebbe spiegato tutto. A quel punto m’ero trovato obbligato a staccare il culo dalla macchina. Li avevo seguiti con lo sguardo mentre si allontanavano e, dopo che erano scomparsi, mi ero accomodato su una station wagon subito lì di fianco. Avevo intenzione di riprendere le mie indagini ma a quel punto alla finestra era comparsa la testa di Spinelli, quello del primo piano:
“Come va?”
Incrociate le braccia sul petto e le caviglie, avevo risposto con un cenno del mento. Da quando è in pensione, due anni, Spinelli è in guerra con tutti i condomini per far installare una rampa che gli permetta di scendere i dieci gradini che impediscono a lui e alla sua sedia a rotelle di accedere al mondo. Io sono stato dalla sua parte fin dal primo momento ma, a quanto pare, i lavori non si possono fare; la scala è troppo ripida e la rampa, per legge, deve avere una precisa inclinazione, o qualcosa del genere. Allora Spinelli ha ripiegato su un montascale. Io sostengo la sua causa, ma la maggior parte dei condomini è contraria. Sono sicuri che i ragazzi della zona non chiedono di meglio, per passare le loro serate. Così Spinelli, salvo per miracolo dopo un terribile incidente d’auto, è sempre lì a controllare chi, diversamente da lui, quelle scale può salirle e scenderle quando e come vuole. Si chiama risentimento, il suo, e questo risentimento si abbatte anche contro di me, uno dei pochi rimasti a sostenere la sua causa:
“Da qui il mondo pare dritto – ghignava.
Col mento arrivava a poggiarsi al davanzale, ma se voleva poteva aggrapparsi e tirarsi su.
Io sorridevo ed abbozzavo. Come facevano Lucia e Spinelli a conoscere la natura delle mie indagini? Facile.
Trentatré giorni fa aveva avuto inizio tutto. Erano le cinque del pomeriggio ed io ero seduto a tavola per uno spuntino quando una scossa, all’improvviso, mi ha letteralmente strappato dalla mia usuale spensieratezza. Un semplice scrollone, non più di tre o quattro secondi in tutto. Mi aveva sollevato da terra con tutta la sedia ed io, per istinto, mi ero aggrappato con tutte le forze al panino con la mortadella che stringevo fra le mani. Una scossa di terremoto, una cosa da nulla, uno schioccar di dita per richiamare l’attenzione di uno spettatore distratto. Già, niente in confronto a quello che si sente alla televisione, però m’ero messo paura e così ero uscito di casa e avevo fatto tutte le scale a piedi, fino al piano terra. È stato lì che ho incontrato Pighin…
scrittore in Milano, Mondo
«Oὕτως ἀταλαίπωρος τοῖς πολλοῖς ἡ ζήτησις τῆς ἀληθείας, καὶ ἐπὶ τὰ ἑτοῖμα μᾶλλον τρέπονται.» «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità, e a tal punto i più si volgono di preferenza verso ciò che è più a portata di mano». (Tucidide, Storie, I 20, 3)
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di letture e scritture a cura di giulio mozzi
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