Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Leon Hubbard morì dopo dieci minuti dopo l’inizio della pausa pranzo, il primo lunedì di maggio, nel cantiere del nuovo reparto di traumatologia dell’Holy Redeemer Hospital, nella zona sud di Filadelfia. In un modo o nell’altro stava per perdere il posto. Il caposquadra era un ex battista della Georgia. Si chiamava Coleman Peets, pesava centoventi chili e in vent’anni passati a dare ordini era dovuto arrivare alle mani dodici o quattordici volte. Una volta, mentre sovrintendeva a certi lavori in un centro commerciale, gli era anche capitato di dover far fuori un uomo, ma fino a quel momento non aveva mai licenziato nessuno nel vero senso della parola. Fino a quel momento, i suoi sottoposti avevano sempre capito da sé quando era giunto il momento di andarsene.
Già, Coleman Peets è uno capace di mettere le cose a posto, è uno capace, per dirla con le parole della moglie, di far spostare le patate con uno sguardo, se stanno nella parte sbagliata del piatto. Eppure tutto questo sembra non funzionare con Leon Hubbard, un ragazzo di poco più di vent’anni che non ha tutte le rotelle a posto. Leon è incapace di tenere il ritmo e la disciplina necessari in un cantiere e, soprattutto, è troppo preso a giocare col suo dannato rasoio, sempre pronto a sventolarlo in faccia agli altri minacciando violenze che poi non si danno. In pochi lo prendono veramente sul serio, ma nessuno vuole avere a che fare con questo ragazzo sempre in cerca di guai, amato solo dalla madre e, forse, da una ragazza di cui non si sa nulla e che nessuno conosce. Poi, all’improvviso, qualcosa va storto. Leon piazza la sua amata lama sotto la gola di un collega. Se ne pente, certo, ma il Vecchio Lucy, un negro in là con gli anni e di poche parole, prende la prima cosa che gli capita fra le mani e gli fracassa il cranio.
Da questo momento tutta una serie di cose iniziano ad intrecciarsi e ad andare per il verso sbagliato. Diverse storie iniziano a correre parallele, apparentemente slegate, ma in fondo legate alla morte del povero Leon. C’è la storia di Coleman Peets, che agli agenti di polizia parla di un incidente sul lavoro, tentando di insabbiare la storia per difendere il Vecchio Lucy. E poi quella di Jeanie Hubbard Scarpato, che non si accontenta dell’esito delle indagini della polizia e chiede che si vada a fondo alla faccenda per arrivare a capire come veramente è morto il figlio. C’è Mickey Scarpato, patrigno di Leon Hubbard. Mickey è un pesce piccolo della mala locale che traffica carne rubata e che per amore di Jeanie cerca di scoprire la verità e tenta di dare degna sepoltura al ragazzo. E poi c’è Shellburn, vecchio giornalista infartuato e alcolizzato che racconta storie di gente umile e che per questo è un mito a God’s Pocket, il piccolo e malfamato quartiere di Filadelfia che fa da scena alla vicenda. Cosa accomuna tutte queste vicende? Beh, la morte. Ma non solo quella di Leon. Qui ci sono un mucchio di altre persone che vanno all’altro mondo. Già, questo romanzo è una sorta di carrellata sui mille modi in cui si può morire. La morte di Leon è il centro intorno a cui tutto si muove. Infatti tutto segue le vicende del suo povero corpo che non trova pace, che non trova sepoltura. Un corpo che viene abbandonato per la strada, catapultato sull’asfalto, sul retro di vecchi palazzi o portato a zonzo per la città dentro furgoni-frigorifero pieni di carne rubata. Il corpo di Leon è corpo che non può trovare sepoltura, un corpo che si ribella, un corpo che non vuole togliersi di mezzo fino a che la verità non sarà finalmente davanti agli occhi di tutti. Solo allora potrà andarsene in pace. Ci riuscirà? Meglio lasciarlo scoprire al lettore.
In quanti modi si muore a God’s Pocket? Beh, in molti: in solitudine sul ciglio di una strada, per errore, ammazzati o, ancora, dopo essersi ammalati o perché ad un certo punto ci si toglie la vita. A God’s Pocket, in realtà, si muore esattamente come in tutto il mondo. Già, perché alla fine non c’è un modo buono o cattivo, o giusto o sbagliato per farlo. Morire è sempre e comunque un’ingiustizia. Lì si muore, anche se si è presi nel sacco divino. Punto e basta. E non serve a nulla chiedersi perché Dio abbia voluto così. È così, punto. Così come è inutile tentare di capire quello che veramente avviene lì a God’s Pocket. Per tutto il romanzo risuona una voce di sottofondo, una verità che è un avvertimento ed una minaccia: “tu non sei di qui”.
Peter Dexter apre uno spiraglio per farci dare un’occhiata, ma solo per un istante, perché subito God’s Pocket si richiude su di sé e tutto sembra tornare come prima e nel lettore rimane l’amara sensazione di non essere mai veramente entrato in God’s Pocket. Già, solo che questa amarezza è mescolata alla consapevolezza che forse è stato il Pocket a farsi strada in lui, in quella sorta di congelatore che ci portiamo dentro, lì dove buttiamo tutte le cose che non ci piace vedere e a cui non ci piace pensare. Cose che però vengono conservate, proprio come avviene per la carne rubata nei furgoni di Mickey. Il Pocket è lì dove buttiamo porcherie di ogni genere, mescolandole spesso con le cose care e belle che ci sono capitate, che abbiamo e non sappiamo apprezzare o che alla fine abbiamo perduto. Quelle cose muoiono e non muoiono in noi.
Ci fu silenzio, per un po’. Quindi, in lontananza, a intervalli di qualche minuto, Mickey udì gli spari rompere la quiete di quel mattino in Florida, come ricordi inattesi delle persone che aveva amato.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
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