Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Nel 1975, dopo un silenzio di venti anni, William Gaddis cerca di raccontare gli Stati Uniti attraverso l’epopea del denaro. JR è il testo in cui tale tentativo si cristallizza. Cercare di riassumere la trama di questo romanzo è impresa ardua, tanto che sarebbe meglio limitarsi a dire che il pretesto narrativo è dato dalle vicissitudini della famiglia Bast. La morte di Thomas Bast dà il via ad un contenzioso per il controllo della General Roll Company. Da una parte c’è Stella, figlia del defunto, e dall’altra il fratello di Thomas, James che detiene, con le sorelle Anna e Julia, parte delle azioni della GRC. Il tutto è ulteriormente complicato dalla presenza di Edward Bast, figlio illegittimo di James che potrebbe rivendicare metà delle azioni di Stella. A dire il vero questa è solo la minima parte di una lista di personaggi decisamente più lunga. Un solo nome ancora, Jack Gibbs, ex-amante di Stella che detiene una piccola ma virtualmente decisiva quota di azioni della società. Entro tale contesto si inserisce la figura di JR Vansant, undicenne lasciato a se stesso, che durante una gita scolastica impara dalla bocca dello zio di una sua insegnante che il “denaro è credito” e che il modo per fare soldi è far sì che il denaro degli altri lavori al servizio del nostro profitto. Qui ha inizio la spregiudicata scorribanda del ragazzo nel mondo della finanza. Grazie ad una causa intentata e ad una partita di forchette da picnic, JR riesce a mettere in pratica le due regole auree impartitegli durante la gita e ad inserirsi nel processo di accumulazione di merci e denaro che è alla base del capitalismo. Ed è esattamente con del denaro dato a credito che JR riesce a legare a sé Edward Bast, giovane compositore e professore di musica. JR ed Edward Bast entrano nel meccanismo della finanza e ne vengono risucchiati e quanto il giovane compositore chiede al ragazzino di fermarsi, quello gli mostra che non è possibile. E in effetti JR ha capito anche un’altra cosa essenziale e cioè che il gioco della finanza è un gioco che non si può smettere di giocare, anche se si è già vinto molto: “devi continuare a giocare anche se vinci! Come questi broker, questi garanti, queste banche, qualunque cosa tu faccia c’è qualcuno che intasca la percentuale, la commissione, l’interesse, si conoscono tutti, combinano tutti questi affari, ti danno tutti questi consigli perché sono dei grandi esperti, come faccio a fermare tutto?” (p. 823). Appunto, percentuali, commissioni, broker, banche, garanti. Tutti a lavorare, ovvero a “far girare”, con lo stesso mezzo, il danaro: money. Tommaso Pincio nel bel saggio introduttivo (A novel about futures) al romanzo, istituisce fin dal principio il legame fra denaro e fede. Essendo la banconota priva di valore intrinseco, il suo valore sta nella fiducia nel sistema stesso. Il denaro è dunque credito, cioè, non solo il vantare un credito, ma anche un dare credito, e cioè fiducia, al sistema in cui si vive. E però in JR il denaro si colora della sinistra valenza di medium impersonale. È a Simmel che qui ci si può richiamare, e all’idea che sia “equivalente universale”, in modo tale che tutto si ritrova ad essere investito dello status di merce. Ora, tutte le merci si corrispondono secondo l’equivalenza senza che si possa più tener conto delle “qualità”. E del resto cosa hanno a che fare fra loro tutte le cose ammucchiate nella stanza che JR tiene per depositare il materiale delle transazioni e per fare da ufficio ad Edward Bast? Nulla. Però ben rappresenta l’idea del capitalismo come forza che riesce a rendere il mondo una montagna di merci. In questo senso il capitalismo è luogo dell’immanenza realizzata, poiché non vi è scopo ulteriore: profitto vuole profitto, unzione (mai estrema) di un meccanismo a ciclo continuo che non (può) conosce(-re) soluzione di continuità. In questo senso l’appartamento che JR prende in affitto ad uso ufficio/magazzino diviene allegoria del mondo nel suo viavai di uomini d’ogni genere, artisti falliti, donne alla ricerca di unioni impossibili. E su tutto e tutti, incombente ed immateriale, la voce dominante, quella che ha per scopo l’arraffare – la voce di JR dal telefono che non tace mai.
Il denaro pervade tutto, satura la realtà e saturandola crea la paradossale condizione di perenne movimento e cambiamento e circolazione e rottura e, al tempo stesso, di totale soffocamento. Nella sua pervasività, il denaro paralizza le energie spirituali, i sentimenti, l’arte, la generosità. Tutti sono coinvolti e travolti da questa forza cosmica; nessuno è fuori dalla sua influenza. È a partire da tale constatazione che Gaddis presenta la condizione dell’artista entro il capitalismo. A partire da Jack Gibbs e il suo monumentale saggio incompiuto. Thomas Eigen che non riesce a scrivere un’opera sulla guerra civile americana, perché ha timore di non farcela, e, peggio ancora (parole di Marian, la moglie), perché “non ha rispetto per se stesso” (p. 355); Schramm che scrive un libro sulla seconda guerra mondiale e muore suicida; Schepperman, pittore che dipinge quadri che non gli appartengono, i cui diritti sono di Zona Selk, una ricca donna che si diverte a chiuderli a chiave senza farli vedere a nessuno. E poi la figura di Edward Bast, che più fra tutti si trova stretto nella morsa del denaro e che diviene collaboratore di JR e che mano a mano riduce le proprie ambizioni, esattamente come gli altri artisti che si incontrano nel romanzo. È in questa dialettica fra arte e denaro, del resto, che il romanzo si muove fin dalle primissime pagine, quando Julia ed Anne raccontano di come il padre avesse tentato di provare a suonare il violino e di come gli venne rotto in testa: “eravamo una famiglia di quaccheri, in fondo, dove le cose che non rendevano non si facevano e basta”. JR incarna il vuoto affettivo e l’isolamento di chi è dedito unicamente al profitto. Tale isolamento non è visibile solo in rapporto ad Edward Bast, quando il giovane compositore cerca di fargli ascoltare una cantata di Bach e dopo avergli chiesto: “dimmi cos’hai sentito” e alla fine si sente rispondere: “prima di tutto c’è questa musica solenne, dico bene? Poi c’è questa signora che comincia a cantare cosa fai, cosa fai, e allora quest’uomo comincia a cantare me la dai, poi ci sono delle parole e lei si mette a cantare cosa fai, cosa fai, allora lui si mette a cantare me la dai, e poi vanno avanti e indietro in questo modo, cosa fai, me la dai, cosa fai, me la dai, ecco quello che ho sentito! Cioè, vuole che lo ascolti un’altra volta?” (p. 836). JR si mostra privo di umanità anche con la signora Joubert, quando afferma “che per tutto quello che si vede in qualche posto c’è un milionario” e non riesce a rendere conto del cielo (p. 604-5). Eppure, come già accennato, non ci sono buoni e cattivi e JR è pur sempre un ragazzino di undici anni che si limita a seguire modelli che lo circondano e a farlo per colmare il vuoto di una famiglia che non c’è e di una scuola a sua volta ridotta ad azienda e quindi incapace di assolvere ai propri compiti. Certo, il quadro che Gaddis ci offre è decisamente cupo. Niente a che fare, ad esempio, col mondo post-apocalittico di McCarthy che ne La Strada assegna al bambino il compito di fondare un futuro nuovo. Qui i ragazzi sono il banco di prova per illustrare tutta la negatività di cui la società è imbevuta. Perfetti perché non seguono le mediazioni e i freni che gli adulti, al contrario, hanno imparato a porsi. Tommaso Pincio ci fornisce una definizione illuminante del romanzo di Gaddis, un “trionfo di voci”. Ma insieme al trionfo, rovescio di tale glorioso e lussureggiante “parlare”, sta la sconfitta di ogni possibile comunicazione: interruzioni, contrattempi, ambiguità. Tutti, in questo romanzo, sono convinti di aver compreso l’altro e di essere stato compreso a sua volta, ma nessuno può garantire che una effettiva comprensione vi sia stata. Il romanzo va avanti, il linguaggio fa acqua da tutte le parti, e l’unica difesa sta nel tentativo di portare le parole ad unità, mentre queste colano dalle labbra, inzuppando tutto. Il lettore stesso, che non può permettersi di starsene tranquillo a leggere, è più simile ad una vecchietta in affanno, tutta intenta a raccogliere da terra le perle taroccate che si sono sparse un po’ ovunque, dopo che il filo della collana si è rotto. Gaddis ci tuffa direttamente in uno dei grandi (e finanziariamente fecondi) cortocircuiti di cui il capitalismo vive: messaggio senza comunicazione e comunicazione come scambio di informazioni prive di espressione. Gaddis è ostico, volutamente difficile. Chiama il lettore alla fatica dell’ascolto, quella fatica di cui non vi è traccia, o quasi, in tutto il romanzo, che è una carrellata interminabile di interruzioni e sovrapposizioni di discorsi, sordità e dimenticanze. In questo che è un “trionfo di voci” spetta al lettore di cavare una storia “dal continuo chiacchiericcio” cui Gaddis ci destina. Nessuna mediazione da parte dell’autore. I personaggi si muovono in un testo che fin dalle primissime battute prende le sembianze di una scena teatrale. Cade la descrizione dei luoghi, l’identificazione di chi parla, così come ogni forma di comunicazione non verbale. Si deve passare per una citazione dall’Enrico V di Shakespeare prima di iniziare la lettura, ma forse, non meno di Once more unto the breach, dear friend, once more, non ci si sarebbe stupiti nel leggere la risposta che Amleto dà a Polonio, Words, words, words. Una montagna di parole in cui il lettore viene catapultato, pagine in cui bisogna usare gli occhi per ascoltare, poiché tutto è ricondotto entro una dimensione acustica. Non il fruscio o il tintinnio del denaro, ma quello delle parole richiama ad un risveglio dell’intelligenza. In altre parole, al lettore e solo al lettore Gaddis ha lasciato il compito di fare ordine nel testo, per controllarne l’entropia (concetto ricorrente nel romanzo), e così evitare il trionfo dell’equivalenza universale che il denaro istituisce, e così il brusio delle cose, l’indeterminato, l’inumano. Riscattare lo stesso JR, che è alla ricerca di qualcuno che lo ascolti, e rispondere di si al suo ultimo, grottesco appello, al suo chiedere: “hei, mi sente? Ehi? Mi sente?”.
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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