Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
“Scendi giù, vecchio, scendi ti ho detto.”
Un paio di colleghi cercavano di calmare e di tappare la bocca all’autista che continuava a dimenarsi e ad urlare sul ciglio del marciapiede. Era un uomo sulla quarantina con la testa lunga e stretta, le tempie compresse e i capelli che gli schizzavano in alto, fissati in un bagno di gel. Scuro di carnagione in modo innaturale, non troppo alto ma ben piazzato, di sicuro incline alla violenza. Diceva molto del suo temperamento una lingua di fuoco che gli guizzava fuori dalla camicia fino al collo taurino, solleticandogli l’orecchio destro. Era uno di quelli che inquietano e riempiono di brutti pensieri le persone tranquille. La gente che si trovava a passare di lì, quasi tutti anziani, si fermava a godersi lo spettacolo; dai negozi vuoti uscivano dipendenti e gestori. Eppure in pochi si soffermavano sul tipo che urlava e si dimenava, ignorando i consigli dei colleghi:
“Guarda che poi passi i guai.”
Solo di sfuggita la gente prestava attenzione al conducente del 552, perché tutti avevano gli occhi puntati su quello che, mezz’ora più tardi, avrebbero identificato come Italo Calizza.
Italo Calizza se ne stava in piedi, immobile ed isolato al centro dell’autobus. Tutti lo guardavano, lo stuzzicavano indicandolo con l’indice e lui guardava tutti. Lo aveva fatto dapprima con sguardo feroce, poi sempre più rassegnato e distante. Tutti i passeggeri erano scesi, lasciandolo in compagnia del motore acceso. A settantadue anni il signor Italo Calizza, a parte un paio di litigate alle poste e qualche scenata al mercato, viveva il suo primo momento da vero protagonista. Per la prima volta gli prestavano attenzione più di tre persone contemporaneamente. Ne avrebbe volentieri fatto a meno. Perdio pensava, perdio, e stringeva il fazzoletto di cotone che portava sempre con sé, nel tascone dei pantaloni. Queste erano le uniche cose che avesse ereditato dal padre, il fazzoletto e l’imprecazione.
Guardava l’uomo che gli urlava contro che era uno stronzo e che se scendeva gli avrebbe rotto il culo. Non era poi così diverso da Carlo, suo figlio. Perdio, pensava. Quell’imprecazione ereditata se la teneva stretta e la usava ogni volta che gli pareva. Il pugno che il signor Calizza aveva dato all’autista che adesso lo minacciava e lo insultava, era il risultato concretissimo di una lunga catena di pensieri che dalla sera prima continuava a ripercorrere, un rosario tutto bestemmie e recriminazioni, geremiadi, pentimenti e mortificazioni. Certo, se il giorno prima fosse andata diversamente, allora il signor Calizza non avrebbe reagito a quel modo, non avrebbe dato un pugno sull’orecchio del conducente per il solo fatto che quello era un uomo di niente; uno che non aveva cuore e pazienza per concedere ad un vecchio mezzo zoppo il tempo di alzarsi dal suo posto e lottare tenacemente per farsi strada nella calca di altri vecchi armati di buste, bastoni e carrellini della spesa:
“Senti nonno, – gli aveva urlato l’autista – scendi alla prossima e ti fai una bella passeggiata.”
Se il giorno prima fosse andata diversamente da come era andata, Italo Calizza non avrebbe dato un pugno sull’orecchio di un autista che, anno più anno meno, doveva avere la stessa età del figlio…
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
scrittore in Milano, Mondo
ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
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