Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Storie, storie, storie: per me non esiste altro. Spesso gli scrittori che non riescono a inventare una storia seguono altre strategie, perfino sostituendo lo stile alla narrazione. Io invece sono convinto che la storia sia l’elemento di base della narrativa, anche se questo ideale non gode di molta popolarità tra i discepoli del nouveau roman. Mi ricordano quel pittore che non riusciva a dipingere le persone, così dipingeva sedie. Le storie ci accompagneranno finché esisterà l’uomo. Lo si capisce, in parte, dall’effetto che hanno sui bambini. Grazie alle storie i bambini capiscono che il mistero non li ucciderà. Grazie alle storie scoprono di avere un futuro[1].
Ebreo newyorkese, figlio d’un droghiere, Malamud, dopo un lungo apprendistato, giunge al successo alla fine degli anni Cinquanta grazie alla pubblicazione di alcune opere di incredibile interesse. Fra queste spicca la raccolta di racconti dal titolo Il barile magico, che vince il prestigioso National Book Award nel 1959.
Si dice sempre che parlare di una raccolta di racconti sia affare complicato. Ed è assolutamente vero, soprattutto se si cerca di farlo con una raccolta così insidiosa come questa, che si presenta semplice e piana, scritta con uno stile che invita il lettore a scivolare di pagina in pagina senza che nulla sia lì a sbarrargli (giustamente) la strada. Qui non si ritrovano quei burroni e tornanti linguistici e concettuali con cui sono soliti metterci alla prova tutti quegli scrittori che per definizione non hanno alcuna intenzione di trovare seguaci (o alleati) fra i lettori sprovveduti. No, l’operazione di Malamud è diversa. Fra gli scrittori-nemici-dei-lettori-a-buon-mercato e gli scrittori-a-buon-mercato (quelli che, riprendendo la definizione di Adorno, producono letteratura amena), ci sono poi quelli che fingono di essere semplici per poter così tenere, al tempo stesso, lontani e vicini i lettori sprovveduti e riservare a quelli più scaltri le riserve auree nascoste nelle loro opere. I racconti de Il barile magico appartengono appunto a quest’ultima categoria. La semplicità dello stile, la quotidianità in cui vengono messi in scena, il realismo di cui sono avvolti aprono, in realtà, ad una dimensione di pura trascendenza. Spaziando in lungo e in largo nell’esperienza umana, possono prendere le mosse dal dolore di uno scrittore fallito, di un uomo che chiede un prestito ad un altro uomo o, ancora, dalla noia esasperante d’un giovane negoziante, ma tutto questo è per Malamud un semplice pretesto. Quello che gli interessa è di trascinare il lettore fino ad altezze teologiche che trovano il loro punto di fuga (o di origine) nel problema della “sofferenza inutile”, o ingiusta. Questo tentativo è qui magistralmente incarnato nella vicenda di Manischevitz, sarto giunto al cinquantunesimo anno di vita e trasformato in novello Giobbe (servo sofferente del racconto biblico), nel racconto L’angelo Levine.
Manischevitz, un sarto, nel suo cinquantunesimo anno di età ebbe a patire molte disgrazie e molte offese. Uomo agiato, nel giro di una notte perse tutto che aveva quando il suo laboratorio prese fuoco e, dopo l’esplosione d’un recipiente metallico pieno di smacchiatore, bruciò fino alle fondamenta. Sebbene Manischevitz fosse assicurato contro gli incendi, le cause per danni intentategli da due clienti rimasti feriti fra le fiamme lo spogliarono fino all’ultimo centesimo di tutto ciò che aveva riscosso. Quasi contemporaneamente suo figlio, un ragazzo molto promettente, fu ucciso in guerra, e sua figlia, senza neanche una parola di preavviso, sposò un tanghero e sparì con lui come cancellata dalla faccia della terra. Poi Manichevitz fu colpito da atroci dolori alla schiena e non fu in grado neanche di fare lo stiratore […] La sua Fanny, buona moglie e brava madre, che s’era presa lavori di cucito e bucati da fare a casa, cominciò a deperirgli sotto gli occhi. Respirava con difficoltà, e alla fine s’ammalò gravemente e fu costretta a letto.
Manischevitz il sarto cerca di sopportare tutto questo con stoicismo, ma alla fine, convinto di non meritare così tante e terribili disgrazie, fa l’unica cosa che gli rimane.
Manischevitz entrò in una sinagoga per rivolgersi a Dio, ma Dio s’era assentato un momento. Il sarto frugò nel proprio cuore e non vi trovò speranza.
Eclissi di Dio, senso di estraneità e sradicamento, sofferenza inutile. Malamud, autore ebreo che racconta storie di ebrei in balia della grande e piccola Storia, prende le mosse da quell’essere straniero che caratterizza la condizione ebraica per la innalzarla e trasformarla in categoria dello spirito. Ne fa qualcosa di universale, qualcosa che gli permette di parlare dell’uomo in quanto tale, al di là di ogni appartenenza etnica o geografica. È di questa estraneità e di quella forza superiore che spinge a lasciare la (apparente) casa per mettersi alla ricerca d’Altro, è di questo che si parla. L’uomo-che-fugge e l’uomo-che-si-mettere-in-cerca-di-altro vengono a coincidere in un dramma che fa della fuga non qualcosa di accidentale, ma una componente essenziale dell’esistenza: fuga che è, paradossalmente, anche fuga dalla fuga e, quindi, ricerca di un luogo (utopico) in cui riposare, trovare pace, abbandonare l’inquietudine che scuote l’uomo dalle fondamenta.
Si, è proprio difficile parlare di un libro di racconti come questo.
[1] Da Bernard Malamud: uno scrittore di storie, in B. Malamud, Il barile magico.
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Vero. Malamud riesce a mostrare il lato duro della realtà collocandolo su di uno sfondo fantastico.
Anni fa lessi di Malamud Il commesso e L’uomo di Kiev . Ebreo newyorkese, dici, dunque dello stesso ambiente di Philip Roth; eppure Malamud riesce ad esprimere molto meglio, come definirla, quella quieta tristezza, quello struggimento senza rimedio che forse -forse- costituisce il tratto più profondo della sensibilità ebraica. I suoi personaggi, e soprattutto il sarto di cui ci parli, mi sembra siano tutti fratelli del piccolo libraio di Arkangelsk’ (uno dei Simenon da me più amati). Altro non aggiungo, che nella parte finale del post (così perfetta!) hai già detto tutto ciò che si doveva esattamente come si doveva.
Dici bene. Malamud ha un dono tutto particolare, quello di rendere, con la sua prosa, sia la specificità della condizione ebraica, sia la sua portata universale. Proprio in questi giorni sto leggendo le pagine che dedica alla scrittura ed alla letteratura. Ci sono dei paragrafi interessanti sul suo ebraismo, sul comico, sul legame fra diaspora e letteratura. Molto interessante.