Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Parlare di un romanzo di Pynchon è impossibile, perché impossibile è parlare della realtà nella sua totalità (cioè, è impossibile parlare della totalità dei fenomeni che si danno nello spazio e nel tempo). Impossibile è rappresentare la realtà; concepirla nel senso del concetto che è un tenere in pugno qualcosa. Pynchon cerca di fare tutto questo: rappresentare la realtà nella sua non-rappresentabilità; darci la realtà tutta intera e sottrarla alla presa nel momento stesso in cui la dona; scegliere un atto mancato. La Storia è andata in frantumi, eppure tutto è indissolubilmente legato. Tutto è legato, ma nessun senso preciso – e per preciso si deve intendere univoco – è rinvenibile. L’unica storia possibile risiede nel tentativo di trovare una narrazione che sia credibile o accettabile. L’unica possibilità rimasta è quella di raccontarsi una storia e tenerla per sé fino a quando ci appare degna di fede, prima che nuovi eventi la rendano del tutto inservibile (e cioè pienamente e definitivamente non-credibile). Raccontare V. sarà fatalmente un raccontarlo per come (ci) si manifesterà. Bisogna esserne semplicemente consapevoli. Ogni altro atteggiamento si risolverà in una inevitabile caduta nel dogmatismo: di chi ha scelto un suo aspetto piuttosto che un altro, pretendendo però di elevarlo ad unica lettura possibile; oppure di chi, nella pretesa di dire di tutto un po’, è riuscito a rendere di poco conto quel tutto stesso. Alla Storia seguono delle storie (e il “raccontar storie” ha già in sé tutta la carica autocritica necessaria, così come l’idea del raccontar frottole e dello spararle grosse). Allo stesso modo a V. (già da sempre polverizzato) seguirà un raccontar delle v. (necessariamente con la minuscola ed al plurale). È la città della Valletta di Malta? Veronica? Il Venezuela? Venere? Vheiss?…si potrebbe andare avanti così fino a tirar fuori tutti i punti di fuga disseminati nel romanzo, ma è questa stessa operazione a non aver senso: è impossibile recuperare tutto il materiale, tutto il vissuto disseminato: V. è una storia in-credibile, e cioè stra-ordinaria e non-credibile. Ognuno sceglierà la propria declinazione di V., ognuno terrà per sé la propria v.
V. non è un esito, non è l’unità (raggiunta) da due direttrici che si incontrano (infine, modernamente, romanticamente, ingenuamente) in un vertice che finalmente porta ad incontrarsi quanto era separato; non è ciò che riporta la differenza e l’alterità entro l’Unità, il Sistema, il regime dello Stesso. Quel vertice, in Pynchon, deve essere piuttosto inteso come origine sconosciuta, oggetto sì di nostalgia, ma in ogni caso irraggiungibile per definizione. L’uomo, nel suo affannarsi presso e dentro e lungo questa V., viene sempre e comunque spinto verso l’esterno, verso l’ignoto, verso la libertà e la scelta. La V. si moltiplica in innumerevoli v., in bivi che chiamano alla scelta individuale e alla responsabilità della scelta stessa. Non solo Benny Profane, Stencil o quelli della Banda dei Morbosi, o Esther o tutti gli altri personaggi del romanzo, ma anche il lettore viene chiamato a fare una scelta, a darsi un percorso di lettura, di comprensione. Insomma, Pynchon sembra “raccontarla grossa”, solo che qui, in queste cinquecento e più pagine, di fatti propriamente detti sembrano non essercene. E non ce ne sono, se si è alla ricerca della coerenza e di un giardino ben curato, dove tutto è al suo posto ed è facile orientarsi dopo che qualcuno ha fatto il lavoro tutto per noi. Qui il lettore non viene chiamato solo a leggere. Per Pynchon il lettore deve avere ben altre doti, deve essergli affine: deve saper raccontare. Più precisamente, il lettore deve prendersi la responsabilità e la fatica di raccontarsi questa storia. E se poi avrà tempo, coraggio e forza, raccontarla a qualcun altro…che però sarà tutto preso in un’altra storia, e così via, e così via…tutti persi nella grande V.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Ciao Tommaso.
Veramente notevole come una serie di elementi siano comuni alle nostre due “recensioni”, come entrambi abbiamo cercato di descrivere V. per ciò che non è.