Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Disponevo di un’arma eccezionale. Pochi sanno usarla. Io invece ho un’abilità straordinaria con la lingua. So avvolgerla a vite, so imprimerle vibrazioni in senso orizzontale e verticale (in rapporto all’asse della faccia), posso ammucchiarla in fondo alla gola e poi catapultarla in avanti come un ariete, posso anche lanciarla con leggerezza come una canna da pesca, posso tenerla perfettamente immobile per qualche minuto e poi gettarla allo sbaraglio con movimenti sussultori come se fosse impazzita […]. E il ritmo. Senza ritmo non si combina niente, si fa confusione e niente altro. Il ritmo non è una cosa di quelle che si imparano, è un dono naturale che si può perfezionare, però bisogna essere dotati.
A leggerle così, queste righe tratte da Il serpente di Malerba possono essere prese per una mera descrizione dei (bizzarri) virtuosismi di cui il protagonista del romanzo è capace. Eppure questo passo dovrebbe essere letto anche come una affermazione di appartenenza, come una dichiarazione di poetica. E del resto non è solo il romanzo in sé (e la lingua che sapientemente e virtuosisticamente parla) a legittimare una tale lettura, ma anche il contesto storico in cui tale opera emerge. Basta dare uno sguardo alle date per capire come Malerba miri a collocare se stesso nella cerchia degli scrittori sperimentali che in quel momento si trovano organizzati nel Gruppo 63[1]. E difatti questo romanzo porta in sé tutte le caratteristiche del romanzo sperimentale, pur mantenendo una prudenza che lo distingue dalle sperimentazioni più ardite.
Al centro de Il serpente c’è un omicidio (forse). Il protagonista che dà voce al romanzo è un commerciante di francobolli che incontra una ragazza di nome Miriam, che diventa la sua amante. Presto, però, questa donna di cui si capisce e di cui si sa poco o nulla, diventa per il protagonista una vera ossessione, oggetto di una gelosia, di una mania di possesso che ne mina (proprio per mezzo di un possesso che si vuole assoluto o totale) la stessa esistenza. Tutto qui, apparentemente. Senza svelare troppo della trama (sempre che mantenere il riserbo sulla trama sia così importante – e non solo in relazione a quest’opera), si può certamente dire che Il serpente racconta una storia di cui il lettore è presto chiamato a dubitare. Nel senso che Malerba mette in soffitta qualcosa che viene dato per ovvio e cioè che la storia proposta al lettore sia anche una storia su cui il lettore può legittimamente fare affidamento. Le cose non vanno esattamente così. Il protagonista de Il serpente racconta la storia ma non per questo è necessariamente credibile, anzi, più si va avanti più il lettore (per natura credulone ed ingenuo) dovrà arrendersi all’idea che questo commerciante di francobolli sia in realtà un conta-storie, un conta-balle.
Inverosimile, non lineare, interrotto da corsivi che fanno da contrappunto alla trama catapultando il lettore in scenari apocalittici o accompagnandolo per mano lungo disquisizioni di natura teologica o scientifica; questo lo sfondo da cui emerge un personaggio che si sente portatore di una logica ferrea e capace di una rappresentazione veritiera della realtà che lo circonda. Presto, però, ci si accorge che in quest’uomo la precisione maniacale e la volontà di classificare ed incasellare ogni fenomeno servono a nascondere delle pulsioni incontrollabili. Cannibalismo ed erotismo esasperato sono le due direttrici lungo cui muove la vicenda e, su tutto (come fine ultimo o esito), l’ossessione per la morte, anzi una vera e propria riduzione della vita alla morte che, a sua volta, esplode in un’ossessione, in una fissazione capace di dare al pericolo un odore ed una consistenza quasi magica.
Sento di essere al centro di qualcosa che non conosco, io sto lì al centro ma non so al centro di cosa mi trovo.
Morte che è presente in tutto, anzi, che è tutto. È (o coincide con) la Roma evanescente, evaporata e smaterializzata che fa da scena agli spostamenti del protagonista a bordo della sua Seicento. È in corpi apparentemente sani e forti, è nei pensieri ossessivi, è il rovescio della buona coscienza delle persone. La morte, in fondo, è questo stesso romanzo che procede e procedendo distrugge ed annulla se stesso, che si annulla e contraddice aprendo ad un circolo vizioso (o virtuoso?) di cui la figura del serpente è autorevole metafora. Romanzo che nega se stesso, insomma. Ad essere rigorosi di dovrebbe riassumere così: se la negazione è sottrazione d’essere, allora questo romanzo esiste in virtù della sua non-esistenza.
[1] Non solo Malerba esordisce proprio in quegli anni con La scoperta dell’alfabeto (1963) cui segue, appunto, Il serpente (1966), ma un suo pezzo teatrale comparirà proprio in un’antologia del Gruppo 63. A tal proposito si rimanda al bel saggio (introduttivo al romanzo) di F. Muzzioli, Le verità del racconto mendace.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Un libro meraviglioso e profondamente eversivo. al pari del quasi coevo Salto mortale.
Adoro Malerba. Salto mortale è da qualche mese nella mia libreria, in attesa di lettura.
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