Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
L’orologio appeso alla parete segnava le dieci e mezza, il ticchettio della lancetta dei secondi era coperto dalla voce dello speaker che dalla radio ripeteva che la colonnina di mercurio, già a quell’ora, era salita a trentadue gradi. Sembrava davvero incapace di farsene una ragione. Seduto sulla dura sedia dietro il tavolino scheggiato, Ignazio Carvero – soprannominato Ignacio per i baffetti sottili che un tempo portava – giocherellava con le forbici da lavoro del padre cercando di testare la prontezza delle dita, la velocità di taglio di cui era ancora capace dopo due anni di forzata inattività. La fredda opacità dell’acciaio rifletteva il grigio che dominava il locale. Non ci aveva mai fatto caso prima. Piastrelle gonfie di polvere, pareti tappezzate di stampe in bianco e nero che ritraevano, di profilo o a tre quarti, modelli sconosciuti con acconciature dalla valenza universale. Erano grigi i santini attaccati col nastro adesivo ai piedi di un crocefisso, così come grigio era il vecchio divano dalla stoffa consumata per tutti i culi che vi si erano posati sopra. Una vera trappola per i vecchi di zona che in quei cuscini resi ricottosi dal tempo, affondavano fino quasi a scomparire, le ginocchia contro il petto.
Sul tavolino, un blocchetto per le ricevute fiscali, qualche foglio di carta carbone, due timbri secchi. Nel cassetto, una scatola a chiusura ermetica, con dentro l’incasso della giornata. Era vuota, così come vuote erano le tre postazioni per i clienti che però non c’erano. Il padre le aveva tenute tali e quali a come le aveva ereditate. Il metallo pesante, le imbottiture piene di avvallamenti, le foderature azzurre così usurate che ci si poteva specchiare.
Ignazio Carvero, dopo anni di apprendistato, s’era guadagnato quella in fondo, davanti alla vetrata che dava sul marciapiedi, sulla strada trafficata. Di lì aveva guardato il mondo e il mondo aveva avuto accesso a lui.
Gli affari non erano mai andati granché bene in quel periodo dell’anno. Il grosso del lavoro, di solito, si concentrava a ridosso delle feste comandate, Natale, Pasqua, Capodanno. E poi subito prima e subito dopo l’estate. Erano al due di agosto e chi i capelli doveva tagliarli l’aveva già fatto. Gli toccava di passare lì una settimana, poi avrebbe abbassato le saracinesche e affisso un cartello. Chiuso per ferie. Ci avrebbe pensato il padre a riaprire, dopo la convalescenza. Ma poteva anche darsi che il padre smettesse di lavorare e il negozio sarebbe rimasto chiuso definitivamente. Non l’avrebbe certo riaperto lui perché per lui, lì, non c’era più modo di lavorare. Molti dei negozi della zona erano falliti o avevano cambiato gestione ma qualcosa era rimasto, una specie di memoria del luogo. Voleva restare da solo a godersi quel momento e visualizzare i movimenti e i gesti necessari ad affrontare una massa di capelli in cui da tempo non affondava le mani e aveva spedito Loris, il ragazzo che il padre aveva assunto per sostituirlo, al bar a prendergli un caffè e poi a sbrigare certe questioni. Loris lavorava lì da due anni. Sembrava stupido, forse era frenato da un lieve ritardo o più probabilmente era solo un’impressione amplificata dalla stempiatura, dagli incisivi ruotati sul loro asse fino a formare una V o, chissà, era a causa degli occhi troppo ravvicinati e schermati da lenti spesse e puntellate di forfora. Insomma, dalle nove in punto, quando s’erano incontrati e conosciuti, fino alle dieci, quando l’aveva mandato via, il ragazzo nemmeno una volta era riuscito a guardarlo negli occhi.
Lo chiamavano tutti Ignacio prendendolo per il culo per quei baffetti sottili che s’era fatto crescere e che curava in modo eccessivo. Al padre non piacevano ma a lui sì e passava un tempo considerevole allo specchio per controllare che fossero perfetti in ogni punto. Ma quello era il passato e quei baffetti ormai li aveva tagliati…
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
L’incipit incuriosisce… e comunque scrivi veramente bene.
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