Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Colui che conosca le pieghe e le complessità del corpo della propria madre, egli non morirà mai. Colui che conosca le latitudini del corpo della propria madre, colui che l’abbia sollevata tra le braccia e quindi battesimalmente immersa nella vasca del bagno al pianterreno, prima una e poi l’altra delle sue gambe alabastrine, colui che la lavi con campioncini di sapone Woolworth, colui che ruoti le stridenti manopole e saggi la temperatura dell’acqua con l’interno del proprio polso, colui che versi un paio di cucchiaini di Sali alla rosa nel gorgo sotto il rubinetto e si stupisca per il rosso acceso che ne risulta, colui che con la mano fletta le sue membra sclerotiche come per accertarsi dell’efficienza di un cardine, colui che abbia baciato la propria madre lì dove più radi sono i capelli candidi, e che ne abbia sussurrato il nome mentre la insapona sotto quel seno che un tempo gli diede il latte…
Questa è solo una parte del (giustamente) celebre incipit di Rosso americano di Rick Moody. Un incipit che continua per quasi quattro pagine senza che ci sia un solo punto, un incipit che toglie il fiato al lettore, che lo obbliga a boccheggiare. Già, a boccheggiare proprio come Dexter Raitliffe, giovane protagonista alcoolizzato e balbuziente che per un fine settimana deve lasciare New York per tornare al paese d’origine per prendersi cura di Billie Raitliffe, la madre gravemente malata. Giustamente-celebre-incipit che è un’unica frase, che è una sorta di preghiera, una forma di salmo dedicato al complesso e contraddittorio rapporto fra un figlio inetto ed una madre che costretta in un corpo ormai ridotto ad una terribile prigione.
Rosso americano è un romanzo dedicato al linguaggio (qui, esplicitamente, “le parole significa(-va)no civiltà”), ma anche alla felicità e al “sacrosanto diritto di perseguirla”. Rosso americano è tutto giocato sul conflitto fra linguaggio (inteso come comunicazione impossibile: figlio balbuziente e madre incapace di articolare parole comprensibili) e l’insopprimibile ricerca della felicità (questa parola, felicità, ritornerà spesso). È un romanzo che scandaglia tutto il conflitto e il senso di colpa che esplode nell’uomo ogni volta che la ricerca e la realizzazione della nostra felicità entrano in rotta di collisione con quella stessa ricerca che anima tutti quelli che ci sono cari. E così il libro prende diverse direzioni. Una delle più importanti è quella che segue la fuga di Lou Sloane, pre-pensionato della Millstone Nuclear Power Station e secondo marito di Billie Raitliffe. Lou ha deciso di mollare tutto, anche l’amata moglie ormai giunta alla fase terminale della sua malattia. Proprio la fuga di Lou (che si rivelerà di natura circolare) da quella donna che ha sposato quanto era già malata e dopo quasi vent’anni di assoluta fedeltà e dedizione rivelerà uno dei possibili esiti del conflitto che fa da filo conduttore dell’intera storia.
E poi c’è la pazzesca vicenda di Dexter, che si ritrova catapultato dalla madre abbandonata e che non si sente all’altezza della situazione quando Billie gli chiede di aiutarla a farla finita; già, perché la madre lo prega di mettere fine alle sue pene e lasciarla così morire con quel briciolo di dignità e coscienza che ancora le rimangono. È qui che la ricerca della felicità (o fuga dal dolore insopportabile) della madre entra tragicamente in conflitto con la volontà del figlio: Dexter non può esaudire la preghiera della madre perché questo significherebbe minare alle fondamenta la possibilità stessa, per lui, d’essere ancora felice e però, allo stesso tempo, Dexter è schiacciato dal peso di quell’egoismo e di quell’inettitudine che gli impediscono di aiutare la madre.
È la vicenda di un fine settimana, qualcosa come quarantotto ore; poche, forse, ma capaci di segnare Dexter in modo indelebile. Perso nell’alcool, coinvolto in una rissa, alla ricerca di una donna, qualsiasi donna, che lo possa aiutare a non crollare definitivamente, lo stesso Dexter non è più in grado di mettere in relazione quello che era stato con quello che è diventato, con quello che è: un tempo era un ragazzino dolce, può giurarlo, bel sorriso e ottimo carattere. Certo, di mezzo ci si sono messe un mucchio di cose orribili. Tipo la morte del padre (quello vero ed adorato) sotto i suoi occhi, mentre erano in chiesa, e lui era ancora un bambino. Si, è ancora vivo il ricordo del sangue che usciva da tutte le parti. Il cervello del padre in pappa per una probabile complicazione dopo degli esperimenti nucleari. Già, perché tutto il dramma che Moody tira su ha per sfondo, o scena, una centrale nucleare di vecchia generazione con tutti i suoi guasti e perdite e cose del genere (centrale che fa da sfondo, nel passato come nel presente, ai momenti fondamentali della famiglia Raitliffe). E poi c’è la malattia della madre…
Perché, in fondo, è la funzione materna che viene a mancare. Moody ce lo spiega benissimo quale è la funzione della madre: le madri rendono abitabile questo mondo, le madri sciolgono la tua angoscia, le madri rimangono a mettere in ordine nei tuoi pasticci. È questo che manca a Dexter, ed è proprio per questo motivo che c’è tanto disordine nella sua esistenza. Ed è sempre per questo motivo che Billie non può più sopportare la propria malattia, una malattia che non le permette di realizzare la sua più alta forma di felicità, una felicità che coincide con quella del suo unico figlio: È spettrale. Torvo. Seccato. La preoccupazione di Billie per questa nuova complicazione, la sua preoccupazione materna, interferisce con altre faccende pratiche. La sua nostalgia per il semplice gesto di abbracciare è acuta, e la sua malinconia per aver perduto questo privilegio di consolarlo è, quindi, l’invalidità peggiore di tutte.
Billie se ne vuole andare non solo, dunque, per porre fine alle sue private sofferenze. Billie vuole eliminare una madre che non può più abbracciare il figlio, vuole liberare il figlio dal desiderio e dalla vana speranza che lei torni ad abbracciarlo, che sia lì a mettere ordine dove è il caos, ad offrire un abbraccio lì dove è solitudine, a medicare lì dove ci sono ferite, a ricucire lì dove l’anima è lacerata, a pulire via il vomito, a mostrare che il mondo può essere ancora il luogo di una felicità che ad ognuno dovrebbe spettare di diritto, anche se per poco tempo, il tempo d’una giornata. Di Dexter Raitliffe ce ne sono un’infinità (“e se costui è un eroe, allora gli eroi sono a bizzeffe, e il mondo ne è pieno come lo è di cani randagi, gomme lisce e chiavi smarrite”), così come ci sono innumerevoli le Billie Raitliffe che vogliono ancora e a tutti i costi salvare i propri figli, perché questa, appunto, è la funzione della madre. Ma non quella del figlio. È questo a rendere un dramma così comune una tragedia universale, degna d’essere raccontata e letta:
M-m-mamma, non se ne parla proprio, se pensi…se tu…non m-m-mi importa qu-quanto stai male, non mi importa, non l-l-lo farò m-m-mai e poi mai, no, lo sai…non p-p-potrei fare male a nessuno, non sono m-m-mai stato il t-tipo che f-fa male a qualcuno, non p-p-potrei farlo, mamma…non p-potrei…non p-p-potrei…devi trovare qualcun altro; t-t-trovati uno specialista; mi spiace, mi spiace, e comunque ho detto che resterò e resterò…t-t-ti assisterò io…
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Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
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