Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Cos’è meglio? Che se ne stia qui al sicuro per un po’ o che se ne vada in giro finché i poliziotti non lo pizzicano e lo arrestano per disturbo della quiete pubblica?
Quanto a lungo può un uomo sopportare impegni e responsabilità, la continua pressione sociale, il lavoro, la famiglia? Per quanto tempo un uomo può rinunciare ai propri desideri, prima di perdere il controllo, prima che inizi a diventare esso stesso un problema e trasformarsi letteralmente in un disturbo/sintomo delle ipocrisie, del dolore e dell’alienazione che corrodono l’animo dell’uomo contemporaneo? Queste, in poche parole, le domande che animano Disturbo della quiete pubblica (1975), romanzo scritto da Yates in un periodo particolarmente travagliato della sua vita (sempre che ne abbia avuti di sereni). Fresco di un secondo matrimonio fallito e sempre più in balia dell’alcool e della depressione, il libro viene accolto con reazioni contrastanti e, in generale, pare proprio che la carriera di Yates sia ormai giunta al capolinea (ovviamente si sbagliano di grosso). Esattamente come nel ben più noto Revolutionary road (ma anche come in The Easter Parade o Undici solitudini) anche in Disturbo della quiete pubblica Yates prende le mosse dalle vicende della sua biografia, collocando il tutto all’interno in un dramma familiare. Qualcuno potrebbe pensare: “ancora drammi familiari?”. Errore, non si tratta di ripetizione o ri-scrittura dello stesso romanzo sotto altre spoglie. L’opera di Yates è mossa ed attraversata da un intento programmatico e del resto è lui stesso a dirlo. Perché continuare a scrivere della famiglia e delle sue dinamiche? Semplice, “non c’è altro di cui scrivere”. Per cui la questione è chiusa.
Nell’America dei Kennedy (di John Fitzgerald e di Robert/Bob-by) e della Baia dei Porci, sullo sfondo di cartapesta di un’America che vive nel benessere e nell’ottimismo di un paese che si auto-comprende come Impero, come legittima guida dell’Occidente libero e capitalista, si staglia la vicenda di John Wilder, impiegato trentaseienne, sposato con figlio e a suo modo abile venditore di spazi pubblicitari per la rivista American Scientist. Beh, nulla di strano, anzi, al contrario, tutto fin troppo normale. John Wilder incarna alla perfezione lo stile di vita dell’americano medio, solo che…solo che ad un certo punto qualcosa va storto. Wilder è fuori per lavoro, ma quando torna in città invece di tornare a casa decide di chiamare. Il telefono squilla e la moglie di Wilder, Janice, è pronta ad ascoltarlo. John non vuole e non può tornare, ha bevuto e durante il viaggio di lavoro si è fatto una ragazza delle pubbliche relazioni a Chicago. Janice (fedele alla parte della brava moglie, le cui parole d’ordine sono “civile” e “ragionevole”) insiste, vuole che John torni a casa, malgrado tutto. Poi la verità viene a galla, lui non può proprio tornare dalla moglie e dal figlio: “Lo vuoi veramente sapere, dolcezza? Perché ho paura che potrei uccidervi, ecco perché. Tutti e due”. Così inizia il progressivo scivolamento di John Wilder verso la rovina. Scivolamento che passa attraverso un breve soggiorno forzato al reparto di psichiatria del Bellevue. Quando John ne esce tenta di riprendere la sua vita di sempre. Viene invitato a seguire gli incontri degli Alcolisti Anonimi, si lascia seguire da uno psichiatra che gli prescrive psicofarmaci di ultima generazione. Già, ma qualcosa in Wilder [ed è il selvaggio che si porta (forse in modo fin troppo scoperto) nel cognome] sembra premere per far saltare ogni argine. Anzi, l’esperienza al Bellevue sembra averlo dotato di antenne sensibili, capaci di registrare tutta la rabbia e la frustrazione di quelli che ancora, intorno a lui, paiono in grado di mantenere il controllo.
L’ufficio era meglio del Bellevue. Le pareti erano bianche e le luci indirette; c’erano uomini e donne; tutti indossavano vestiti veri e propri e nessuno implorava di essere salvato o urlava o si masturbava o tirava calci alle finestre; con tutto ciò, mano a mano che la giornata volgeva al termine, si notavano segni di crescente disperazione sui visi della gente; e alle cinque fu come se il poliziotto del Bellevue avesse dato il segnale di aprire la porta d’ingresso.
Wilder esce dal Bellevue con un compito preciso: accettare la vita borghese che gli è data in sorte. Ma non ci riesce. Riprende a bere, mente spudoratamente su tutto, passa molto del suo tempo fuori casa, va alla ricerca di altre donne. Tutto fino al tentativo di recuperare antiche velleità artistiche e ad improvvisarsi produrre di un film sperimentale costruito tutto intorno al suo soggiorno all’ospedale psichiatrico. Ma questo tentativo che lo porta a lanciarsi in un’impresa senza reale fondamento serve, in fondo, a svelare ciò a cui Wilder intimamente mira: all’auto-distruzione, alla ricerca del baratro e del fallimento. Non è che la vita di Wilder sia insensata in quanto destinata al fallimento, al contrario, è il fallimento a trarre origine dalla mancanza di senso. Wilder è fondamentalmente incapace di riempire di senso la propria esistenza e per questo non può tollerare la vita borghese, ma nemmeno la possibilità che i suoi sogni (produrre film sperimentali) si avverino. Sognare una vita semplice ed ordinata (borghese) è altrettanto assurdo che sognarne una intensa ed originale (nell’arte). Qui è il vivere stesso ad essere messo in discussione, perché nessun tipo di esistenza potrà mai eliminare la consapevolezza dell’insensatezza di ogni progetto o sogno/desiderio. Metafora di un’America impazzita dove in analogia alla testa (ferocemente materiale) del presidente Kennedy salta anche quella di Wilder (nel senso di un andar-fuori-di-testa, di perdere-la-testa), Yates sembra parlare non di un paese semplicemente ingiusto o infelice o ipocrita, ma di un paese che nel profondo non vuole essere quello che dice e crede di essere. Oswald, l’assassino di Kennedy (qui si sta al senso del romanzo, che accetta la versione ufficiale del singolo uomo che agisce in solitudine), diventa così eroe con cui (segretamente) simpatizzare, colui che è stato in grado di fare quello che tanti (gli sconfitti) hanno solo saputo sognare. Oswald diviene il liberatore della massa grigia, furiosa, oppressa, di tutti quelli che non ce l’hanno fatta o che non hanno voluto farcela.
Solo in quel momento Wilder si rese conto di cosa provava, e se ne andò in cucina a bere di nascosto un sorso del whisky che Janice teneva per gli ospiti. Provava simpatia per l’assassino e sentiva di capire il suo movente. Kennedy era troppo giovane, troppo ricco, troppo bello e troppo fortunato; era l’incarnazione dell’eleganza, dell’intelligenza e della finezza. Il suo assassino aveva parlato in nome della debolezza, delle tenebre nevrotiche, della battaglia senza speranza e delle passioni autodistruttive dell’ignoranza, e John Wilder comprendeva tutte queste forze anche troppo bene. Si sentiva quasi come se fosse stato lui a premere il grilletto, ed era sollevato di essere lì, tremante e in salvo nella propria cucina, a tremila chilometri di distanza.
Il termine wild-(er) può essere tradotto in diversi modi: non domestico, violento, selvaggio, sfrenato. Ecco, in Disturbo della quiete pubblica è precisamente di questo che si parla, della ragione in fiamme che vede attraverso se stessa, della furia che si abbatte contro ogni insopportabile ragionevolezza.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Ho beccato questo tuo post per caso. Mentre per tutti i precedenti ricevevo la mail di aggiornamento nella posta, stavolta zero! La segnalazione l’ho vista non so nemmeno come, rovistando su Facebook, che peraltro frequento molto raramente. Praticamente mai.
Come spiegare il gap? Ne hai un’idea? Mi succede solo nel tuo caso, hai cambiato qualche meccanismo?
(L’informatica mi fa ricredere sull’esistenza del Diavolo, il Diavolo esiste, eccome!)
No, non ho cambiato nulla. A me, a dire il vero, capita spesso di non ricevere notifiche del genere. Se sei alla ricerca di una spiegazione, io sono la persona meno adatta per aiutarti.
Penso che nessuno sia in grado di spiegare… io comunque ho rivisto e riconfermato i passaggi previsti…
Ho finito qualche giorno fa Revolutionary Road, splendido.
È stato per me il primo incontro con Yates. Incontro folgorante. Questo era un grande scrittore.
Era da tanto che non mi capitava di leggere avidamente e fino all’ultima riga… E, come da copione, ha avuto una vita non facile…