Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Di Salvatore Tartaro si potrebbe dire che era un uomo taciturno, forse riflessivo, gentile, privo di problemi economici, sposato da ventiquattro anni e padre di una figlia brillante ed eccentrica. Per farsene un’idea generale si potrebbe riportare quello che di lui pensavano i vicini di casa, gli amici, il socio oppure, con un po’ di pazienza, scorrere i titoli dei libri allineati e perfettamente ordinati nella sua libreria in soggiorno, libri di cui andava fiero perché testimoni della coerenza della sua volontà, della volontà di un autodidatta di darsi una cultura. Ma ora, in questo momento, un tale quadro generale servirebbe a ben poco, poiché non permetterebbe di muovere neppure un passo nella giusta comprensione del periodo di grande difficoltà che Salvatore Tartaro da alcuni mesi tentava di fronteggiare. Insomma, quando le giornate non si susseguono più secondo schemi a lungo meditati e collaudati allora bisogna abbandonare il generale o, meglio, bisogna metterci la testa dentro, come in un pozzo.
Salvatore Tartaro aveva vissuto un’adolescenza piena di tormenti e affrontato lacerazioni solo in parte riconducibili alla vita reale e alle sue asperità; apparentemente libere da ogni riferimento concreto, quelle tribolazioni sembravano non avere origine o causa certa e, per conseguenza, gli erano rimaste opache ed incomprensibili. Conflitti senza nome liberavano quantità di energie degne di una fissione atomica o esistenziale e lui, che non sapeva cosa fare, cercava di smaltire tutto come fosse una brutta sbornia, mettendosi a camminare fino a che non si ritrovava come svuotato. Durante queste lunghe camminate prendeva forma, in lui, una primitiva tendenza alla riflessione. Intorno ai dodici anni in Salvatore Tartaro l’uso della ragione si era indissolubilmente saldato al corpo e, più precisamente, al corpo nell’atto del camminare: non si sentiva reale, non sentiva di esistere se non quando camminava. Era qualcosa come… “cammino, dunque sono”. È così che nel suo quartiere aveva guadagnato fama di grande camminatore e, per alcuni, di futuro vagabondo. Libero e felice agli occhi dei suoi coetanei, allo sbando secondo il giudizio degli adulti, una cosa era certa: se ci si affacciava alla finestra o si andava da qualche parte, che splendesse il sole o grandinasse, che fosse festa o giorno lavorativo, Salvatore Tartaro prima o poi sarebbe passato. Quelli erano stati anni belli e terribili allo stesso tempo e dopo tutto quel caos e la parziale ignoranza di sé e del mondo, finita la scuola e il servizio militare, la ricerca di qualcosa di stabile era stata per lui una priorità assoluta. Alla disperata ricerca di un lavoro, di qualsiasi lavoro, Salvatore Tartaro, di ritorno dal militare, si era imbattuto in un annuncio che aveva catturato la sua attenzione. Il giorno dopo si era presentato per un colloquio, limitandosi a balbettare che voleva lavorare e che non aveva paura né di svegliarsi presto al mattino, né di faticare. Gli avevano detto di aspettare e l’avevano congedato consegnandogli un libricino, giusto per dargli un’occhiata, per farsi un’idea del mestiere che voleva intraprendere, e cercare di capire se fosse tagliato per farlo. Dopo una settimana l’avevano richiamato. In tutti gli anni che erano seguiti a quei pochi giorni di attesa, Salvatore Tartaro aveva avuto modo di fare un lavoro in cui non c’era bisogno di parlare troppo e che lo obbligava a stare tutto il giorno in piedi; e queste due caratteristiche gli piacevano, forse, più del lavoro in sé. Se qualcuno gli chiedeva cosa facesse nella vita, lui rispondeva con una certa soddisfazione: «falegname». Se poi quel qualcuno voleva sapere di più allora lui, molto semplicemente, spiegava che costruiva mobili e cioè letti, armadi, librerie, tavoli, sedie, porte e cose del genere, tutto su misura e, dove possibile, secondo i desideri del cliente.
Dunque, giovane irrequieto e taciturno, grande camminatore, abile al servizio militare, falegname, uomo sposato, padre. Due aspetti, entrambi fondamentali, mancano ancora all’appello, due direttrici, due binari lungo i quali la sua vita era corsa veloce fino al giorno dell’imprevisto deragliamento. Soffermarsi sul luogo del disastro significa capire perché, al momento, Salvatore Tartaro se ne sta immobile come un carrozzone rovesciato; ma prima, in due parole, gli elementi mancanti. Primo, quando passeggiava, quando lavorava, quando guardava un film o chiacchierava e in tutte le attività possibili ed immaginabili, a parte quando faceva l’amore, dormiva, mangiava o stava sotto la doccia, Salvatore Tartaro, non ci si poteva sbagliare, aveva immancabilmente una sigaretta stretta fra le labbra. Secondo, da anni non vedeva i genitori, né il fratello, né la sorella.
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Certo che la vita non sai mai cosa ti riserva. Verrebbe da dire le gambe a uno a cui piace camminare… A volte sembra che ci sia un divertimento perverso a monte, però.
Ci ho pensato e ripensato leggendo questo racconto che non è così fatalista, in fin dei conti.